PROSA CINESE
INDICE DELLA RUBRICA
1) Lŭ Xùn "Kŏng Yĭ Jĭ " 2) Lŭ Xùn "Un momento difficile" 3) Lŭ Xùn "Il diario di un matto"
4) Zhào Mèngfŭ "La storia del tempio di Guān Yīn" 5) Sīmă Qián "Cervo o cavallo?" (dal Shĭjì)
6) Tào Yuānmíng "La storia della sorgente dei fiori di pesco" 7) Lù Yŭ "Il libro del tè" (Capitolo I)
8) Wáng Xīzhī " Prefazione ai poemi del Padiglione delle Orchidee"
9) Lŭ Xùn "La vera storia di Ā Q" ( Capitoli I-VI, segue )
Comincio la pagina della prosa con un racconto di Lu Xun intitolato “ Kŏng Yĭ Jĭ ”
Kŏng Yĭ Jĭ
Le osterie di Luzhen hanno in comune una caratteristica che le rende diverse da quelle delle altre città: esse hanno tutte, di fronte alla facciata che dà sulla strada, un grosso banco curvo a forma di squadra, nel quale viene conservata l’acqua calda che serve ad intiepidire il vino di riso prima del consumo.
Una ventina di anni fa gli operai che terminavano il loro turno di lavoro, verso mezzogiorno o verso sera, avevano l’abitudine, appena usciti dalla fabbrica, di spendere quattro soldi – erano veramente quattro monete di rame – per bere un bicchierino (parlo, è ovvio, dei prezzi di quel tempo; oggigiorno per un bicchiere di vino si devono spendere almeno dieci soldi). Lo prendevano in piedi, appoggiati al banco, bevendolo ben caldo e senza fretta. Se uno era disposto a spendere una moneta in più, poteva comprare un piattino di germogli di bambù in salamoia oppure semi grigliati di finocchio all’anice per mandare giù il vino. Con dieci soldi si poteva addirittura mangiare un piatto di carne ed un contorno di legumi, ma pochi erano coloro che se lo permettevano, perché la maggioranza dei clienti erano gente che portava gli abiti corti, cioè lavoratori manuali, ed anche se avessero potuto tirar fuori questa somma, si sarebbero sentiti a disagio a sedersi nella trattoria. Solo coloro che portavano abiti lunghi sino ai piedi, in altre parole i borghesi e gli intellettuali, attraversavano, camminando con lentezza e dignità, la soglia del locale ed entravano nella sala interna, che un muro separava dalla strada, dove ordinavano cibo e vino e bevevano con tranquillità, comodamente seduti.
All’età di dodici anni, cominciai a lavorare come garzone presso la Locanda della Prosperità nei sobborghi di Luzhen. Il padrone, dopo avermi detto che avevo l’aria troppo stupida per potermi occupare dei clienti di riguardo, mi piazzò al banco, sulla facciata del locale, con il compito di versare il vino.
Certo, i clienti della strada, quelli con l’abito corto, sembravano in linea di massima più facili da trattare. Ma c’era anche un bel numero di rompiscatole che sorvegliavano attentamente tutte le tue mosse senza mai lasciarti in pace. Pretendevano ogni volta di controllare che il vino giallo fosse spillato direttamente dal barilotto, volevano sempre assicurarsi che sul fondo del bicchiere in cui veniva versato non ci fosse acqua ed infine facevano ancora grande attenzione quando il bicchiere pieno veniva immerso nell’acqua calda, per impedire manovre scorrette. Di fronte ad una sorveglianza così rigida e occhiuta annacquare il vino diventava un’impresa molto difficile.
Bastarono pochi giorni al padrone dell’osteria per decidere che non ero adatto a fare quel lavoro. Per fortuna (mia) o per disgrazia (sua) gli ero stato raccomandato da una persona autorevole e così, invece d’essere cacciato via in malo modo, fui trasferito ad un incarico noioso ma che era il solo di cui fossi capace, quello di riscaldare il vino. Da quel momento presi a stare tutto il giorno dietro il banco per occuparmi di questo compito. Devo dire che me la cavavo correttamente, ma in generale trovavo la mia attività piuttosto monotona, piuttosto noiosa.
Il padrone della trattoria era sempre ingrugnito ed anche i clienti erano taciturni. Insomma c’era abitualmente un’atmosfera da mortorio. Solo quando Kong Yi Ji veniva alla trattoria si sentiva qualche risata. Per questo me lo ricordo bene ancor oggi.
