IL VIAGGIO DI LĂO CÁN
Capitolo I
“La siccità dura da anni ed uragani pericolosi possono scoppiare dovunque”
Ad est della prefettura di Dēngzhōu (1) nello Shāndōng c’è - secondo quanto si dice - un’alta collina chiamata il Monte Pénglai, su cui sorge uno splendido padiglione conosciuto come il Padiglione di Pénglai, che ha pareti dipinte con immagini di nuvole in movimento ed ornate di cortine di perle.
Di lassù, guardando verso occidente, voi potete vedere, immersa in una nebbiolina lattiginosa, una città in cui abitano migliaia di famiglie. (2)
Spesso, durante il pomeriggio, i cittadini salgono al padiglione, portando con sé un po’ del loro miglior vino, e vi si trattengono la notte per poter ammirare, all’alba del giorno seguente, lo spettacolo del sole che sorge dal mare.
Sembra che, un anno, tra i visitatori del padiglione ci fosse anche un certo Lăo Cán. Di cognome faceva Tiĕ (3), come nome personale si serviva di un nome inglese, ma era noto con il soprannome di Lăo Cán, cioè “il vecchio scorbutico” (4), che gli avevano affibbiato con riferimento alla storia del venerabile monaco Míng Lăn Cán. (5) Avevano cominciato a chiamarlo Lăo Cán perché era di tratto ruvido e scontroso, anche se in fondo gli volevano bene, e, a poco a poco, senza che nessuno se ne rendesse conto Lăo Cán era divenuto il suo soprannome., sebbene, a dire il vero, non fosse molto al di là dei trent’anni.
Tempo fa, abbordai alcuni suoi scritti e alcune sue poesie, ma poiché mi sembrarono difficili da digerire, non andai avanti nella lettura. Nessuno lo aveva mai voluto come insegnante e, poiché anche gli studenti lo ritenevano antiquato, non era mai riuscito a trovare un impiego.
Lăo Cán era originario del Jiāngnán.(6) Suo padre era un modesto funzionario ( di terzo o quarto grado), che, a causa del suo carattere rigido, si era sempre astenuto dal chiedere bustarelle ed era vissuto per un ventennio in condizioni di quasi indigenza, costretto a vendere i propri vestiti per tornare a casa con qualche soldo. Credete che gli rimanesse del denaro da dare al figlio?
Quest’ultimo non aveva quindi alcun patrimonio familiare da custodire né alcuna professione da esercitare.
Come è naturale, si trovò, a poco a poco, a fare i conti con due parole: “freddo” e “fame”.
Sembrava una situazione disperata, ma, per fortuna, a questo mondo si trova sempre una via d’uscita.
C’era un monaco taoista che andava in giro suonando dei campanellini e raccontando che uno sconosciuto gli aveva insegnato i metodi per curare qualsiasi malattia.
Il nostro Lăo Cán imparò dal monaco qualche formula magica e si mise a vagabondare agitando anche lui i campanellini. Curava la gente e si ingegnava così di far quadrare il pranzo con la cena. In questo modo, viaggiò in lungo e in largo per quasi vent’anni.
Una volta, gli capitò di trovarsi a Gŭqiānchéng (7) nello Shāndōng, dove un uomo di una famiglia importante, un certo Huáng Ruìhé, soffriva di una strana malattia. Il corpo gli si riempiva ogni anno di pustole purulente che degeneravano in piaghe. Se durante l’anno alcune di queste piaghe si chiudevano, altre se ne formavano l’anno seguente. Da gran tempo nessuno era mai stato in grado di curare questa malattia. L’eruzione cutanea avveniva sempre d’estate e raggiungeva il parossismo con l’equinozio d’autunno.
Quella primavera, quando Lăo Cán si trovò a passare di lì, il maggiordomo di casa Huáng gli chiese se potesse curare la malattia del suo padrone.
“C’è una cura efficacissima” gli rispose Lăo Cán”, ma voi dovrete seguire fedelmente le mie istruzioni. Questa volta proverò ad usare i piccoli trucchi che conosco e a sperimentare i miei metodi. Se le piaghe non si formeranno più, allora non ci saranno problemi. Basterà che continuiate a seguire i vecchi trattamenti anche se doveste ripeterli cento volte. I metodi di cura delle altre malattie ci sono stati tramandati dal Divino Agricoltore e dall’Imperatore Giallo. È soltanto questo particolare trattamento che fu scoperto da Yŭ il Grande. Esso fu, più tardi recepito, sotto la dinastia Táng da Wáng Jĭng (8), ma, in seguito, se ne perse la memoria. Per caso, oggi, queste conoscenze sono giunte fino a me”.
Così la famiglia Huáng affidò a Lăo Cán la cura del malato. Curiosamente, quell’anno, sebbene ci fosse una piccola eruzione cutanea, non si formarono piaghe e la famiglia ne fu molto soddisfatta.
Passò l’equinozio d’autunno senza che la malattia di manifestasse.
Per la gioia di essere sfuggito alle piaghe, cosa che non accadeva più da oltre dieci anni, il signor Huáng fece venire una troupe d’artisti e organizzò uno spettacolo di ringraziamento che durò tre giorni. Nell’atrio fiorito, sul lato occidentale della casa, fu creato un giardino di rocce e di crisantemi. Si fece festa, si banchettò, c’era chiasso e grande allegria.
Il giorno del banchetto, dopo aver pranzato, Lăo Cán si sentì un po’assonnato perché aveva bevuto due coppe di vino. Così si diresse verso la stanza che gli era stata assegnata e si sdraiò sul letto. Chiuse gli occhi e cadde in una sorta di dormiveglia. (9)
Dall’esterno entrarono nella stanza due persone. Erano Wén Zhāngbó e Dé Huìshēng, i suoi migliori amici.
“La giornata è ancor lunga” gli dissero “Che cosa fai qui chiuso in casa?”
Lăo Cán si levò rapidamente a sedere sul letto e rispose:” Son due giorni che sto qui a festeggiare . È faticoso passare il tempo a mangiare e a bere”.
“Stiamo andando a Dēngzhōu” gli spiegarono gli amici “ad ammirare il paesaggio che si vede dal padiglione di Pénglái ed abbiamo pensato specialmente a te. Abbiamo preso a nolo un calessino. Prepara i bagagli, per favore, e vieni con noi”.
Lăo Cán non aveva molti bagagli. Portava con sé soltanto qualche libro e un paio di bauletti, che furono rapidamente raccolti e caricati sul calessino.
In un attimo arrivarono a Dēngzhōu e trovarono due stanze libere in una locanda ai piedi del Padiglione di Pénglái. Rimasero a gustare la vista della città in mezzo al mare, uno stupendo miraggio.
Il giorno seguente Lăo Cán disse agli amici: ”Tutti affermano che lo spettacolo dell’alba è favoloso. Perché non passiamo la notte qui e non aspettiamo il sorgere del sole?”.
I due gli risposero: “Hai avuto una bella idea, amico. Rimarremo anche noi qui con te”.
Sebbene all’equinozio d’autunno notte e giorno siano di pari durata, si ha l’impressione che la notte sia breve e che l’alba sorga in mezzo alla nebbia.
I nostri attesero l’alba, stappando due bottiglie di vino e facendo onore alle provviste che avevano portato con sé. Mentre mangiavano, bevevano e conversavano, l’oriente si illuminava a poco a poco, in un crescendo impercettibile. In realtà, l’alba era ancora lontana.
Dopo che ebbero parlato un poco, Dé propose:” È quasi ora. Perché non saliamo in cima al padiglione per attendere l’alba?”.
“C`è un forte vento” osservò Wén” e la finestra in alto è troppo esposta. Qui fa caldo, ma lassù temo di prendere freddo. Per salire sarebbe meglio coprirci un po’di più”.
