Sū Shì 蘇 軾 ( 1037 d.C.- 1101 d.C., nome di cortesia: Zĭzhān 子 瞻 ), generalmente conosciuto come Sū Dōngpō 蘇 東 坡 ( dal suo pseudonimo “Dōngpō Jūshì” 東 坡 居 士 , vale a dire: “Colui che risiede a Dōngpō”), fu un brillante letterato ed uomo politico dell’epoca Sòng 宋 朝 , autore di molte famose poesie.
Come dice l'antica massima " quandoque bonus dormitat Homerus ". Anche al nostro poeta accadde quindi, di tanto in tanto, di comporre versi poco ispirati. A questo riguardo, ci è stato tramandato un divertente aneddoto, di tono leggermente goliardico, che offre tuttavia lo spunto a profonde riflessioni.
Dopo anni di studio e di meditazione, Sū Dōngpō è convinto di aver raggiunto l’atarassia e di essere ormai insensibile alle debolezze umane, che i Buddisti riassumono nell’espressione figurata “ gli otto venti” ( orgoglio, vanità, rispetto umano, sete di piaceri, avidità, avarizia, timore della povertà, paura delle disgrazie).
Compone allora la seguente quartina:
“Ormai divenuto saggio, mi inchino dinanzi al Cielo
e l’aureola che mi cinge la fronte illumina l’universo.
Gli otto venti non riescono a smuovermi di un pollice
mentre siedo sereno sulla mia dorata foglia di loto.”.
Soddisfatto di sé stesso e della sua poesia, invia un domestico a mostrarla al monaco Fó Yīn, che abita in una capanna al di là del fiume.
Dopo un po’ di tempo il domestico ritorna e Sū Dōngpō gli strappa letteralmente di mano la poesia, ansioso di leggere il commento di Fó Yīn. Il giudizio del monaco si riassume in una sola parola: “Una scorreggia”.
Sū Dōngpō è furibondo. “Come si permette quel cialtrone di offendermi e di deridermi in questo modo ?. Vado immediatamente a dirgli ciò che si merita”.
Esce subito di casa, corre alla riva, salta sul traghetto, attraversa il fiume, si affretta verso la capanna di Fó Yīn. Da lontano vede che sulla porta della capanna è affisso un foglio. Si avvicina e legge:
“Gli otto venti non riescono a smuovermi di un pollice...
ma una sola scorreggia mi fa volare al di là del fiume.”.
Anche in un'altra storiella - abbastanza curiosamente, data la sua popolarità e la sua fama di saggezza- il poeta non fa una gran figura.
Sū Dōngpō si vanta con sua sorella di aver “dato una lezione” al monaco Fó Yīn.
“Oggi ci siamo incontrati” racconta”ed io gli ho chiesto di dirmi che aspetto avevo. “Sei nobile e splendido come un Buddha” mi ha risposto e poi mi ha domandato a sua volta “Ed io che aspetto ho?”. “Sei brutto e sporco come uno sterco di vacca ”. Non ha osato replicarmi nulla perché gli ho semplicemente detto la verità.”
“Povero sciocco” gli risponde la sorella “ Ciascuno di noi vede gli altri con gli occhi della propria mente. Fó Yīn ti vede nobile e splendido come un Buddha, perché la sua mente è piena di idee pure e belle. Tu lo vedi brutto e sporco come uno sterco di vacca, perché la tua mente è piena di pensieri volgari e meschini”.
Sū Dōngpō dimostrò sin da giovane una grande prontezza di spirito.
Si narra che quando appena ventenne, nel 1057 d.C., affrontò gli esami per ottenere il diploma di “jìnshì “ 進 士 , la sua dissertazione sul tema “Pene e ricompense per i meriti” (刑 賞 忠 厚 之 至 論 “xíng shăng zhōng hòu zhī zhì lùn”) fu considerata di gran lunga la migliore di tutte quelle presentate dai candidati.
Il presidente della commissione esaminatrice, il celebre scrittore e poeta Oū Yángxiū 歐陽脩, uomo di vastissima cultura, notò tuttavia una citazione storica che non gli sembrava rimandare ad alcun testo da lui conosciuto.
Si trattava del seguente passaggio:” Al tempo dell’imperatore Yáo, il ministro Gāo Táo ordinò di giustiziare un uomo. “Uccidetelo” disse tre volte Gāo Táo. “Risparmiatelo” disse tre volte Yáo. Ecco perché la gente temeva il rigore con cui Gāo Táo applicava la legge e si rallegrava invece della mansuetudine dell’imperatore Yáo”.
Oū Yángxiū fece quindi chiamare il candidato e lo pregò di spiegargli da quale raro documento avesse tratto questo episodio.
Il giovane si trovò in difficoltà perché non poteva confessare di averlo inventato di sana pianta senza perdere la faccia , ma si cavò brillantemente d’impaccio raccontando un aneddoto relativo ad un letterato dell'epoca Hàn, che, invitato a documentare una citazione di pura fantasia, aveva confuso il suo interlocutore con una risposta sorprendente. In questo modo prese due piccioni con una fava: non ammise esplicitamente la sua improntitudine e fornì all’esaminatore un’ulteriore prova della sua eccezionale preparazione.
L’aneddoto, riportato nel volume 70, paragrafo 19, del Libro dei Hàn Posteriori (後 漢 書 “hòu hànshū”) è il seguente:
“Quando Cáo Cāo conquistò Yèchéng, molte dame della famiglia Yuán furono fatte prigioniere e suo figlio Cáo Pī prese per sé la moglie di Yuán Xī, la signora Zhēn. Allora Kóng Róng scrisse a Cāo: “ Il re Wŭ di Zhōu, dopo aver sconfitto il re Zhòu della dinastia Shăng, offrì Dájĭ, la concubina del re spodestato, a suo fratello, il duca di Zhōu”. Cāo, che non aveva mai sentito parlare di questo fatto, gli domandò da quale fonte storica lo avesse attinto. Róng rispose: “Avendo visto ciò che è successo ora, ne ho dedotto che è sicuramente accaduto così anche in passato”. (初,曹操攻屠鄴城,袁氏婦子多見侵略,而操子丕私納袁熙妻甄氏.融乃與操書,稱「武王伐紂,以妲己賜周公」. 操不悟,後問出何經典。對曰:「以今度之,想當然耳).
Le due poesie che Sū Dōngpō 蘇 東 坡 dedica a Mèng Jiāo 孟 郊 fanno, se lette una dopo l’altra, una strana impressione.
