Capitolo III
Resoconto sommario delle ulteriori vittorie di A Q
Sebbene Ā Q passasse di vittoria in vittoria, dovette tuttavia aspettare di essere preso a schiaffi dal signor Zhào per farsi un nome.
Dopo aver sborsato alla guardia municipale duecento soldi per il disturbo, si mise a letto pieno di rabbia e cominciò a pensare: “Oggigiorno il mondo è veramente indescrivibile. I figli picchiano i genitori”. Di conseguenza –
gli venne in mente all’improvviso – il signor Zhào, prendendolo a schiaffi, si era comportato come se fosse suo figlio. Ciò, a poco a poco, gli risollevò il morale. Si tirò su e, canticchiando allegramente “ La vedovella sta accanto al sepolcro”, andò all’osteria. In quel momento il vecchio signor Zhào era ridiventato ai suoi occhi una persona degna di considerazione.
Anche se è strano a dirsi, dopo questo incidente tutti sembravano effettivamente considerarlo con maggiore rispetto. È da escludere che ciò fosse dovuto, come credeva lui, al fatto che il signor Zhào l’aveva trattato come avrebbe trattato il proprio padre. Di regola, a Wèizhuāng, se due fratelli si prendevano a botte o se Tizio picchiava Caio, la cosa non faceva veramente notizia. Perché tutti cominciassero a parlare di una faccenda di questo genere, occorreva pure che la vicenda coinvolgesse persone conosciute. Non c’era naturalmente il minimo dubbio che la colpa dell’incidente fosse di Ā Q. E che dunque? Era assolutamente impossibile che il signor Zhào potesse essere dalla parte del torto. Ma, se la colpa era di Ā Q, perché la gente sembrava ora trattarlo con insolito riguardo?
È difficile da spiegare, ma siamo in grado di formulare, a questo riguardo, due ipotesi. Può darsi che, siccome Ā Q aveva dichiarato di appartenere allo stesso casato del signor Zhào, anche se subito dopo era stato preso a schiaffi, la gente temesse che potesse esserci qualcosa di vero in queste dichiarazioni e che fosse comunque più prudente mostrargli un certo rispetto. Oppure può darsi che succedesse ciò che accadeva con i buoi nei templi di Confucio: sebbene fossero animali domestici, come il maiale o l’agnello, i fedeli più devoti non osavano sacrificarli e cibarsene per paura di compiere un sacrilegio, visto che dei buoi erano stati usati un tempo per tirare la carrozza del Maestro.
Dopo questi avvenimenti Ā Q godette per qualche anno di buona considerazione.
Un giorno di primavera, mentre , ubriaco fradicio, si trascinava per strada lungo un muro assolato, scorse Wáng il barbone, seduto per terra a torso nudo, intento a spidocchiarsi ed anche lui, all’improvviso, sentì che il corpo cominciava a prudergli. Siccome Wáng soffriva di scabbia ed aveva una barbaccia incolta, tutti lo chiamavano “quel barbone rognoso di Wáng”. Ā Q, anche se evitava accuratamente di usare il termine “rognoso”, mostrava di solito il più assoluto disprezzo nei suoi confronti. Egli riteneva infatti che la scabbia fosse qualcosa di abbastanza naturale, mentre quei peli arruffati sulle guance erano veramente il massimo della stramberia moderna e non si potevano guardare. Ā Q gli si sedette accanto. Se si fosse trattato di qualsiasi altro sfaccendato, Ā Q non avrebbe avuto il coraggio di sedersi al suo fianco senza la minima formalità. Ma da Wáng il barbone, che cosa c’era da temere? Anzi, a dire il vero, il solo sederglisi accanto era già fargli un onore.
Anche Ā Q si tolse la giacchetta piuttosto malandata, e la rivoltò per esaminarla in cerca di pidocchi, ma, sia che l’avesse lavata abbastanza di recente, sia che non si desse da fare con sufficiente impegno, alla fine di una lunga ricerca non riuscì a trovarne più di tre o quattro.