Tutti furono d’accordo, e ciascuno portò con sé un cannocchiale e delle coperte. Andando su per la scala che saliva a zig-zag sul retro dell’edificio, giunsero in cima al padiglione, e, sedutisi ad un tavolo che stava accanto alla finestra, guardarono verso est.
Videro, sul mare, una successione infinita di onde biancheggianti, simili a montagne, ed individuarono diversi punti di riferimento: volgendo lo sguardo verso nord-est, a Qīngyān, la più vicina era l’isola di Chángshān (10), più lontano si scorgevano le isole di Dàzhú e di Dàhēi.(11)
Il padiglione sembrava tremare sotto le raffiche di vento. Le nuvole si stavano gradualmente accumulando ed un nuvolone scuro si spostava dal nord verso il centro, schiacciando le nubi che vi si trovavano e che si addensavano sempre più ad est, come se non fosse rimasto loro altro spazio per muoversi.
All’improvviso il cielo si colorò di vermiglio.
“Caro Cán” esclamò Huìshēng ” temo che, questa mattina non potrai ammirare il sorgere del sole”
“Non importa” gli rispose Cán. ”Lo spettacolo del vento e del mare è già una grande emozione per me, anche se non potrò ammirare l’alba. Questa gita non mi ha deluso”.
Zhāng guardava con il cannocchiale. “Ecco” disse” un nuvolone nero che si avvicina da est, apparendo e scomparendo con il movimento delle onde. Mi sembra di scorgere anche una nave”.
Allora anche gli altri afferrarono i loro cannocchiali per vedere meglio.
Dopo aver scrutato il mare ancora un momento, Zhāng esclamò: “È vero. Guardate! Vedete quella piccola linea bianca là dove il mare si confonde con il cielo. Non è uno scafo?”.
Guardarono tutti con attenzione. La nave proseguì la sua navigazione e sparì alla vista.
Huìshēng ,che continuava a scrutare le onde con il suo cannocchiale, ad un certo punto esclamò :”Ah! Guardate! C’è una giunca là, proprio in mezzo a quei cavalloni. Non vi sembra che sia in difficoltà?”
“Dove?” fecero gli altri.
“Laggiù a destra. Viene da nord-est. Accanto a quel cavallone, vicino all’isola di Chángshān. Si sta avvicinando”
Gli altri due aggiustarono i loro cannocchiali ed esclamarono:” Ah! È veramente in difficoltà, ma per fortuna sta venendo verso la riva. Le ci vorranno ancora dieci o quindici miglia per arrivare in porto.”.
Ci volle poco più di un’ora perché la giunca si avvicinasse.
I tre la osservavano dall’alto con i loro cannocchiali.
Era un’imbarcazione di ventitre o ventiquattro piedi di lunghezza, che doveva essere stata fin dall’origine un grosso veliero. Il padrone della giunca stava in alto e reggeva il timone, aiutato da quattro persone che, più in basso, avevano il compito di far girare la grossa pala di legno.
C’erano, distribuiti tra poppa e prua, sei alberi, con sei vecchie vele, più due nuovi alberi, dotati l’uno di una velatura nuova e l’altro di una velatura quasi nuova. La giunca aveva quindi otto alberi.
Lo scafo era pesante e si poteva presumere che la stiva fosse piena di merci.
Sul ponte si vedeva un gran numero di uomini e di donne, ma non c’erano ripari né barriere frangivento- proprio come sulle carrozze di terza classe della linea ferroviaria Tiānjīn- Pechino-. Il vento del nord soffiava sulle onde e gli spruzzi ricadevano sui passeggeri, bagnati e infreddoliti, affamati e impauriti. Tutti coloro che erano sulla nave avevano un aspetto infelice.
Alcuni marinai erano impegnati a manovrare le otto vele. Molti altri marinai si scorgevano a prua e sul ponte dell’imbarcazione.
La giunca, pur essendo una grossa imbarcazione, lunga ventitre o ventiquattro piedi sembrava aver subito molti danni. A sinistra, un pezzo di murata lungo circa tre piedi era stato distrutto e le onde si riversavano sul ponte. Sempre sul lato sinistro, si era aperta un’altra falla, lunga circa un piede, attraverso cui l’acqua invadeva a poco a poco il ponte. Dappertutto si notavano dei danni.
I marinai che manovravano le vele, lo facevano senza mostrare alcun coordinamento tra di loro. Era come se ciascuna delle vele appartenesse ad una imbarcazione diversa.
Altri marinai si agitavano come pazzi tra i gruppi di uomini e di donne. Guardandoli meglio con il cannocchiale, ci si accorgeva che stavano cercando di portar via ai passeggeri le loro provviste e i loro abiti.
Zhāng Bó, vedendo tutto ciò, non potè fare a meno di urlare: “Maledetti! Basta guardare per capire che la giunca sta per arenarsi. I marinai non sanno più come dirigerla e la stanno mandando verso la costa, ma nel frattempo si danno da fare per depredare quei poveri passeggeri. Che rabbia!”.
“Non prendertela, caro Zhāng” gi rispose Huìshēng. La giunca è ormai a tre o quattro miglia dalla costa. Quando saranno qui sotto, saliremo a bordo e consiglieremo loro che cosa debbono fare”.
Mentre parlava, si accorse all’improvviso che, sulla giunca, alcune persone erano state colpite e gettate in mare. L’imbarcazione invertì la rotta e si diresse di nuovo ad est, verso il largo.”
Zhāng Bó balzò in piedi urlando: “Una così bella nave! Un così gran numero di passeggeri! Tutto in rovina per colpa di marinai senza scrupoli! Non lo possiamo tollerare!”.
Riflettè un momento, poi disse: “Ai piedi della collina sono ormeggiate delle barche da pesca. Perché non andiamo all’abbordaggio della giunca per eliminare i delinquenti che la pilotano e sostituirli con altri marinai? Salveremmo la vita dei passeggeri e ne trarremmo merito e soddisfazione.”
“Si potrebbe fare “ gli rispose Huìshēng “ e credo che non ci metteremmo molto tempo. Domandiamo il parere del nostro amico Cán”.
Lăo Cán rise e disse a Zhāng Bó: “Caro Zhāng, la tua è una bella idea, ma hai presente quanti siamo?”.
“Irresoluto anche tu.” gli rispose Zhāng Bó con rabbia” In questo momento saremmo in tre a lanciarci in questa impresa di salvataggio. Più i pescatori che ci porteranno fino alla giunca”.
Lăo Cán osservò: “Tieni conto del fatto che sulla giunca ci sono almeno duecento marinai. E noi tre dovremmo eliminarli tutti? Ho paura che riusciremo soltanto a farci ammazzare senza ottenere alcun risultato.”
Zhāng Bó ci pensò su un attimo, poi esclamò:” Ma allora, che cosa dovremmo fare. Lasciar morire quei poveri disgraziati di passeggeri senza muovere un dito?”.