La prima è infatti una stroncatura netta e senza appello. I momenti felici che si incontrano nelle liriche del “poeta dalle canzoni amare”(苦 吟 詩 人 “kŭ yín shīrén”), sono rari e sperduti come fiori nella steppa. Sorbirsi lagne e lamenti senza fine per scoprirne uno è un gioco che non vale la candela. La vita è breve e conviene trascorrere il tempo in modo più allegro.
La seconda sembra implicare un giudizio più sfumato. Sū comincia anche qui con l’affermare che detesta la poesia di Mèng , ma ammette poi di apprezzare talune composizioni in cui ritrova la semplicità degli antichi.
A ben vedere, però, la seconda poesia non modifica sostanzialmente la valutazione critica formulata nella prima. Se alcune liriche sono degne d’elogio, l’opera di Mèng Jiāo rimane, nel suo complesso, pesante e indigesta.
Leggendo le poesie di Meng Jiao 讀孟郊詩二首 dú mèng jiāo shī èr shŏu
Ieri sera leggevo le poesie di Mèng Jiāo. Caratteri fini come peli di vacca.(2) Una luce fredda illumina fiori sparsi. Di tanto in tanto si incontra un bel passaggio, isola profumata in mezzo alla sterpaglia, persa tra i paroloni dei vecchi poemi. (3) L’acqua è limpida , si distinguono le rocce, ma le rapide non sopportano le barche.(4). All’inizio è come mangiare pesciolini: mastichi molto, ma ne trai poco piacere. O come bollire i granchiolini di terra:(5) ti ritrovi in mano soltanto chele vuote. Poteva eguagliare la purezza del bonzo, (6) ma rimase lontano dallo stile di Hán. (7) La vita è come la rugiada del mattino. Giorno e notte la fiamma consuma la cera. A che può giovare tormentarsi le orecchie con le strida di questa gelida cicala? È molto meglio mettere via tali versi e sorseggiare un buon vino color di giada.
NOTE
1) Mèng Jiāo 孟 郊 (751 d.C.-814 d.C.), originario di Wŭkāng 武 康 (oggi Déqīng 德 清 ) nel Húzhōu 湖 州 , fu un poeta dell’epoca Táng. Vicino alla setta Chán, visse fino ai quarant’anni come eremita nella Cina Meridionale. Più tardi sostenne con successo l’esame per accedere alla funzione pubblica,ma dovette accontentarsi di un impiego modesto e mal retribuito. Visse tormentato dalla miseria e da numerose tragedie familiari. I temi della sua poesia sono crudi e realistici, il lessico arduo e duro.
2) L’inconsistenza della poesia di Mèng Jiāo, nella quale , secondo il critico, pochi e rari momenti felici emergono in un mare di mediocrità, sembra trovare un parallelo visivo nei gracili segni, sottili come peli di vacca, che appena si distinguono sulla superficie dei fogli bianchi. La metafora ha un senso solo se si immagina –come è senz’altro possibile- che Sū legga i testi di Mèng nel manoscritto originale.
3) Mèng Jiāo è qui accusato di far ricorso senza motivo ad un linguaggio arcaico, utilizzando parole difficili e obsolete tratte da opere dell’antichità quali “Il Libro delle Odi” ( il carattere 詩 indica il 詩 經 “shījīng”) o “I Tormenti dell’Esilio” (il carattere 騷 indica il 離 騷 “lí sāo” di Qū Yuán 屈 原 ).
4) Nelle zone delle rapide l’acqua è limpida, le rocce sommerse si distinguono bene, ma la corrente vorticosa rende estremamente difficile la navigazione. È molto più facile navigare dove non c’è corrente. L’acqua è torbida e non si vede il fondo, ma si può far forza sul palo e spingere avanti la barca. Il termine 篙“gāo” indica le barche che vengono mosse spingendo un palo contro il fondale del fiume.
5) Un commento cinese spiega che il termine 蟚𧑅 (“péng yuè”) equivale a 蟛 (“péng”), cioè “granchiolini di terra”, simili ai granchi, ma più piccoli. Il carattere 𧑅 è antico e raro. La componente 越 (“yuè”) ne indica la pronuncia.
6) Ho reso con “poteva” il verbo 要(“yào”) che significa, a stretto rigor di termini, “voleva”,”desiderava”. Il senso di questo verso e del successivo mi sembra infatti essere che Mèng Jiāo poteva eguagliare Jiă Dăo, ma non era in grado di sfidare Hán Yù. Con l’espressione “la purezza del bonzo” ( 僧 清 “sēng qīng”) Sū Dōngpō intende riferirsi allo stile scarno ed essenziale di Jiă Dăo 賈 島 (779 d.C-843 d.C.), che fu monaco buddhista. Il paragone non è tuttavia un elogio. In altra occasione , Sū definisce infatti “emaciata”(瘦 “shòu”) la poesia di Jiă Dăo estendendo impietosamente ed ingiustamente all’opera, che egli ritiene “priva di sostanza”, la magrezza dell’autore, il quale visse quasi sempre in condizioni di grande miseria. 7) Mèng Jiāo e Jiă Dăo furono stimati da Hán Yù 韓 愈 (768 d.C.-824 d.C.), uno dei più celebri poeti dell’epoca Táng. Sū non osa criticare Hán Yù, il cui stile sciolto e brillante era celebrato da tutti, ma giustifica il proprio giudizio affermando che Mèng tentò invano di avvicinarsi alla maestria di Hán.
Detesto davvero la poesia di Mèng Jiāo, ma voglio provare ad esprimermi come lui. (1) Lo stomaco vuoto emette urla lancinanti, topi famelici escono dai muri cavi. (2) È un grido che sgorga dai recessi dell’animo, un’angoscia che sale dal fondo del cuore. (3) È come il pesce pescato nel Fiume Giallo: che si cucina bollendolo nel suo grasso. (4) Eppure trovo buono “Il Mestolo di Rame” (5)(6) la cui semplicità mi ricorda gli antichi. “L’arco di pesco non colpisce più le anatre. (7) Danza solo e svelto nel manto da pioggia. Non si preoccupa di rovesciare la barca. Naviga sull’onda, non cammina per terra (8) La bella di Wú ha la pelle come la neve (9) mentre a piedi nudi lava i suoi bianchi veli. S’è sposata con un giovane pescatore e non conosce l’amarezza del distacco.”. Le tue rime che parlano di fiumi e laghi mi dan l’impressione di viaggiare lontano. (10)
NOTE
1) Potremmo pensare ad una specie di “prova del nove”. Sū Dōngpō vuole sperimentare se, immedesimandosi in Mèng Jiāo, sia possibile cogliere in questo poeta aspetti che sembrano sfuggire ad un’analisi critica fredda e obiettiva. Imita perciò nei versi successivi il lessico e i temi di Mèng .