Sollevando lo sguardo vide che “quel barbone di Wáng” ne stava pigliando uno, e poi un altro, e poi ancora altri due, e poi un terzo, e li schiacciava tra i denti con un bello schiocco sonoro. A tutta prima Ā Q ne fu
sgradevolmente sorpreso, ma poi cominciò ad irritarsi. Vedere che un miserabile come Wáng il barbone riusciva a prendere tanti pidocchi, mentre lui, al contrario, non riusciva a trovarne quasi nessuno era una vera vergogna. Quanto avrebbe voluto trovarne ancora uno o due bei grassi, ma non ce n’erano proprio più, e riuscì solo a rimediare un
pidocchietto che infilò selvaggiamente in bocca, addentandolo con furore, senza però ottenere altro che un rumorino secco, insignificante, di nuovo nemmeno lontanamente paragonabile ai suoni densi ed untuosi che riusciva a produrre Wáng.
Le cicatrici sulla sua testa divennero scarlatte. Scagliando a terra con rabbia la giacchetta, sputò ed esclamò ad alta voce: “ Bestiaccia pelosa!”.
“Cane rognoso!” gli rispose Wáng il barbone, squadrandolo con disprezzo "Chi stai insultando?”.
Sebbene negli ultimi tempi avesse goduto di un relativo rispetto e fosse quindi cresciuta la stima che egli aveva di se stesso, quando Ā Q incontrava uno di quegli sfaccendati abituati a picchiare si mostrava ancora prudente, ma questa volta si sentiva insolitamente bellicoso. Come osava un barbone dal volto irsuto offenderlo in questo modo?
“Chi si sente insultato ha la coda di paglia” dichiarò Ā Q alzandosi in piedi, con le mani sui fianchi.
“”Hai le ossa che ti prudono?” ribatté Wáng il barbone, alzandosi in piedi a sua volta e rimettendosi la camicia.
Ritenendo che volesse svignarsela, Ā Q si precipitò in avanti col pugno levato. Ma, prima ancora che il pugno potesse abbattersi sul corpo di Wáng, quest’ultimo lo afferrò per il braccio e gli diede un violento strattone che lo fece barcollare in avanti. Poi gli afferrò il codino e cominciò a tirargli la testa verso il muro, per sbattercela contro, come d’uso.
“Gioco di mano, gioco da villano” protestava Ā Q con la testa piegata da un lato. Ma Wáng il barbone doveva evidentemente essere proprio un villano perché, senza ascoltare le lamentele di Ā Q, gli sbatté cinque volte di seguito la testa contro il muro ed infine gli diede ancora un robusto spintone che lo gettò, barcollante, a due metri di distanza. Dopo di ciò, si allontanò, pienamente soddisfatto.
Per quanto Ā Q potesse ricordarsi, questa doveva essere considerata come la prima grave umiliazione della sua vita, perché aveva sempre preso in giro Wáng il barbone per le sue guance irsute, senza che quello osasse
mai replicare, né, tanto meno, mettergli le mani addosso. Ed ora, all’improvviso, lo aveva picchiato. Una cosa che Ā Q non si sarebbe mai
aspettata. Era mai possibile che fosse vero ciò che si diceva in città: che
l’Imperatore aveva abolito gli esami di stato e che laureati e dottori non
erano più richiesti? In questo caso, la famiglia Zhào doveva aver perso
prestigio e ciò spiegava, a sua volta, perché gente come Wáng potesse trattarlo senza rispetto.
Mentre Ā Q non riusciva a liberarsi da questa idea, vide arrivare di lontano un’altra persona che gli stava parecchio antipatica. Era qualcuno che Ā Q aveva sempre cordialmente disprezzato: il figlio maggiore del signor Qián. Costui era andato a studiare in città, in una scuola straniera, poi, non si sa perché, era addirittura finito oltremare. Era tornato a casa, sei mesi dopo, tutto impettito, e senza codino. Sua madre aveva pianto a dirotto per giorni interi e sua moglie aveva tentato per tre volte di gettarsi nel pozzo. Dopo un po’ sua madre cominciò a raccontare a tutti in giro che dei farabutti l’avevano fatto ubriacare e che, mentre era ubriaco, l’avevano praticamente costretto a tagliarsi il codino. “Avrebbe potuto diventare funzionario” aggiungeva “ ed invece ora dovrà aspettare che gli ricresca il codino”.
Ma Ā Q non credeva a questo racconto ed insisteva nel chiamare il giovane Qián “scimmiottatore dei maledetti forestieri” e “spia degli stranieri”. Ed ogni volta che lo incontrava, gli lanciava, bisbigliando appena, in modo da
non farsi sentire, i più feroci insulti.