Lăo Cán gli rispose: “Non credo che ci sia stato un errore del pilota. La giunca si trova in difficoltà per due semplici ragioni. Di solito quelli che navigano sull’oceano, si mettono in viaggio soltanto nei giorni tranquilli, quando non soffia troppo vento e il mare è calmo. Non si aspettavano di incappare in un uragano oggi; è per questo che si trovano nei guai. È chiaro che non avevano un piano per affrontare la tempesta. Infatti, nei giorni di sole, basta seguire i vecchi metodi di navigazione. Si guarda il sole, la luna e le stelle e non è difficile capire approssimativamente dove sta il nord e dove sta il sud. Si naviga, come si dice, “con l’aiuto del cielo”. Ma quando il cielo è coperto di nuvole, come accade in questo momento, vengono a mancare tutti i punti di riferimento. Vorrebbero tenere la rotta, ma non sanno più da che parte è il sud-est e da che parte è il nord-ovest. Così si allontanano sempre di più dal giusto cammino. Ti consiglierei, caro Zhāng, di noleggiare una barca da pesca e di andar loro dietro. La loro giunca è pesante, noi prenderemo una barca leggera. Non dovremmo faticare a raggiungerli. Una volta che li avremo raggiunti forniremo al pilota una bussola in modo che possa navigare nella giusta direzione e poi gli spiegheremo quale differenza c’è tra il navigare con il mare calmo e il navigare in mezzo alla tempesta. Seguiranno senz’altro i nostri consigli. Perché non dovrebbero farlo?. Corriamo subito alla riva!”
“Hai parlato bene, caro Cán” esclamò Huìshēng “Affrettiamoci a fare come hai detto. Altrimenti i passeggeri della nave correranno un grandissimo pericolo”.
Detto ciò, i tre uscirono dal padiglione , dopo aver ordinato ai domestici di custodire i bagagli, e scesero il pendio della collina senza portare con sé altro che una bussola di precisione, un sestante e qualche altro strumento di navigazione.
Ai piedi della collina c’era un ormeggio per le barche da pesca. Ne noleggiarono una che sembrava veloce, issarono le vele e si misero all’inseguimento della giunca.
Per fortuna il vento soffiava dal nord, cosicché potevano bordeggiare da est a ovest, il che facilitava la loro navigazione.
Si avvicinarono rapidamente alla giunca, continuando ad osservare con il cannocchiale ciò che accadeva sul ponte.
Quando furono a portata di voce, a poco più di dieci passi dalla giunca, poterono sentire ciò che stavano dicendo a bordo.
Da un gruppo di persone raccolte intorno al pilota si alzava una voce che diceva:” Tutti voi avete pagato per questo viaggio ed avete caricato le vostre merci su questa giunca. Ora, sta andando tutto in rovina a causa dei marinai. Siete sulla nave con tutta la vostra famiglia. Avete proprio voglia di morire in mezzo alla tempesta? Non volete cercare una via di salvezza, disgraziati?”.
Tutti rimasero muti di fronte a questo sfogo. Alcuni si accostarono a colui che parlava e dissero: “Ciò che stai dicendo è proprio ciò che volevamo sentire. Ti siamo grati di averci posti di fronte alla realtà, anche se le tue parole ci coprono di vergogna. Ma spiegaci che cosa si può fare”.
La vocerispose:” Sapete bene che in un momento come questo i soldi non servono a nulla. Facciamo una colletta. Bando all’avarizia! Sacrifichiamoci per trovare qualcuno che si batta per noi. anche a costo di far scorrere il sangue. Guadagniamoci la libertà e la salvezza! Siete d’accordo?”(12)
Tutti batterono le mani e manifestarono il loro assenso.
Zhāng Bó, sentendo ciò che dicevano le persone a bordo, si rivolse ai suoi compagni:” A che cosa serve la violenza? Sapevo che sarebbe finita così. Non saremmo dovuti venire fin qui.”
Huìshēng gli rispose: “Ammainiamo qualcuna delle nostre vele. Non abbiamo bisogno di stare al loro fianco. Seguiamoli da vicino e vediamo che cosa succede. Se le cose si metteranno bene, potremo tornare a riva.”
“Facciamo come dici tu, Huì” assentì Lăo Cán” A mio modesto parere quel tizio non è uno capace di agire concretamente. Sta solo tirando fuori qualche bella parola per spillare soldi alla brava gente”.
I tre ammainarono il fiocco e seguirono lentamente la giunca. (13)
Videro che la gente raccoglieva soldi e li dava all’uomo che aveva parlato . Quest’ultimo prese i soldi e poi, repentinamente, si ritirò in un angolo isolato ed elevato dove non fosse facile raggiungerlo. Di lì, ergendosi in tutta la sua statura, si mise ad urlare: ”Vigliacchi! Smidollati! Perché non correte a colpire il pilota? Uccidiamo i marinai ad uno ad uno!”
Sebbene parecchi disapprovassero, alcuni giovani esaltati diedero segno di volersi gettare sul pilota intenzionati ad ucciderlo e a buttare a mare i marinai che prima avevano gettato in acqua i passeggeri.
L’arruffapopolo, dal suo rifugio sicuro, continuava a gridare: “Mettetevi tutti insieme! Se vi precipitate loro addosso in massa, credete che possano resistervi?”.
Si alzavano però anche le voci di molti passeggeri, soprattutto di persone anziane e ricche di esperienza. “Non muovetevi! ”dicevano ai giovani” Se date retta a quell’individuo, la nave si capovolgerà e sarà la rovina per tutti .Non possiamo assolutamente correre questo rischio.”
Sentendo ciò, Huìshēng disse a Zhāng Bó: “Ecco! L’eroe si è preso i soldi ed ora manda gli altri a farsi sbudellare”.
“Per fortuna c’è ancora qualche persona anziana e sperimentata che ragiona” osservò Lăo Cán “Altrimenti la giunca avrebbe già fatto naufragio”.(14)
Issarono di nuovo il fiocco ed in un attimo furono nuovamente di fianco alla giunca.
Lanciarono le funi con i grappini alle murate, montarono a bordo e si diressero verso il quadrato di poppa. Attirarono a gran voce l’attenzione dei marinai, e, tirati fuori la bussola, il sestante e gli altri strumenti di navigazione, glieli mostrarono.
Quando il pilota vide quegli oggetti chiese cortesemente: “Come si possono usare? Quale vantaggio possiamo trarne?”.
Mentre discutevano, uno dei marinai si mise a sbraitare: “Padrone! Padrone! Non farti ingannare da costoro! Usano oggetti di origine straniera. Sono certamente dei traditori inviati dai diavoli forestieri. Sono dei Cristiani! Hanno già venduto la nostra giunca ai diavoli forestieri ed ora fanno ricorso a questi trucchi per impadronirsene. Leghiamoli e poi uccidiamoli! Risolviamo subito il problema! Se i diavoli forestieri hanno già pagato, cercheranno di venire a prendere la giunca”.
La folla fu scossa da tali urla. Persino l’eroe, che parlava dal suo rifugio, si mise a gridare: “Uccidete i traditori che ha venduto la giunca agli stranieri!”.
Il pilota non sapeva più che cosa fare. Uno dei copiloti, lo zio del proprietario, disse ai tre”: “So che siete venuti animati da buone intenzioni, ma la rabbia della gente è difficile da controllare. Vi consiglio di andarvene al più presto.”
I tre,. affranti, saltarono di nuovo in fretta sulla loro barca ,ma la gente era furiosa, e, vedendoli scappare, cominciò a gettar loro addosso i pezzi d’albero e i frammenti di murata che erano stati spezzati e divelti dalle onde. Come poteva una piccola barca da pesca resistere alla furia di centinaia di persone?
In men che non si dica, la barca fu fatta a pezzi e affondò?
Che cosa ne fu dei nostri tre amici? Lo sapremo leggendo il prossimo capitolo. (15)
Capitolo II
Abbiamo letto che Lăo Cán era stato gettato in mare dai passeggeri della giunca, che avevano fatto naufragare la sua barca da pesca.
Sapendo che non c’era alcuna speranza di salvezza, chiuse gli occhi e sentì che il suo corpo galleggiava sull’acqua come una foglia morta e poi cominciava ad affondare.
In quel momento, qualcuno gli sussurrò all’orecchio: “Sveglia, signore! Sveglia signore! Si è fatta sera e la cena è già pronta da lungo tempo”.