2) Una rapida ricerca informatica mostra che non si tratta di citazioni letterali dalle poesie di Méng Jiāo. Sū Dōngpō ha semplicemente voluto riprendere i modi espressivi di quest’ultimo.
3) La poesia di Mèng Jiāo è l’espressione spoglia e immediata della sofferenza del poeta. Sū Dōngpō riconosce questa spontaneità, ma non è affatto convinto che essa produca vera poesia.
4) La metafora intende dire, a mio parere, che i temi abitualmente trattati da Mèng Jiāo non sono temi poetici. La descrizione della fame e della miseria non si presta ad abbellimenti stilistici, non tollera un linguaggio elegante e raffinato, non consente figure retoriche né allegorie, non permette alla fantasia di andare oltre l’amara e cruda realtà.
5) I dizionari traducono in inglese il termine “shàng”尚 (“shàng”) con “still”, “yet”,”even”. Mi è parso di poter interpretare questo termine nel senso di “ma”,”eppure”, cioè come una congiunzione avversativa che contraddice in parte le affermazioni che la precedono. Sū Dōngpō non ama la crudezza dei versi di Mèng Jiāo, ma cambia opinione con riferimento a talune liriche in cui gli sembra di ritrovare la semplicità dei poeti antichi.
6) Cominciano qui le citazioni dalla serie di dodici poesie intitolate “Salutando il venerabile Dàn”.(“送 淡 公 詩 十 二 首 “sòng dàn gōng shī shí èr shŏu”).
”Il Canto della Coppa di Rame” 铜斗歌(”tóng dŏu gē”) è il titolo dato alla terza poesia che così recita:
“Da una coppa di rame bevo il vino del fiume. e le mie mani ritmano il ‘Canto della Coppa’. Sono un pescatore che solca la corrente, che offre libagioni alle divinità delle acque. Poso il piede sulla prua della mia barchetta. Danzo e dondolo, avvolto nel mantello da pioggia. Rido e batto il tempo delle melodie di Yúyáng. Molte quelle ch’egli ha composto senza profitto. Mi appoggio stancamente al palo di verde bambù . Nel corso della giornata, che altro potrei fare?”.
La poesia sembra riferirsi a cerimonie di antichissima origine con cui i pescatori, fra canti e danze, offrivano libagioni alle divinità delle acque.
7) Troviamo qui una citazione dalla quarta poesia che recita:
“Nel loro corto mantello non temon la pioggia, simili a bianchi aironi che gareggiano in volo. Le loro pagaie penetrano tra le canne. Ritornando dalla pesca, remano con foga. Mi fan sorridere questi soldati dell’acqua, che cercano la gloria combattendo sull’onde. È meglio tendere l’arco di legno di bambù: non è certo un male andare a caccia d’anatre”.
Non si spiega perché nella poesia di Sū Dōngpō l’”arco fatto con un ramo di bambù”竹 枝 弓 (“zhú zhī gōng”) sia diventato l’“arco di legno di pesco”桃 弓 (“táo gōng”).Occorre però ricordare che in molte antiche cerimonie i danzatori sacri brandivano archi fabbricati con rami di pesco.
8) Sū Dōngpō cita qui la quinta poesia, che recita:
“Una freccia dopo l’altra, miro alle anatre, che si disperdono spaventate tra i canneti. Cadono anche alcune anatre mandarine. I loro colori squillanti le hanno tradite. Sono un uomo che si muove sulle limpide onde. Sulle chiare acque si dirige ogni mio passo. Mi fa ben ridere il notabile del villaggio Si crede elegante perché cammina all’asciutto. Un vecchio dai capelli pettinati con cura. Non indosserà mai la bandana del soldato!”
9) Non ho trovato nell’opera di Mèng Jiāo alcun riscontro a questo verso né ai tre che lo seguono. Una ricerca informatica impostata sul titolo “La Bella di Wú” (吳姬 “wújī) ha condotto ad una poesia di Xuē Néng 薛能 (circa 817 d.C.-880 d.C.). È possibile che Sū si riferisse ad una lirica di Mèng che non è giunta sino a noi.
10) Un commento cinese osserva che nell’ultimo distico compare l’espressione “fiumi e laghi” (江 湖 “jiāng hú”) che troviamo nella sesta e nella settima poesia della serie intitolata “Salutando il venerabile Dàn”. Non ho però riscontrato riferimenti più precisi e mi sembra quindi di poterne dedurre che, tutt’al più, la citazione ricorda l’atmosfera idilliaca di queste poesie ambientate nei villaggi di pescatori situati in riva ai fiumi e ai laghi.
Nella poesia qui sotto riportata Sū Dōngpō descrive con tratti vivaci e realistici una sua ubriacatura.
In visita al Monastero della Montagna d’Oro (1) ho bevuto insieme con Liŭ Zĭyù (2) e mi sono ubriacato.Per smaltire la sbornia mi sono disteso sul letto del bonzo Băo Jué. Essendomi risvegliato nel corso della notte, ho scritto sul muro della stanza i versi che seguono. (3)
Il vino cattivo è come un uomo malvagio. Ti assale con frecce, con lame affilate. Ho la nausea. Mi lascio cadere sul letto. Rinuncio a lottare per tener gli occhi aperti. L’anziano poeta si sforza di star sveglio.. La voce del vecchio monaco è bassa e chiara. Non riesco più a capire che cosa racconta. Sprofondo in un mare di nebbia rossa e verde. Mi sveglio quando la luna cade nel fiume. (4) Il sibilo del vento ha cambiato il suo ritmo. Una candela arde ancora sull’altarino, ma tutti e due i miei compagni sono scomparsi.
1) Il Tempio della Montagna d’Oro sorge a Rùnzhōu 潤 州 nel Zhèjiāng 浙江.
2) Secondo un commento cinese Liŭ Zĭyù 柳 子 玉 era il marito di una cugina di Sū Dōngpō, il quale lo menziona in alcune sue poesie.
3) La poesia sarebbe stata composta nel 1074 d.C. 4) L’immagine fantasiosa si riferisce alla notte inoltrata, quando la luna è così bassa che sembra quasi immergersi nel fiume.