Ā Q trovava profondamente detestabile ed estremamente penoso che il figlio del signor Qián portasse ora un codino posticcio. Era forse un gesto da uomo mettersi un codino falso? Ed il fatto che sua moglie non avesse più tentato , una quarta volta, di gettarsi nel pozzo provava che non era, nemmeno lei, una donna stimabile.
Lo scimiottatore dei maledetti forestieri gli stava adesso passando accanto.
“Crapa pelata! Somaro!”. In passato Ā Q era sempre stato attento a bisbigliare tali insulti tra i denti, senza farsi sentire dall’interessato, ma , questa volta, poiché era proprio arrabbiato e provava un intenso bisogno di sfogarsi, le parole gli uscirono involontariamente di bocca chiare e distinte.
Per sua disgrazia il nostro eroe aveva dimenticato che il “crapa pelata” andava in giro con una robusta, luccicante canna da passeggio, che lo stesso Ā Q soleva chiamare “cero da funerali”.
Mentre l’offeso si precipitava verso di lui, venendogli addosso a grandi passi, Ā Q capì in un attimo che stavano per piovere botte a volontà. Camminando in fretta , con i muscoli che si contraevano nervosamente e la schiena che si irrigidiva, rannicchiò le spalle in attesa della scarica, che infatti arrivò puntualmente. Il rimbombo della bastonata fu tale che gli sembrò di averla ricevuta direttamente sulla testa.
“Mi riferivo a quello lì” cercò di giustificarsi, indicando un bambino che gli stava passando accanto.
E pacchete! E pacchete! E pacchete!
A memoria di Ā Q, questo trattamento andava considerato come la seconda grave umiliazione della sua vita. Ma, appena svanita l’eco della bastonatura, ciò che provò, considerando che il peggio era ormai passato, fu piuttosto un certo senso di sollievo. Lo aiutò inoltre quella preziosa "capacità di dimenticare” che aveva ereditato dai suoi antenati. Si allontanò camminando piano piano e, quando giunse dinanzi alla porta dell’osteria, era già di nuovo allegro.
Ma, proprio in quel momento si vide venire incontro una monachella del Convento della Serena Meditazione. La vista di una monaca era una cosa che faceva regolarmente bestemmiare Ā Q. Ci si immagini , quindi, dopo le umiliazioni che aveva appena subito.
“Non sapevo che cosa mi portasse scarogna oggi, ma adesso ho capito che era perché stavo per incontrarti” pensò guardando la monaca. Ed avvicinatosi a lei, sputò rumorosamente in guisa di saluto:
"Eech...puh!...”
La monachella fece finta di niente. Si limitò a chinare la testa ed andò avanti. Ma Ā Q le si affiancò ed improvvisamente allungò la mano per accarezzarle la testa, rasata da poco. Poi, sghignazzando sguaiatamente, le disse:” Torna subito al convento, testa pelata! Il tuo bonzo ti sta aspettando”.
“Perché mi tocchi?” protestò la monaca, arrossendo tutta in volto e cercando di accelerare il passo.
Gli uomini seduti davanti all’osteria scoppiarono in una fragorosa risata.
Vedendo che la sua nobile impresa veniva meritatamente apprezzata, Ā Q si eccitò ancora di più.
“Se lo fanno i bonzi, perché non posso farlo io?” replicò, pizzicandole una guancia.
I clienti dell’osteria sghignazzarono di nuovo.
Ā Q ne fu tutto contento e, per soddisfare pienamente i suoi ammiratori, la pizzicò ancora una volta, con forza, prima di lasciarla andare.
Nell’esaltazione dello scontro aveva già dimenticato sia Wáng il barbone sia lo scimiottatore dei maledetti forestieri e gli pareva che tutte le umiliazioni della giornata fossero state vendicate.
Addirittura, stranamente, si sentiva pervaso da una sensazione di beatitudine in tutto il corpo persino superiore al senso di sollievo che aveva provato quando avevano smesso di bastonarlo. Si sentiva leggero, leggero, come se stesse per spiccare il volo.
“Che tu possa morire senza discendenza” lo maledisse, di lontano, la vocina piagnucolosa della monaca.
“Ha! Ha! Ha!”. Ā Q si mise a ridere a crepapelle.
“Ha! Ha! Ha!” gli fecero eco i clienti dell’osteria.
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