Lăo Cán splancò gli occhi ed esclamò, tutto frastornato: Ah! È stato soltanto un brutto sogno!.
Trascorsi alcuni giorni, Lăo Cán disse al maggiordomo di casa Huáng:” Ora che la stagione volge al freddo, la malattia del vostro padrone non si manifesterà più. L’anno prossimo, se ci sarà ancora bisogno di me, mi metterò volentieri a disposizione. Adesso vorrei recarmi nella prefettura di Jìnán ad ammirare il paesaggio del lago Dàmíng.”(16).
Il maggiordomo non riuscì a trattenerlo, così, quella sera, gli fece preparare una cena d’addio e gli consegnò mille tael d’argento a titolo d’onorario per le cure prestate al suo padrone.
Lăo Cán ringraziò, mise in borsa il denaro e partì.
La strada scorreva sullo sfondo delle montagne d’autunno, tra alberi dalle foglie rossastre e giardini dai fiori appassiti.
Quando giunse a Jìnán, Lăo Cán entrò in città. Le case erano tutte affacciate alle rive del Fiume Azzurro e, di fronte a ciascuna, zampillava una fontana. Era uno scenario più interessante di quello che si può ammirare nella regione a sud del fiume.
Fattosi portare in una strada chiamata Xiăobùzhèngsī, Lăo Cán scese alla “Locanda dei Monaci Illustri”, fece scaricare i bagagli, pagò il risciò, domandò quanto costava la cena, mangiò abbondantemente e andò a dormire.
Il mattino seguente, si alzò presto, consumò la colazione, e andò in giro suonando i suoi campanellini e vantando le sue arti di medico ambulante.
Nel pomeriggio, camminò fino al ponte di Quèhuá (17), dove noleggiò una barchetta e remò fino al padiglione Lìxià (18), che sorgeva non molto lontano in riva al lago.
Scese dalla barca e attraversò un cancello.
Lo stato di manutenzione del padiglione lasciava piuttosto a desiderare. Alcuni striscioni ornavano le pareti. Su uno di essi stava scritto: “Quando fu costruito questo padiglione c’erano molte celebrità a Jìnán”. Su un altro si leggeva un verso di Dù Fŭ e su un terzo una frase tratta da un testo di Hé Shàojī di Dàozhōu.(19) Intorno al padiglione c’era qualche casa, ma non si scorgeva nulla di interessante.
Ritornato alla barca, Lăo Cán remò in direzione ovest dove, non lontano, sorgeva la spianata del tempio ancestrale del Signor Tiĕ (20). Sapete chi era questo Signor Tiĕ? Era un signore chiamato Tiĕ Xuàn, che, nei primi anni della dinastia Míng, ebbe dei problemi con il principe di Yān. (21) I posteri lo considerarono come un modello di lealtà e gli abitanti di Jìnán continuano ad offrirgli incenso durante le feste di primavera e d’autunno.
Dopo che si era giunti dinanzi al tempio, se si guardava verso sud, si scorgevano, proprio di fronte, la Montagna dei Mille Buddha (22), la Pagoda dei Monaci Buddhisti (23) e distese infinite di pini e di cipressi. Tra il bianco, il verde e l’azzurro, schiere di giovani aceri dalle foglie rosse formavano uno schermo lungo qualche decina di chilometri, come in un dipinto di Zhào Qiānlĭ (24), dell’epoca Sòng.
Lăo Cán sospirò a lungo, poi, sentendo all’improvviso un pescatore cantare, guardò verso il basso. La superficie del Dàmíng era limpida come uno specchio. La Montagna dei Mille Buddha si rifletteva nitidamente nelle acque del lago, gli alberi sulla terrazza erano splendidi e sembravano ancor più belli e luminosi di quelli che ricoprivano i pendii della montagna. Sulla sponda meridionale del lago, le rive si ergevano scoscese, coperte da una fitta vegetazione di canne. Era giusto l’epoca della fioritura ed i fiori bianchi del loto brillavano al sole brumoso del tramonto, come una coperta di velluto rosa stesa sotto i cuscini delle montagne. Era davvero uno spettacolo sorprendente.
“Perché non ci sono altri visitatori?” si domandò Lăo Cán.
Dopo essersi guardato intorno a lungo, il nostro si girò ed osservò un distico su un pannello appeso ad un pilastro di legno di jacaranda all’interno del portone del tempio:
“Fiori di loto dappertutto e salici sui tre lati.
Città tra le montagne, mezza avvolta dal lago”.
Annuì con un cenno del capo, mormorando :”Veramente bello!”.
Varcato l’ingresso del tempio, si trovò di fronte la Sala delle Offerte (25) e, sul lato orientale, lo stagno del loto.
Seguendo verso est il corridoio che girava intorno allo stagno del loto, giunse ad una porta di forma circolare. Oltre la porta, c’erano tre vecchie costruzioni ed una targa sbrecciata che recava la scritta:”Antico tempietto dei narcisi”. Di fronte al tempietto scorse un panello, in cattivo stato, su cui si leggeva:
“Una fresca fonte offre i crisantemi d’autunno.
Tre uomini dipingono barche tra i fiori di loto”.
Superato il Tempietto dei Narcisi, Lăo Cán risalì sulla barca e si diresse verso il retro del Padiglione Lìxià.
La barca si faceva strada con rumore in mezzo alle foglie di loto appassite che si addensavano ai suoi lati e rallentavano la navigazione. Alcuni uccelli acquatici, spaventati, si alzarono in volo. Le foglie di loto sollevate in alto dai remi ricadevanonella barca. Lăo Cán raccolse con la mano alcuni fiori di loto e li mangiò (26), mentre la barca si avvicinava al ponte di Quèhuá.
Sul ponte Lăo Cán incontrò una grande quantità di gente. Alcuni portavano dei fardelli, altri spingevano dei carretti. Dei servitori trasportavano di corsa due persone su una piccola portantina azzurra, seguiti da un domestico con un berretto a nappe rosse, che teneva sotto l’ascella la custodia di un libro e che correva come un disperato, a testa bassa, asciugandosi il sudore con le mani. Un bimbetto di cinque o sei anni stava in mezzo alla strada senza sapere come farsi da parte e quando uno dei servitori che correvano lo urtò e lo gettò per terra, si mise a piangere. La madre corse verso di lui urlando: “Chi ti ha urtato? Chi ti ha gettato per terra?”. Il bimbo continuava a piangere, senza rispondere. Alla fine, sempre piangendo, rispose:” L’uomo che sosteneva la portantina”. Quando la madre alzò lo sguardo, la portantina era già lontana. Prese per mano il bambino e, imprecando a bassa voce, tornò indietro.
Dal ponte di Quèhuá, Lăo Cán s’incamminò verso sud, seguendo lentamente il vicolo del Segretario Capo.
Alzando lo sguardo vide, incollato ad un muro, un foglio di carta gialla, lungo un piede e largo sette od otto pollici (27), al cui centro spiccava, in caratteri di grandi dimensioni, la frase “Spettacolo di Tamburo”, mentre sotto, in caratteri più piccoli si leggeva: “Il giorno 24 presso la Casa in Riva al Lago”. Il foglio era ancora umido. Era stato incollato da poco.
Lăo Cán non capiva di che cosa si trattasse, perché non aveva mai visto un simile annuncio da nessuna parte, e, proseguendo nel suo cammino, continuava a pensarci.
Udì un passante dire: “Domani canterà la Ragazza Bianca. Bisognerà lasciar perdere le nostre occupazioni per ascoltarla”.
Continuando a camminare, sentiva ciò che si diceva dinanzi alle bancarelle lungo la strada.: “L’ultima volta che la Ragazza Bianca ha cantato, ti sei preso un giorno di congedo per andare a sentirla. Domani voglio prendere congedo anch’io.”