Riporto qui di seguito un breve testo di Sū Dōngpō intitolato “Un racconto relativo ai bufali dipinti da Dài Sōng” (書 戴 嵩 畫 牛 “shū dài sōng huà niú”).
La storiella narrata da Sū Dōngpō ricorda la storia di Apelle e del calzolaio, citata da Plinio il Vecchio e da Valerio Massimo. Qui, tuttavia, il bovaro non esce dal campo delle sue competenze ed evita perciò la famosa replica: “Sutor, ne ultra crepidam!”.
Viveva nel paese di Shŭ (1) un eremita (2) chiamato Dù, che amava la calligrafia e la pittura e possedeva parecchie centinaia di opere, tra cui un dipinto di Dài Sōng (3), intitolato “Bufali”, che gli era particolarmente caro. Lo conservava in una custodia di broccato, arrotolato intorno ad un cilindro di giada (4), e sovente lo portava con sé. Un giorno che aveva steso calligrafie e pitture all’aperto perché prendessero aria (5), passò di lì un bovaro e vide il dipinto. Il bovaro battè le mani ed esclamò ridendo:”Questo dipinto mostra un combattimento fra bufali. I bufali combattono con la forza delle loro corna e, quando lottano, serrano la coda tra le cosce. Qui lottano scuotendo la coda. È sbagliato!”. L’eremita sorrise e gli diede ragione. Come dice l’antico adagio:” Per l’agricoltura chiedi al contadino; per la tessitura chiedi alla donna di casa”. (6) È così e non può essere altrimenti.
NOTE
1) Shŭ 蜀 è il nome con cui si indicava un tempo la regione del Sìchuān 四 川 2) Il termine 處 士 (“chŭshì”) indicava i letterati che si ritiravano dal mondo per dedicarsi interamente allo studio e alla meditazione.
3) Dài Sōng 戴 嵩 era un famoso pittore dell’epoca Táng 唐 朝 , maestro della pittura animalistica. Il suo soggetto preferito erano i bufali. La sua abilità nel dipingerli diede origine ad un detto: “ I cavalli di Hán, i bufali di Dài”(韓 馬 戴 牛 .”hán mă dài niú”). Hán Gàn 韓 干 era famoso per le sue immagini di cavalli.
4) Gli antichi Cinesi dipingevano su rotoli di carta, che venivano poi avvolti intorno a un cilindro e chiusi in una custodia di tessuto affinché non prendessero polvere e non fossero danneggiati dall’umidità.
5) Per una buona conservazione dei dipinti era opportuno ogni tanto esporli al sole e all’aria in modo da eliminare possibili tracce di umidità. Il termine 曝 (“pù”) significa “far seccare alla luce del sole”. 6) L’antico adagio usa i termini della società feudale in cui i lavori di casa e dei campi erano effettuati dai servi: per “contadino” dice infatti 奴(“nú” “servo”), per “donna di casa” dice 婢 (“bì””serva”).
In un secondo breve testo dedicato alla pittura Sū Dōngpō enuncia la differenza fondamentale che esiste, a suo parere, tra il bravo “artigiano”, capace di riprodurre perfettamente la “forma” delle cose, e il vero artista, capace di coglierne l’”essenza”. L’”essenza delle cose”, cioè “l’impronta dello spirito nel ritmo del creato” (氣 韻 生 動 “qì yùn shēng dòng”), per usare l’espressione che figura in un famoso trattato del V° secolo d.C., il “Gŭ Huà Pĭn Lù” 古 畫 品 錄 (“Classificazione dei pittori antichi”) di Xiè Hè 謝 赫 , può essere colta solo dal gentiluomo letterato, da colui che, grazie alla sua formazione umana, ha raggiunto una profonda ed intima consonanza con la natura Solo costui saprà immedesimarsi nel soggetto stesso che intende rappresentare.Il pittore professionale, invece, per quanto possa essere tecnicamente dotato, non possiede un adeguato bagaglio spirituale e culturale che gli consenta di andare oltre le apparenze materiali.
Questa distinzione è una costante del pensiero artistico cinese.
La troviamo già enunciata, in modo assai chiaro, ad esempio nella poesia di Dù Fŭ 杜 甫 che reca il titolo “Presentazione di un dipinto dedicata al generale Cáo Bà” (丹 青 引 贈 曹 灞 將 軍 “dān qīng yĭn zèng Cáo Bà jiāng jūn”).
Nelle valutazioni critiche di Dù Fŭ e di Sū Dōngpō si possono cogliere le premesse dottrinali di quello sviluppo che, sotto le dinastie Míng 明 朝 e Qīng 清 朝 , porterà la cultura cinese a rigettare la pittura professionistica e a coltivare la cosiddetta “pittura dei letterati” (文 人 畫 “wén rén huà”).
Parlando di pittura, io ritengo che gli uomini, gli animali, gli edifici, gli oggetti abbiano tutti una forma permanente, mentre le montagne e le rocce, i bambù e gli altri alberi, l’acqua e le onde, il fumo e le nuvole non hanno una forma permanente, bensì un’essenza permanente. Se rappresenti in modo errato la forma permanente, tutti se ne accorgono. Un errore sull’essenza permanente sfugge invece talvolta persino agli intenditori di pittura. Perciò tutti coloro che vogliono farsi un nome a buon mercato, ingannando la gente, puntano senza eccezione sulle cose che non hanno una forma permanente. Tuttavia, un errore relativo alla forma permanente ha una portata limitata al dettaglio sbagliato e non pregiudica l’intero quadro, mentre un errore sull’essenza permanente distrugge l’intera composizione. È proprio quando la forma di un soggetto varia che occorre fare attenzione alla sua essenza permanente. I buoni artigiani sono talvolta capaci di riprodurre perfettamente le forme, ma, per quanto riguarda l’essenza di un soggetto, soltanto le persone di grande talento (1) riescono a percepirla.
Di Yŭké (2) si può veramente dire che, quando ha dipinto i bambù, le rocce e gli alberi spogli, ha saputo sentire la loro essenza. Gli alberi, sembra davvero di vederli vivere, di vederli morire, di vederli crescere e ramificarsi e poi patire e soffrire, di vedere il loro fogliame diventare sempre più denso. Le radici, i tronchi, i nodi, le foglie, la dentellatura delle foglie, le loro punte, le loro venature e i loro filamenti, nelle infinite forme che possono assumere, non è tutto perfetto, con ogni dettaglio che sta sempre al posto giusto? C’è una tale naturalezza nei suoi dipinti (3) che lo spirito umano ne è saziato. Ecco dove può giungere l’uomo di cultura.