Lungo tutto il percorso Lăo Cán ascoltò soltanto commenti di questo genere.
Chi era la Ragazza Bianca? Di che tipo di esibizione si trattava? Perché c’era in giro tanto interesse?
Senza accorgersene arrivò dinanzi alla Locanda dei Monaci Illustri.
Una volta che fu entrato, il padrone della locanda gli domandò che cosa volesse mangiare per cena. Lăo Cán glielo spiegò in dettaglio e colse l’occasione per informarsi: “Che cos` è questo spettacolo di tamburo? Perché la gente è così interessata?”
“Il signore non lo sa?” rispose il padrone” Lo spettacolo di tamburo è un’esibizione tipica delle campagne dello Shāndōng, per la quale si usano un tamburo e due bacchette di legno di pero. Per questo il tamburo è chiamato “Il Tamburo dei Fiori di Pero”. Durante lo spettacolo vengono cantate antiche storie, che appartengono al repertorio tradizionale. Questa famiglia di artisti comprende due sorelle conosciute come la Ragazza Nera e la Ragazza Bianca. La Ragazza Bianca si chiama in realtà Wáng Xiăoyŭ ed è un talento naturale. Ha imparato a cantare quando aveva soltanto dodici o tredici anni, ma si è subito resa conto che le melodie dei contadini erano una povera cosa. Così si è recata regolarmente a teatro per assistere agli spettacoli d’opera ed ha imparato tutti i tipi di melodie: lo Xīpì, l'Èrhuáng, il Bāngziqiāng, etc. (28) Le basta ascoltare una volta le arie di Yú Sānshèng, di Chéng Chángēng ,di Zhāng ‘Ėrkuì (29) e degli altri cantanti più famosi ed è in grado di ripeterle alla perfezione. Sa reggere i toni più alti e prolungare una nota a piacimento. Ha raccolto melodie del sud, ariette, melodie di diverso tipo e le ha mescolate tra di loro traendone una melodia adatta al tamburo. Le ci sono voluti due o tre anni, ma, alla fine, ha creato una melodia cha affascina tanto la gente del nord quanto la gente del sud. Oggi ci sono stati dei problemi organizzativi, così canterà domani. Se non mi crede, vada ad ascoltarla. Però deve andarci presto. Lo spettacolo comincia all’una, ma per trovare posto occorre essere lì prima delle dieci del mattino”.
Lăo Cán ascoltava, ma non era molto convinto di ciò che il padrone gli raccontava.
Il mattino seguente, si alzò alle sei e si recò alla porta meridionale della città per ammirare il Pozzo di Shùn. (30) Ritornando, si recò ai piedi del Monte Lìshān per vedere dove, secondo la leggenda, Shùn il Grande aveva coltivato la terra. (31)
Tornò alla locanda che erano già le nove, fece rapidamente colazione e si affrettò verso la Casa in Riva al Lago.
Erano giusto le dieci.
La Casa in Riva al Lago era stata all’origine un grande teatro all’aperto con più di cento tavoli di fronte al palcoscenico.
Entrò nel giardino, che era già pieno di gente.
Soltanto sette od otto tavoli nel mezzo del giardino non erano ancora occupati, ma erano coperti da grandi fogli di carta rossa su cui era scritto: “Riservato al signor Governatore della provincia”, “Riservato all’Accademia”, e così via.
Lăo Cán attese a lungo, ma non riuscì a farsi dare un posto, quindi dovette sborsare duecento soldi per potersi sistemare in un angolo ed alla fine , con fatica, riuscì a sedersi, stretto fra altri spettatori, su una piccola panca.
Sul palcoscenico si vedevano solo un tavolone ed un piccolo tavolo.
Sul tavolone era disposta una batteria di tamburi e su ciascuno dei tamburi erano posati due pezzi di metallo a forma di mezzaluna.
Si trattava evidentemente delle cosiddette “nacchere dei boccioli di pero”.
Accanto ai tamburi c’era un liuto a tre corde (32) e dietro il tavolino erano piazzate due sedie.
Il palcoscenico era ancora vuoto. Quell’enorme spazio assolutamente deserto faceva una strana impressione.
Nel giardino, dieci o venti camerieri, con i loro cestini, erano affaccendati a vendere biscotti e ciambelle a coloro che non avevano avuto il tempo di fare colazione.
Alle undici, dinanzi alla porta del teatro, cominciarono ad affollarsi i palanchini. Molti alti funzionari, in abiti civili, portavano le loro famiglie a vedere lo spettacolo.
Prima di mezzogiorno i pochi tavoli ancora liberi dinanzi al palcoscenico erano stati tutti occupati, ma la gente continuava ad arrivare. I nuovi venuti tiravano fuori dei piccoli sgabelli e li piazzavano in ogni spazio vuoto.
La gente si salutava, parlava e rideva.
Dietro le file dei tavoli (dove sedevano i notabili), sembrava che si fossero dati appuntamento tutti i commercianti della città. Si vedevano anche molti che avevano l’aspetto di letterati. Tutti parlavano tra di loro e, a causa della grande confusione, nessuno capiva che cosa gli stessero dicendo, ma non se ne dava pensiero.
Alle dodici e trenta, un uomo spuntò da dietro il sipario. Indossava una tunica azzurra, aveva una faccia cavallina ed un brutto bitorzolo sul viso, come una buccia d’arancia secca.
La folla non diede segno di accorgersi della sua entrata in scena.
Senza dire una parola, l’uomo si accomodò su una delle sedie che stavano alla sua sinistra accanto al mezzo tavolo. Provò con calma il liuto, strimpellò qualche corda e ne trasse distrattamente un paio di note.
Suonò dapprima una o due piccole arie, a cui gli spettatori non prestarono molta attenzione.
Poi cominciò a suonare un pezzo più impegnativo, ma poco conosciuto.
Fu soltanto alla fine che si mise a suonare con tutte le dita, ad un ritmo indiavolato, salendo e scendendo di tono, arrestandosi di colpo e ripartendo di scatto.
Era un’orgia di suoni che turbava gli ascoltatori. Sembrava che dozzine di corde fossero mosse contemporaneamente da centinaia di dita.
Gli spettatori proruppero in un applauso che sembrava non finire mai.
L’uomo continuò a suonare.
Terminato il pezzo, staccò le mani dal liuto e si fece portare una tazza di tè.
Dopo qualche minuto di pausa, una fanciulla sbucò fuori dal sipario. Poteva avere quindici o sedici anni. Aveva una lunga faccia da anatroccolo e i capelli raccolti in una crocchia, portava un paio d’orecchini d’argento, una sottogonna azzurra ed una gonna dello stesso colore. I pantaloni, di tessuto nero, erano tempestati di perline. Gli abiti, sebbene di stoffa ruvida, erano molto puliti.
La fanciulla andò ad accomodarsi sulla sedia di destra. L’uomo che suonava il liuto toccò una corda e ne trasse un suono squillante.
La fanciulla allora si alzò e, prese le mezzelune di metallo nella mano sinistra, cominciò a percuoterle tra di loro, in sintonia con le note del liuto. Con la destra afferrò la bacchetta e la calò sul tamburo all’unisono con la musica dell’altro strumento.
Mentre il tamburo rimbombava, la fanciulla si mise improvvisamente a cantare. Le parole le uscivano chiare, il suono era rotondo, come il canto di un giovane usignolo che esce dalle forre o di una rondine che torna al suo nido.
Cantava versi di sette parole, ma ogni strofa aveva dozzine di versi. La voce ora era lenta, ora rapida, ora s’alzava di tono, ora s’abbassava. La melodia mutava ad ogni istante ed a volte sembrava interrompersi di colpo, con un curioso effetto di dissonanza.