Anni addietro Yŭké aveva dipinto due macchie di bambù sulle pareti della stanza in cui viveva l’abate di Jìngyīn (4). In seguito, quando dovette dirigersi verso occidente per assumere la carica di governatore di Língyáng (5) ed io lo accompagnai a prendere congedo dal reverendo abate, Yŭké dipinse due piante di bambù e un albero disseccato nel refettorio dell’ala orientale del monastero. L’abate lo pregò allora di affrescare anche le quattro pareti della grande sala di preghiera e Yŭké accettò di farlo, perciò io lo riferisco qui. Di sicuro tutti coloro che distinguono l’essenza delle cose e sanno guardare in profondità, capiranno, alla luce di quanto sopra, l’esattezza di ciò che ho detto.
NOTE
1) Il termine 高 人 逸 才 (“gāorén yìcái”) può essere considerato un’endiadi perché 高 人 significa “uomo di grandi capacità e sapere” o “uomo di nobile carattere” mentre 逸 才 vale “individuo di straordinario talento”. Volendo. si può anche ipotizzare che questa formula più estesa miri a sintetizzare la definizione dell’artista che Sū Dōngpō intende qui fornirci: “una persona che unisce ad eccezionali capacità tecniche un’eccellenza intellettuale e morale che le permette di sentire in spontanea conformità con lo spirito dell’universo”.
2) Yŭké 與 可 è il nome di cortesia di Wén Tóng 文 同 (1019-1079), poeta e pittore originario del Sìchuān 四 川 , che fu amico di Sū Dōngpō. Acquistò grande fama per le sue immagini di bambù dipinte ad inchiostro (墨 竹 “mózhù”).
3) Il termine “tiān zào”天 造 significa letteralmente “fatto dal cielo” ed esprime quindi l’idea di qualcosa di “voluto dal cielo”,”spontaneamente conforme alle leggi della natura”. Ho pensato che Sū Dōngpō volesse indicare con questo termine una pittura di estrema naturalezza, priva di qualsiasi artificio.
4) Si tratta probabilmente del Shífāng Jìngyīn Chán Yuán 十 方 淨 因 禅院 (“ monastero pubblico Chán della Causa Pura”) fondato a Kaifēng 開 封 capitale della dinastia dei Sòng Settentrionali 北 宋 朝 nel 1049 d.C.
5) Língyáng 陵 陽 è il nome di diverse località. Visto che nel testo si parla di andare verso occidente, potrebbe trattarsi di Língyáng 陵 陽 nel Línzhōu 林 州 , città situata nella regione del Hénán 河 南 a nord-ovest di Kāifēng 開 封.
Il testo che segue fu scritto da Sū Dōngpō come colofone su un dipinto di Wú Dàozĭ appartenente al collezionista Shĭ Quánshū. Nel periodo in cui fu ospite di Shĭ Quánshū a Hénèi 河 內 presso Pénglái 蓬 萊 nello Shāndōng 山 東 , Sū Dōngpō scrisse lo stesso testo su una stele di pietra che si è conservata.
A proposito di un dipinto di Wú Dàozĭ
Coloro che sanno hanno le idee, coloro che possiedono le capacità tecniche le pongono in pratica.(1) Nulla è mai stato realizzato da una sola persona. Gli uomini di cultura ci hanno messo la loro scienza, artigiani di ogni tipo ci hanno messo la loro abilità, in un’esperienza che si è perfezionata partendo dalle più antiche dinastie (2), attraversando l’epoca dei Hàn e giungendo fino all’epoca dei Táng. La poesia è pervenuta fino a Dù Zĭmĕi (3), la prosa fino a Hán Tuìzhī (4), la calligrafia fino a Yán Lŭgōng (5), la pittura fino a Wú Dàozĭ (6), in un’evoluzione che si snoda dall’antichità sino ad oggi e che ha portato ad opere sempre più raffinate.(7) Le persone e le cose dipinte da Wú Dàozĭ sembrano vere. (8) Viste di fronte o di schiena, di lato o di sbieco, disegnate con tratti orizzontali o con tratti verticali, ciascuna di esse si moltiplica e si divide secondo un calcolo naturale e spontaneo senza scostarsi nel minimo dettaglio dalla realtà (9).Regole precise danno vita a nuove idee trasmettendo una verità misteriosa che va al di là della libera fantasia. (10) È stato scritto: “Muovo con facilità il coltello all’interno della carcassa” (11), “Roteò l’ascia creando uno spostamento d’aria”.(12) Dall’antichità fino ad oggi un solo uomo è stato capace di eguagliare tale maestria. Quando vedo altri dipinti, talvolta non riesco a identificarne con sicurezza l’autore, ma, quando mi presentano un dipinto attribuito a Dàozĭ sono immediatamente in grado di dire se è autentico o no. Di autentici, tuttavia, ne rimangono davvero pochi. Nel corso della mia vita non he ho visti più di un paio, nella collezione di Shì Quánshū (13), ed è tutto.
Scritto il settimo giorno dell’undicesimo mese dell’ottavo anno dell’era Yuánfēng. (14)
NOTE
1) Anche questo brano comincia con la solita distinzione: l’artista “crea” 創(“chuàng”), cioè inventa, l’artigiano “si ispira” 述 焉 (“shù yān”), cioè realizza l’invenzione, senza originalità, seppure con perfetta maestria tecnica.
2) Un commento cinese precisa che l’espressione 三 代 ( sān dài”), letteralmente “tre generazioni”, “tre periodi”, si riferisce all’epoca delle più antiche dinastie: 夏 (“Xià”), 商 (“ Shāng”) e 周 (“Zhōu).
3) Zĭmĕi 子 美 è il nome di cortesia del celebre poeta Dù Fŭ 杜 甫 (712 d.C-770 d.C.)
4) Tuìzhī 子 美 è il nome di cortesia del famoso letterato Hán Yù 韓 愈 (768 d.C.-824 d.C.)
5) Lŭgōng 魯 公è il nome di cortesia del calligrafo Yán Zhēnqīng 顏 真 卿; (709 d.C-785 d.C.)
6) Wú Dàozĭ 吳 道 子 (680 d.C. -760 d.C. circa) fu un noto pittore dell’epoca Táng 唐 朝 .
7) Ho così interpretato l’espressione 天 下 之 能 事 畢 (“tiān xià zhī néng shì bÌ”) che significa letteralmente “nel mondo si è perfezionata l’abilità di fare le cose”.
8) Ho così interpretato l’espressione 如 以 燈 取 影 (“rú yĭ dēng qŭ yĭng) che vale letteralmente “come se fossero immagini rischiarate da una lampada”, cioè viste in piena luce.
9) Sembra qui d’intendere che il risultato artistico sia anche il frutto del rispetto delle proporzioni matematiche esistenti in natura. Se così è, si tratta di un pensiero che trova perfetto riscontro nella più antica tradizione culturale europea. Già per i seguaci di Pitagora tutto, nell’universo, era disposto secondo numeri e formule matematiche.
10) Ho inteso questa frase come un logico sviluppo della precedente. L’applicazione di regole rigorose, nella specie delle proporzioni matematiche, porta a cogliere la “verità segreta”, l’”essenza misteriosa”delle cose ( 妙 理 “miào lĭ”), risultato che non si può ottenere se ci si affida semplicemente alla fantasia, anche se “libera e piena di vigore” (豪 放 “háofàng”). In altre parole, l’arte non è genio e sregolatezza, bensì severa disciplina e rispetto di precise norme fissate dalla natura. Questa osservazione appare, comunque, un po’ curiosa nella bocca di Sū Dōngpō, il cui stile poetico, vivace, sbrigliato e fantasioso, è tradizionalmente definito “háofàng” dalla critica letteraria. A meno di pensare che Sū Dōngpō enunciasse norme del tutto diverse per la pittura, da una parte, e per la letteratura, dall’altra, si deve ritenere che aderisse, come teorico, a princìpi che poi non applicava molto strettamente quando scriveva poesie.
11) Si tratta di una citazione dal terzo capitolo del Zhuàngzĭ 莊 子 , intitolato “I princìpi che nutrono la vita” (養生主 “yăng shĕng zhŭ”), nel quale si parla, tra l’altro, della straordinaria abilità del cuoco del principe Wén Huì che squarta la carcassa di un bue come se danzasse, con movimenti perfetti e senza il minimo sforzo.
12) Nel sesto paragrafo del ventiquattresimo capitolo del Zhuāngzĭ 莊 子, intitolato “Xú Wúguĭ” 徐 無 鬼 , si riporta un altro esempio di eccezionale abilità: “Zhuāngzĭ stava seguendo un funerale. Quando passarono dinanzi alla tomba di Huìzĭ, si guardò intorno e disse ai suoi discepoli: ‘Sul naso della statua di Huìzĭ c’è un grumo di fango piccolo come l’ala di una mosca’. Fece chiamare il falegname Shí perche lo togliesse. Shí roteò l’ascia in modo tale da creare una corrente d’aria che portò vià il grumo di fango, senza arrecare danno al naso né toccare alcun’altra parte della statua”.
13) Shĭ Quánshū 史 全𠦑 (scritto anche 史 全叔 ) è menzionato da Sū Dōngpō nella sua raccolta di appunti pubblicata postuma intitolata “La foresta di note di Dōngpō” (東 坡 志林 “dōngpō zhìlín”). 14) L’era Yuánfēng 元豐 durò dal 1078 d.C. al 1085 d.C. Il suo ottavo anno corrisponde dunque al 1085 d.C.
Quando sbarca sulla lontana e desolata isola di Hăinán, dove è stato mandato in esilio a causa del suo coinvolgimento nelle lotte politiche della capitale, Sū Dōngpō piange e si dispera. Poi, riflettendo sull’imprevedibilità della vita umana,che in un momento può passare dalla fortuna alla disgrazia, ma anche viceversa, riprende fiducia e si rasserena.
Scritto a Dān’ĕr (1)
Non appena giunsi sull’isola di Hăinán (2), vedendo intorno a me solo cielo e mare, fui colto dalla tristezza e mi chiesi: “Quando riuscirò mai a lasciare quest’isola?”. Poi, cominciai a riflettere: tutto il mondo (3) giace tra enormi distese d’acqua, le Nove Province (4) sono circondate dall’oceano, la Cina sta in mezzo a mari più piccoli. Chi di noi non vive su di un’isola? (5)
Allorché si rovescia a terra un catino pieno d’acqua, la formica che si era arrampicata su un filo d’erba, travolta da quella vasta inondazione, si dispera e non sa come potrà trovare scampo. Qualche istante dopo, l’acqua è stata assorbita dal terreno e la formica riprende il suo cammino, incontra le sue compagne e racconta loro piangendo:”Ho avuto paura di non vedervi più. Come avrei potuto immaginare che, in pochi istanti, mi si sarebbe aperta una strada così larga che due carri avrebbero potuto percorrerla fianco a fianco?”
Questo pensiero mi fece ritornare il sorriso.
Oggi, il dodicesimo giorno del nono mese dell’anno della tigre di terra (6), dopo aver bevuto con alcuni visitatori, leggermente alticcio, ho affidato al mio pennello il compito di scrivere queste note.
NOTE
1) Dān’ĕr 儋 耳 è il nome di una località sull’isola di Hăinán 海 南 che oggi è chiamata Dānzhōu 儋 州. Sū Dōngpō vi fu esiliato nel 1097 d.C.
2) Il testo originale reca Nánhăi 南 海 , termine che indica il Mar Cinese Meridionale in mezzo a cui sorge l’isola di Hăinán.
3) L’espressione “tiāndì” 天 地 , letteralmente “cielo e terra”, designa il “mondo intero”.
4) Con il termine “Nove Province” (九 洲 “jiŭzhōu”) si indicavano, negli antichi testi, i territori governati durante l’epoca arcaica dalle dinastie Xià 夏 朝 e Shāng 商 朝 . Esso fu più tardi utilizzato, specialmente in poesia, per designare la Cina. Il termine 中 國 (“zhōngguó”), che è oggi la denominazione ufficiale della Cina, è qui impiegato con riferimento ad un territorio più ristretto corrispondente alle Pianure Centrali.
5) Il termine “yŏu shēng”有 生 , cioè “coloro che hanno vita”, si riferisce, com’è ovvio, a tutti gli esseri viventi. 6) La datazione è qui fornita mediante l’antico sistema del ciclo sessagesimale. L’anno chiamato “wùyín” 戊寅, detto anche “La Tigre di Terra”, è il quindicesimo del ciclo sessagesimale. Esso corrisponde all’anno 1098 del calendario occidentale.