Uno spettatore seduto accanto a Lăo Cán domandò, a bassa voce, ad un vicino: “È questa la Ragazza Bianca?”.
“No.” gli rispose l’altro” Questa è la Ragazza Nera, la sorella minore della Ragazza Bianca. È la Ragazza Bianca che le ha insegnato a cantare. Si può ammirare il canto della Ragazza Nera e spiegarne le ragioni, ma il canto della Ragazza Bianca ti affascina puramente e semplicemente. L’arte della Ragazza Nera può essere imitata, quella della Ragazza Bianca no. In questi ultimi anni, tutti hanno cercato di imparare il suo stile, in particolare le cantanti che si esibiscono nelle case da tè. Hanno potuto raggiungere il livello della Ragazza Nera, ma nessuna è riuscita ad avvicinarsi nemmeno lontanamente a quello della Ragazza Bianca. La Ragazza Bianca è inimitabile”.
Mentre i due parlavano, la Ragazza Nera finì di cantare. La sua esibizione era stata abbastanza breve. Sparì dietro il sipario, mentre gli spettatori nel giardino parlavano e scherzavano.
Venditori di semi di melone, di arachidi macinate, di frutti di biancospino (33) e di gherigli di noce si aggiravano gridando tra gli spettatori. Tutto il giardino era pieno di chiasso.
Proprio mentre la confusione era al colmo, da dietro il sipario uscì fuori un’altra ragazza. Poteva avere diciotto o diciannove anni ed era vestita come la precedente. Aveva anche lei la faccia allungata, come un seme di melone, e bianca. L’apparenza non aveva nulla di straordinario. Era come una qualsiasi ragazza di quell’età: abbastanza carina senza essere affascinante, piacevolmente raffinata, senza apparire fredda. Venne fuori con la testa mezza piegata e si fermò di fronte al tavolino, battendo un paio di volte le mezzelune di metallo. Stranamente, quei due rozzi pezzi di ferro diventavano nelle sue mani uno strumento capace di percorrere tutta la gamma cromatica, di spaziare tra le cinque note e i dodici toni. (34) Dopo aver picchiettato leggermente un paio di volte sul tamburo, alzò la testa e guardò il pubblico. Aveva uno sguardo magnetico. I suoi occhi sembravano riflettere le acque di un lago autunnale, il freddo splendore delle stelle notturne, il brillio delle gemme preziose. Erano due puntini neri di argento vivo immersi nel bianco del volto. Anche gli spettatori seduti negli angoli più lontani del giardino provavano l’impressione che li stesse fissando. Quelli più vicini al palcoscenico si sentivano i suoi occhi incollati addosso. In un attimo tutti ammutolirono e si creò un silenzio più intenso di quello che si forma in presenza dell’Imperatore: si sarebbe sentita una mosca volare.
Wáng Xiăoyù schiuse le labbra, mostrò il suo candido sorriso e cominciò a cantare.
All’inizio il tono della voce era basso, ma Lăo Cán si rese conto che gli stava accadendo qualcosa di straordinario. Si sentiva penetrato da un’ondata di calore, come se qualcuno gli stesse stirando le viscere con un ferro caldo. Aveva la sensazione che ognuno dei trentaseimila pori della sua pelle stesse mangiando il frutto del ginseng (35) e provava, in tutto il corpo, un benessere diffuso. Dopo che la ragazza ebbe cantato una dozzina di versi, la sua voce cominciò gradualmente a salire sempre di più per culminare in un acuto lanciato come un filo d’acciaio verso il cielo. Anche a quel livello, la ragazza dominava ancora perfettamente la propria voce e poteva salire e scendere di tono come voleva. Chi avrebbe mai detto che, dopo un rapido susseguirsi di trilli e di gorgheggi, la voce si sarebbe di nuovo innalzata di un’ottava, e, tra sempre nuove fioriture, sarebbe ancora scattata verso l’alto, non una, ma tre o quattro volte di seguito, fino a perdersi nelle nuvole? Era come scalare il Monte Tài, dalla parete ovest, arrampicandosi sul Picco di Aòlái. Sembrava che, dopo il Picco di Aòlái, ci fosse soltanto il cielo, ma quando si raggiungeva la cima, si vedeva che il Fànzìyá era a portata di mano, e, quando si era in cima al Fànziyá , ci si accorgeva che ci si stava arrampicando sul Nántiānmén. (36) Un esercizio sempre più ardito, sempre più rischioso.
Dopo avere emesso tre o quattro altissimi acuti, Wáng Xiăoyŭ ridiscese in un turbinio di gorgheggi, come un drago volante che compisse le sue evoluzioni mozzafiato tra le trentasei vette del Huángshān. (37) Improvvisamente il tono della voce cominciò ad abbassarsi come un uccello che scende dal cielo in una serie di volute circolari. Il canto si fece sempre più basso, più tenue, finché divenne appena udibile. Gli spettatori nel giardino trattenevano il fiato. Nessuno osava più fare il minimo movimento. Per qualche minuto si sentì soltanto un gemito sordo che sembrava provenire dalle profondità della terra, poi, di colpo, la voce si impennò di nuovo e si innalzò come un fuoco d’artificio, come un razzo che scoppia in una miriade di scintille multicolori, che si spargono, su e giù, per ogni angolo del cielo. Era un’orgia di suoni. Il chitarrista accompagnava ogni vocalizzo, toccando contemporaneamente tutte le corde. Sembrava una cascata di fiori sulle rocce (38), una mattina di primavera, quando gli uccellini cinguettano tutti insieme senza alcuna regola. Le orecchie di Lăo Cán erano piene di musica, non si rendeva più conto di che cosa stesse ascoltando. Ad un certo punto, si udì improvvisamente un suono deciso e le corde tacquero. L’applauso scoppiò fragoroso.
A poco a poco il rumore dell’ovazione cominciò ad attenuarsi.
Un giovane non ancora trentenne, seduto proprio sotto il palco, stava dicendo, con un accento del Húnán: “Quando ero studente, leggevo le affermazioni degli antichi circa i benefici della musica e capitai su un testo in cui stava scritto che “l’eco del canto continuò ad aleggiare per tre giorni intorno alle travi del soffitto” (39) Non riuscivo a comprendere il senso di questa frase. Come può un suono continuare ad aleggiare nell’aria? Come si può continuare a sentirlo incessantemente per tre giorni?. Soltanto ora, dopo aver sentito cantare Wáng Xiăoyŭ, ho capito che cosa gli antichi intendessero dire. Le arie cantate da questa fanciulla continuano a risuonarmi nelle orecchie e, qualsiasi cosa io faccia, non riesco più a pensare ad altro. Mi sembra che le parole “tre giorni” non bastino per descrivere una sensazione che non passa mai e che il mio stato d’animo sia reso molto meglio dalla storia di Confucio, che non mangiò carne per “tre mesi”. (40)
Coloro che stavano intorno a lui commentavano: “L’osservazione del signor Mèng Xiāng è davvero esatta. Abbiamo provato tutti una straordinaria emozione”.