Nell’autunno del decimo anno dell’era Xīnìng (1), ci fu una grande inondanzione a Péngchéng.(2) Le acque sommersero sino a mezza altezza la casupola del signor Zhāng, che era soprannominato “l’uomo del monte Yúnlóng”.(3) Nella primavera dell’anno successivo, quando le acque si ritirarono, il signor Zhāng si reinstallò ad est della sua vecchia abitazione, proprio ai piedi della collina orientale, dalla cui sommità si gode davvero una magnifica vista, e costruì un piccolo padiglione in cima alla collina.
Pénchéng sorge su un’altura al centro di una grande conca di montagna che presenta un solo varco verso occidente e il padiglione del signor Zhāng guardava esattamente in quella direzione. Di lì, nel periodo tra la primavera e l’estate si poteva ammirare, a perdita d’occhio, il verde degli alberi e dei prati, mentre, d’autunno e d’inverno, la luna brillava su una sterminata, bianca distesa di neve. Vento, pioggia, nuvole, cielo sereno: ogni variazione del tempo creava un paesaggio diverso.
Il signor Zhāng possedeva una coppia di gru addomesticate, che volavano molto bene. Il mattino, le lanciava in volo rivolto verso quel varco che si apriva sul lato occidentale della cerchia delle montagne e le gru si dirigevano dove avevano voglia. Talvolta si libravano al di sopra delle risaie, talvolta si innalzavano sino alle nuvole, poi, la sera, ritornavano regolarmente alla collina. È per questo che il padiglione sulla collina fu chiamato “Il Padiglione Da Cui Si Alzano In Volo Le Gru”.
Quando ero governatore del distretto, mi recavo qualche volta con i miei amici ed i miei assistenti in visita dal signor Zhāng. Ci ritrovavamo al padiglione e ci rilassavamo un momento bevendo qualcosa insieme. Un giorno, mentre brindavamo (4), gli domandai:
“Vi rendete conto di quanto sia piacevole vivere lontani dalla società? Non scambierei tale vita nemmeno con il trono di un sovrano.” (5)
e continuai:
“Dice il “Libro dei Mutamenti” : “Quando la gru nascosta nell’ombra grida, la sua covata le risponde”. (6)
Dice il “Libro delle Odi”: “Quando la gru canta sui nove banchi di sabbia, la sua voce si sente fino in cielo”. (7)
Animale puro, lontano, libero e pacifico, la gru s’innalza al di sopra della polvere del mondo. (8) Ecco perché il “Libro dei Mutamenti” e “Il Libro delle Odi” la paragonano al saggio.
L’uomo virtuoso, che vive in solitudine, si diverte ad addomesticarla e a giocare con lei. Trae profitto da questo e non ne subisce alcun danno.
Non così accadde al duca Yì di Wèi (9), che perse il suo regno perché gli piacevano le gru. (10)
Il duca di Zhōu (11) scrisse un “Monito contro l’ubriachezza” (12) e il duca Wŭ di Wèi (13) compose un “Ammonimento”(14) sullo stesso tema perché entrambi ritenevano che non vi fosse nulla più dell’alcool in grado di provocare desolazione, confusione, disordine e rovina.
D’altra parte, poeti come Liú Líng (14) e Ruăn Jí (15), pur essendo degli accaniti bevitori , hanno saputo preservare intatte le proprie doti naturali e sono passati alla posterità.
Ahimè! Che se ne deve pensare?
Sembra doversene dedurre che un sovrano, per quanto puro, distaccato, libero e riflessivo possa essere, dovrebbe guardarsi dal prendere gusto al bere per non rischiare di perdere il proprio regno.
Viceversa, a chi vive lontano dal mondo, nascosto tra boschi e montagne, l’alcool, sebbene provochi desolazione, confusione, disordine e rovina, non può fare alcun male.
Questa riflessione non vale forse, a maggior ragione, per le gru?
Dobbiamo perciò concluderne che non si possono applicare gli stessi criteri di giudizio a situazioni ben diverse tra di loro, come quella di un governante e quella di un privato.”
Tutto contento, il signor Zhāng mi rispose sorridendo: “È proprio così”. Composi allora la seguente poesia sul lancio delle gru e sul loro richiamo:
Le gru si levano in volo verso il valico occidentale. Salgon nel cielo e dall’alto contemplano ove posarsi. Planando ripiegan l’ali quasi stessero scendendo, ma, ecco, qualcosa le attira e riprendono a volare. Stan sole per tutto il giorno, nei valloni dei torrenti, intente a beccare il musco, dritte sulle bianche rocce.
Quand’è buio ritornano dalle montagne dell’ovest. Un uomo, cappello giallo (16), calzature di paglia, abiti di rozza tela, sta in basso e suona la cetra. Mangia i frutti del suo orto e glie ne resta anche per voi. Tornate, gru, tornate! Non v’attardate sui monti!
Scritto in autunno, l’ottavo giorno del decimo mese del primo anno dell’era Yuánfēng. (17)
NOTE
1) Il decimo anno dell’era Xīnìng 熙 宁 ( che designa il periodo 1068 d.C.-1077 d.C. sotto il regno dell’imperatore Shénzōng 神 宗), corrisponde al 1077 d.C.
2) Pénchéng 彭 城 è l‘antico nome di Xúzhōu 徐 州 nel Jiāngsū 江 蘇 dove Sū Dōngpō 蘇 東 坡 era stato nominato prefetto.
3) Il soprannome fa pensare a una persona che vive da eremita: un saggio o un monaco. Il monte Yúnlóng 雲 龍 ,nei pressi di Xúzhōu, è annoverato fra le cinquanta montagne sacre al buddhismo.
4) Il testo cinese usa il termine 挹 (“yì” ), che significava originariamente “filtrare l’alcool” e che ha assunto, successivamente, il senso di “offrire”, in questo caso “offrire da bere”. Va ricordato che, per tradizione, quando la coppa di un convitato era vuota, essa veniva subito riempita da un altro convitato ed offerta cerimoniosamente all’interessato.
5) Il testo cinese reca 南面之君 (“nán miàn zhī jūn”), letteralmente “il signore che guarda verso sud”. I troni dei principi regnanti erano infatti sempre orientati verso il sud.
6) La citazione è tratta da un passo del commento al sessantunesimo esagramma del Libro dei Mutamenti (易 經 中孚九 二 “yì jīng zhōng fú jiŭ èr”) che, nella sua interezza, si legge come segue:” La gru nascosta sul lato nord della montagna grida e la sua covata le risponde. È come se dicesse: Ho una coppa di buon vino e la dividerò con voi. I suoi piccoli le rispondono dal più profondo del cuore”. (鳴鶴在陰,其子和之,我有好爵,吾與爾靡之. 其子和之,中心願也.)
7) Il verso citato è tratto dall’ode intitolata “Il Canto della Gru” (鶴 鳴 “hè míng”), che figura nella seconda parte del “Libro delle Odi”( 詩 經 “shī jīng”), “Piccole Odi”(小 雅 “xiăo yă”), “Decade di Tóng Gōng”( 彤 弓 之 什 “tóng gōng zhī shí”) , n.184. (鹤鸣于九皋,声闻于天). La menzione del numero nove è probabilmente legata al carattere sacro di tale numero.
8) Il termine 塵 埃 (“chén’āi”), letteramente “polvere e spazzatura”, indica il mondo dei fenomeni, la realtà apparente, tutto ciò che è mutevole e contingente. Un’espressione analoga è 塵 心 (“chén xīn”), cioè “cuore di polvere”, usata dal poeta Wáng Wéi 王 維 , nel suo “Canto della Sorgente dei Peschi” (桃 原 行 “táo yuán xíng”), per indicare le preoccupazioni mondane.
9) Il duca Yì di Wèi 衛 懿 公 regnò dal 668 a.C. al 660 a.C.
10) Sū Dōngpō intende qui sottolineare come la passione per l’allevamento delle gru, piacevole ed innocua per un privato, possa risultare disastrosa per un principe, che dovrebbe invece dedicarsi con tutte le sue forze al governo dello Stato.
Le “Memorie storiche (史 記 “shĭ jì”) di Sĭmă Qiăn 司 馬 遷 , nel capitolo dedicato alla casa reale di Wèi (衛 康 叔 世 家 “wèi kāng shū shì jiā”), narrano quanto segue:
“Il duca Yì ascese al trono. Aveva una grande passione per le gru. Indulgeva ai divertimenti e conduceva vita dissoluta. Nel suo nono anno di regno, i barbari Dí invasero Wèi. Quando il duca ordinò all’esercito di mettersi in marcia, molti soldati disertarono e si dispersero per i campi. I dignitari di corte osservarono: “Il nostro sovrano ama molto le gru. Potrebbe ordinare alle gru di andare a combattere contro i barbari.”. In seguito, i Dí riuscirono a penetrare profondamente nel paese e uccisero il duca Yì”.
Una storia analoga è riportata nel “Commentario di Zuò” (左 轉 “zuŏ zhuăn”) con riferimento ai fatti avvenuti nel secondo anno di regno del duca Mĭn di Lŭ 魯閔公, par.17 :
“Il dodicesimo mese i barbari Dí invasero Wèi. Era nota la passione smodata che il duca Yì di Wèi aveva per le gru. Le amava al punto di far trasportare alcuni di questi animali sulle carrozze che sarebbero spettate agli alti funzionari. Quando si avvicinò il momento della battaglia, i soldati rifiutarono di indossare le armature dicendo: ’Mandate le gru a fare la guerra! Sono loro che hanno ricevuto titoli e ricchezze!. Perché dovremmo essere noi a combattere?”
11) Dàn, duca di Zhōu 周 公 旦 (11° secolo a.C.), fratello del re Wŭ di Zhōu 周 武 王 , ricoprí importanti cariche ed ebbe fama di saggio. Gli sono attribuiti numerosi testi riportati nel classico intitolato “Il Libro dei Documenti” (尚 書 “shàngshū”).
12) Il “Monito contro l’ubriachezza” ( 酒 誥 “jiŭ gào”), attribuito al duca di Zhōu, figura nel “Libro dei documenti”尚 書 , “Libro dei Zhōu”周 書 . Il suo paragrafo 7 è del seguente tenore:
“Ho anche udito dire che l’ultimo sovrano della dinastia Shāng era un ubriacone che non imponeva alla gente obblighi sensati, ma sembrava soltanto divertirsi a compiere continuamente atti che provocassero risentimento. Straordinariamente malvagio e dissoluto, sacrificava al proprio piacere la dignità regale. Il popolo era gravemente turbato e ferito nei propri sentimenti da tale condotta, ma il sovrano beveva senza ritegno finché la sua mente era ottenebrata e non aveva più alcuna remora. I suoi crimini si facevano sempre più frequenti nella capitale dei Shāng e, sebbene la caduta della dinastia apparisse imminente, egli non se ne preoccupava né si curava che il profumo fragrante dei sacrifici potesse ascendere al Cielo. Ciò che saliva al Cielo era invece il puzzo del rancore popolare e dell’ubriachezza dei cortigiani, cosicché il Cielo fece discendere la rovina sulla dinastia e le tolse il suo mandato a causa di questi eccessi. Il Cielo non è crudele; sono gli uomini stessi che, moltiplicando le colpe, accelerano la propria punizione”.
13) Il duca Wŭ di Wèi 衛 武 公 regnò dall’813 a.C. al 758 d.C.
14) Nelle “Grandi Odi”(大 雅 “dàyă”) del “Libro delle Odi” (詩 經 “shĭjīng”), alla “Decade di Dàng (蕩 之 什 “dàng zhī shì”) figura un poema (n. 256) intitolato “Ammonimento” (抑 “yì”), attribuito al duca Wŭ di Wèi. Vi si leggono alcuni suggerimenti dati a chi vuole essere un buon governante, tra cui quello di non ubriacarsi perché, altrimenti “ le vostre capacità sono ridotte a nulla, siete instupiditi dal vino”.(顛 覆 厥 德 荒 湛 于 酒 “diān fù jué dé huāng zhàn yú jiŭ”).
15) Liú Líng 劉 伶 ( 211 d.C.-300 d.C.) fece parte del gruppo poetico noto come i Sette Saggi del Boschetto di Bambù (竹 林 七 賢 “zhúlín qī xián”). Amava molto il vino e, non per nulla, la sua poesia più famosa è intitolata “Elogio delle Virtù del Vino” ( 酒 德 頌 “jiŭ dé sòng”). Secondo la tradizione popolare, era sempre seguito da un servo incaricato di versargli il vino da una zucca ogni volta che provasse sete.
16) Ruăn Jí 阮籍 (210 d.C.-263 d.C), poeta e musicista, fece parte anche lui del già menzionato gruppo dei Sette Saggi, le cui riunioni erano sempre accompagnate da un abbondante consumo di bevande alcooliche.
16) Abiti e berretti gialli erano un tempo segni distintivi dei religiosi taoisti.
17) L’era Yuánfēng 元 豐 , “Inizio della Prosperità”, durò dal 1078 d.C. al 1085 d.C.