A questo punto la Ragazza Nera riapparve sulla scena e riprese a cantare, mentre la Ragazza Bianca su riposava ai piedi del palcoscenico. Lăo Cán sentì dire da qualcuno accanto a lui che l’aria che la Ragazza Nera stava cantando si chiamava” La Storia dell’Asino Nero”. La trama era semplicissima: uno studente vede una bella fanciulla che se ne va lontano in groppa ad un asino nero. (41) Dapprima l’aria descriveva la bella fanciulla, poi passava a descrivere l’asino nero e le sue caratteristiche, poi ritornava brevemente sui vezzi della fanciulla, ed era finita. Il canto era “allegro e veloce”, sempre più rapido. Per dirla con Bái Jūyì, la musica prorompeva come “perle di diverse dimensioni rovesciate tutte insieme in un vaso prezioso”.(42). Si finiva con un tempo estremamente veloce. Il bello era che, quando la cantante accelerava in questo modo, l’ascoltatore, sebbene avesse l’impressione di non riuscire più a seguirla, continuava a percepire tutto con estrema chiarezza ed ogni parola gli penetrava nel “chakra” dell’ orecchio.(43) Anche questa era una prestazione straordinaria, sebbene inferiore a quella della Ragazza Bianca.
Erano solo le cinque della sera e la gente sperava che Wáng Xiăoyŭ avrebbe ancora cantato qualche aria. Gli spettatori non sapevano di quale pezzo si sarebbe trattato e di che livello.
Lo vedremo nel prossimo capitolo.
NOTE
1) Dēngzhōu 登州 è il nome con cui era conosciuta l’attuale città di Pénglái 蓬萊, che appartiene alla prefettura di Yāntái 烟台, situata nella parte nord-occidentale della penisola dello Shāndōng 山東.
2) Il tratto di mare situato dinanzi a Pénglái 蓬萊 è famoso per il fenomeno della “fata morgana”, che vi si verifica di frequente, soprattutto nei mesi di maggio e di giugno.
3) Tiĕ 鐵 è il nome di cortesia dell’autore del “Viaggio di Lăo Cán”(老残游记 “lǎocán yóu jì”) Liú È 刘鹗, che inserì nel libro anche elementi autobiografici.
4) Lăo Cán è un soprannome composto da due termini: “lăo” 老 (vecchio”) e “cán” 残 (“scontroso”). Lăo è un termine colloquiale che non si riferisce necessariamente ad una persona di età avanzata, potendosi applicare anche a chi sia semplicemente più anziano del parlante o assuma atteggiamenti da vecchio. Cán è un termine che può avere diverse sfumature di significato. Nel presente caso mi è sembrato corretto attribuirgli il significato di “scorbutico”,”scontroso”, indifferente”,”distaccato”.
5) Míngzàn di Nányuè 南嶽明瓚, detto anche Lăn Cán 懶殘,fu un maestro della setta Chán 禪師 vissuto nell’8° secolo d.C.
In una sua breve biografia, contenuta nelle “Vite dei monaci eminenti” ( 高僧傳 “gāosēng zhuán”) figura il seguente aneddoto:
”Lăn Cán viveva da eremita in una grotta sul monte Héng, cioè sul Nányuè. L’imperatore Dézōng sentì parlare di lui e gli spedì un messaggero per invitarlo a Corte. Giunto alla grotta, l’inviato trovò l’eremita seduto per terra e, dopo avergli riferito il messaggio del Figlio del Cielo, gli disse: “Dovreste alzarvi in piedi per mostrare la vostra gratitudine verso Sua Maestà”.
Cán, che, in quel momento stava alimentando un focherello di sterco di vacca, tirò fuori da una padella una radice cotta e cominciò ad addentarla, senza rispondere Poiché era inverno ed aveva un raffreddore, del muco gli colava sul mento.
Il messaggero si mise a ridere ed esclamò: “Potrei suggerire al reverendo monaco di pulirsi il viso?”.
“Perché dovrei prendermi questo fastidio per un uomo che non è diverso da tutti gli altri?” replicò il monaco e si guardò bene dall’alzarsi.
Ritornato alla capitale, il messaggero riferì il fatto all’Imperatore che fu colmo d’ammirazione e di stupore.”
6) Il Jiāngnán 江南 è una regione situata a sud del Fiume Azzurro non lontano da Shànghăi.
7) Gŭqiānchéng 古千乘, letteralmente “La vecchia Qiānchéng,” è situata ad una dozzina di chilometri dalla contea di Gāoyuàn 高苑 nello Shāndōng 山东
8) Wáng Jĭng 王景 (889 d.C.-963 d.C.) fu un uomo politico attivo negli anni intorno alla fine della dinastia Táng.
9) I narratori tradizionali ricorrono all’espediente del dormiveglia per introdurre nel loro racconto qualche episodio avventuroso senza che si sappia bene se ciò che accade sia sogno o realtà. Si veda, a questo riguardo, “La storia del governatore di Nánkē (南柯太守传 ”nánkē tàishōu zhuàn”).
10) L’isola di Chāngshān 长山岛 fa parte dell’arcipelago delle Isole Chángdăo 长岛
, situato di fronte a Pénglái.
11) Dàzhú 大竹 e Dàhēi 大黑 sono altre due isole appartenenti all’arcipelago delle Isole Chángdăo
.
12) Mi sembra che la proposta qui formulata sia quella di raccogliere soldi tra i passeggeri per pagare qualche giovane ardimentoso che affronti i marinai e si impadronisca della nave, se necessario anche con la forza.
13) Non essendo un esperto di navigazione a vela, ho fatto del mio meglio per rendere chiara la descrizione delle varie manovre. Mi scuso per le più che probabili imprecisioni terminologiche.
14) Tutti i commentatori concordano nel ritenere che la descrizione della giunca in mezzo all’uragano sia una allegoria della situazione politica disperata in cui versava la Cina durante gli ultimi anni della dinastia Qīng. Non si può fare a meno di pensare alla famosa invettiva dantesca:
«Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!».
15) Troviamo qui un altro schema tipico non solo dei romanzi tradizionali cinesi, ma di tutti i “feuilletons” e, oggi, delle serie televisive. Il capitolo del libro o la puntata dello sceneggiato si chiude in una situazione di grande “suspense”, stimolando così la curiosità del lettore o dello spettatore, che viene invogliato a non mancare il seguito.
16) Il lago Dàmíng (大明湖 “dàmíng hú”, letteralmente “Il Lago del Grande Splendore”) è il lago più grande della città di Jìnán 济南 nello Shāndōng 山东, di cui costituisce una delle maggiori attrazioni. Situato a nord del centro storico, è alimentato da sorgenti sotterranee e perciò mantiene costantemente lo stesso livello d’acqua per tutto l’anno.
17) Il Ponte di Quèhuá collega l’angolo sud-orientale del lago Dàmíng con l’isoletta su cui sorge il Padiglione Lìxià.
18) Il “Padiglione che sta sotto il Monte Lì” (历下亭 “lìxià tíng”), situato in un’isoletta presso la riva orientale del lago Dàmíng sarebbe sorto, secondo la tradizione, sul luogo di un incontro tra il poeta Dù Fŭ 杜甫 e il calligrafo Lĭ Yōng李邕 ( 678 d.C.-747 d.C). Ricostruito nel 1693, reca iscrizioni di mano del calligrafo Hé Shàojī 何紹基 e dell’imperatore Kāngxī 康熙.
19) Hé Shàojī 何紹基 (1799-1873) fu un famoso calligrafo dell’epoca Qīng.
20) Il tempio commemorativo del Signor Tiĕ (铁公祠 “tiĕgōng cí”), situato sulla riva nordoccidentale del lago, fu eretto sotto la dinastia Qīng in memoria di Tiĕ Xuàn 鐵鉉, un alto ufficiale della dinastia Míng 明朝 che si oppose alla ribellione del principe Zhù Dì 朱棣, il futuro imperatore Yŏnglè 永樂), e pagò con la vita la sua fedeltà all’imperatore regnante.
21) Tiĕ Xuàn 鐵鉉 (1366-1402) difese valorosamente la città di Jìnán contro le truppe del ribelle Zhù Dì 朱棣, principe di Yān 燕王. Catturato nel 1402, fu torturato a morte e il suo cadavere fu gettato nell’olio bollente.
22)La Montagna dei Mille Buddha (千佛山 “qiān fó shān”) è una collina che sorge circa 2,5 chilometri a sud-est della città di Jìnán. È famosa per le numerose immagini di Buddha (bassorilievi e statue) che vi si trovavano fin dai tempi della dinastia Suí 隋朝 (581 d.C.-618 d.C.).
23) Questo termine significa letteralmente “la pagoda dei monaci buddhisti (梵宇僧樓“fàn yǔ sēng lóu”). Le parole “fàn yŭ” 梵宇 designano infatti un tempio buddhista.
24)Zhào Qiānlĭ 趙千里(circa 1120- 1182), conosciuto anche come Zhào Bójū 趙伯驹, fu un famoso pittore di paesaggi all’epoca della dinastia Sòng 宋朝.
25) La Sala delle Offerte ( 享堂“xiăntáng”) è la sala principale del tempio ancestrale, dove sono esposte le tavolette commemorative degli antenati, a cui i membri della famiglia e i visitatori del tempio rendono omaggio.
26) Fiori, semi, foglie e radici del loto sono commestibili, con prudenza, anche allo stato crudo e sono molto usati nella cucina dell’Estremo Oriente.
27) Le misure del piede (尺 ”chĭ”) e del pollice (寸 “cùn”) variano secondo i periodi storici. Approssimativamente si può qui parlare di un foglio di circa 30x25 cm.
28)Lo “xīpì” 西皮 è lo stile musicale tipico dell’opera di Pechino. È caratterizzato da melodie vivaci, allegre e vigorose, particolarmente atte ad esprimere gioia, agitazione ed emozioni forti. Il canto è accompagnato dalla musica del “jīnghú” 京胡 , uno strumento a due corde in legno di bambù.
L' “èrhuáng” 二簧 è invece uno stile caratterizzato da un ritmo lento e da toni bassi e profondi, atti ad esprimere riflessione, melanconia, sentimenti tristi e dolorosi.
Il “bāngziqiāng” 梆子腔, uno dei quattro tipi di melodie dell’opera tradizionale Hàn, prende il nome dalle nacchere di legno( 梆子“bāngzi”) che accompagnano il canto.
29) Yú Sānshèng 余三勝 (1802-1866) ,
Chéng Chánggēng 程長庚 (1811-1880) e
Zhāng' Èrkuí 張二奎 (1814-1864) furono famosi cantanti del XIX° secolo. Erano chiamati “I Tre Maestri” dell’Opera di Pechino.
30) La Sorgente del Pozzo di Shùn (舜井泉 “shùn jĭng quán”) è legata al ricordo di Shùn 舜, il mitico imperatore del III° millennio a.C. che, secondo la tradizione, avrebbe soggiornato a Jìnán.
31) Secondo la leggenda, il giovane Shùn, maltrattato dal padre, dalla matrigna e dal fratellastro, fu costretto ad andarsene via di casa e si rifugiò sul monte Lìshān, nei pressi di Jìnán, dove coltivò la terra.
32) Il liuto a tre corde (三弦子 “sānxiánzi”) è spesso usato per accompagnare il canto nei concerti.
33) Il biancospino cinese, in cinese “shānlĭhóng” 山裡紅 (nome scientifico: “crataegus pinnatifida”),
è una pianta diffusa nel continente asiatico, originaria della Cina. Ha foglie lobate di color verde scuro che assumono tonalità rossastre durante la stagione autunnale e può raggiunge altezze che vanno dai 3 ai 5 metri. I fiori sono bianchi, riuniti a grappolo. I frutti si presentano come pomi rossastri, simili a piccole mele, e sono commestibili.
34) La musica cinese usa una scala pentatonica, cioè una scala composta di cinque note, e. conosce dodici semitoni (noti nel loro insieme come ”lǜ lǚ” 律呂 ) divisi in due serie di sei: quelli detti “yáng lǜ” 陽律, noti anche come “liù lǜ” 六律 , e quelli detti “yīn lǚ” 陰呂, noti anche come “liú lǚ” 六呂.
35) La radice del ginseng 人蔘 ha sempre avuto fama di favorire la salute e il benessere di chi la consuma. Lǐ Shízhēn 李時珍 (1518-1593), nel suo “Compendio di Medicina”( 本草綱目 “běncǎo gāngmù”), definisce il ginseng “un eccellente tonico”.
36) Il Picco di Aòlái ,letteramente “Il picco che desta orgoglio”( 傲徕峰 ”aòláifēng”) sul Monte Tài (泰山 “tāi shān”), una delle cinque montagne sacre della Cina, si erge a circa due chilometri dal tempio di Wújí 无极, sul sentiero che conduce al villaggio di Tiānshèng 天胜. Sebbene raggiunga appena la metà dell’altezza della cima del monte Tài, ha pareti diritte e scoscese.
Poco più oltre, si eleva Fànziyá 扇子崖, letteralmente “La roccia che sembra un ventaglio”.
Troviamo infine la cima del Monte Tà , che è chiamata Nántiānmén 南天门, cioè “La porta meridionale del Cielo”, perché, secondo il mito, era una delle quattro porte che davano accesso al palazzo del sovrano celeste, l’Imperatore di Giada ( 玉皇大帝“yù huáng dà dì”).
37) La Montagna Gialla 黃山 (“huángshān”) nell’Ānhuī 安徽 è famosa per il gran numero di picchi che si ergono su di essa.
38) Il termine 花塢(huā wù)sembra indicare un arrangiamento tipico dei giardini cinesi: una cascata di fiori che scende da una roccia o da un muro.
39) La frase è tratta dal Lièzĭ 列子, un testo taoista redatto probabilmente nel 4° secolo a.C.
Il capitolo 5 del Lièzĭ, intitolato “Le domande di Táng” ( 湯問“táng wén”) riporta, nel suo paragrafo 11, quanto segue:” Una volta, ad est della città di Qí, Hán ‘Ė, spinto dalla fame, varcò la Porta dell’Armonia e si mise a cantare per impietosire la gente. L’eco del suo canto aleggiò per tre giorni intorno alle travi della porta...”.
40) I “Dialoghi di Confucio”riportano il seguente aneddoto: “Durante il suo soggiorno nel Regno di Qí ,il Maestro ascoltò la musica Sháo e per tre mesi non gustò più carne. “ Non avrei mai creduto “ raccontò “ che la musica potesse giungere a simili altezze.”(Dialoghi,7.14)
41) L”Aria dell’Asino Nero”( 黑驢段“hēi lǘ duàn”) è un pezzo tipico del repertorio tradizionale dei concerti di tamburo dello Shāndōng.
42)” Dalle corde più grandi le note piovevano a dirotto come le gocce d'un acquazzone,
dalle corde più sottili fluivano lente come una confidenza sussurrata a mezza voce.
Prima i toni più acuti, poi i più bassi, infine una mescolanza, libera da ogni regola,
come perle di diverse dimensioni rovesciate tutte insieme in un vaso prezioso.”
Bái Jūyì 白 居 易 (772-846 d.C).”La canzone del liuto" (琵 琶 行 "Pípá Xíng")
43) Il termine “chakra” (in sanscrito: चक्र , in cinese: 脈輪 “màilún”) ) designa in certe forme di yoga e nella medicina tradizionale asiatica un punto del corpo umano che è considerato un centro di energia fisica o spirituale.
Si ritiene che esistano sette “chakra” principali ed un certo numero di “chakra secondari”.
Il quinto “chakra” o “chakra della gola”, chiamato “vishuddha”(in sanscrito: विशुद्ध, in cinese: 喉輪“hóulún”),è associato con la parola e con l’udito ed è stimolato dalla musica e dal canto