Kong Yi Ji era l’unico cliente in abito lungo che bevesse il suo bicchierino stando in piedi appoggiato al banco. Era un uomo piuttosto alto, di colorito grigiastro, sul cui volto rugoso comparivano spesso lividi e cicatrici. Aveva una barba brizzolata, lunga ed incolta, e la lunga tunica che indossava appariva sporca e sbrindellata come se non l’avessero più lavata né ricucita da almeno dieci anni. Quando parlava, si capiva a mala pena la metà di quel che diceva. Perciò, poichè il suo cognome era Kong, gli altri clienti, ricordandosi che da ragazzi avevano imparato qualche carattere su un vecchio sillabario scritto in una lingua quasi incomprensibile che si chiamava “L’illustrissimo Kong Yi Ji”, gli avevano affibbiato il soprannome di Kong Yi Ji.
Ogni volta che Kong Yi Ji veniva all’osteria, le persone che stavano lì a bere lo guardavano e si mettevano a sghignazzare. C’era sempre qualcuno che lo
interpellava:
“Kong Yi Ji ti sei di nuovo sbucciato la faccia?”.
Lui non si girava a rispondere, ma, con lo sguardo fisso dinanzi a sé, ordinava due bicchierini di vino ed un piattino di semi di finocchio all’anice mentre allineava sul banco esattamente nove monete da un soldo. Allora gli ripetevano, urlando, il solito ritornello:
“Di sicuro hai di nuovo rubato qualcosa in casa di qualcuno”.
Kong Yi Ji li fissava con gli occhi spalancati, come profondamente addolorato da ciò che aveva sentito, e si sforzava di replicare con dignità:
“Come vi permettete di infangare senza alcun motivo il buon nome di un galantuomo?”.
“Ma che buon nome?” strillavano gli altri. “Ti ho visto l’altro ieri con i miei propri occhi” aggiungeva uno “che ti avevano appena preso a rubare dei libri in casa He. Che botte ti han dato, ragazzi, che botte!”.
Kong Yi Ji diventava tutto rosso in volto, e le vene della fronte gli si gonfiavano come se stessero per scoppiare, mentre protestava:
“Prendere con sé dei libri non può essere considerato furto... Avere in mano dei libri... è il mestiere dello studioso. Quando mai potrebbe essere ritenuto un furto?”.
Poi venivano fuori paroloni difficili come “un gentilomo permane cotale ancor sia miserevole” o come “eziandio” e altre cose di questo genere. A questo punto un riso irrefrenabile coglieva tutti i presenti ed un’atmosfera di rumorosa allegria si propagava per tutta la taverna e nei suoi immediati dintorni.
Avevo sentito raccontare dalla gente nei cortili che all’inizio Kong Yi Ji aveva studiato con grande zelo i classici per poter ottenere un impiego pubblico, ma che in conclusione non era riuscito a conseguire un diploma e che non era stato capace di guadagnarsi la vita in altro modo. Era quindi diventato sempre più povero fin quasi a mendicare il cibo.
Per fortuna sapeva tracciare con il pennello dei bei caratteri e così era riuscito a tirare avanti alla meno peggio copiando libri in cambio del nutrimento. Purtroppo aveva anche dei brutti difetti: gli piaceva molto bere e poco lavorare. Passavano pochi giorni e poi, un bel mattino, il nostro spariva portandosi via libri, quaderni, fogli di carta, pennelli ed inchiostro. Dopo che il fatto s’era ripetuto diverse volte, a gente che poteva affidargli lavori di copiatura smise di chiamarlo. Allora non rimase a Kong Yi Ji nessun’altra risorsa se non quella di rubacchiare di nascosto qualche libro le rare volte che gli si presentava
l’occasione.
Ma nella nostra locanda, paragonato agli altri, era un ottimo cliente perché non lasciava mai a lungo debiti da saldare. Certo, poteva capitare qualche volta che sul momento non avesse denaro con sé, ed allora il suo nome veniva segnato per un po’ di tempo sulla lavagnetta, scritto col gesso, ma prima che fosse passato un mese, Kong Yi Ji pagava sempre quanto doveva ed il suo nome veniva di nuovo cancellato dalla lavagnetta.
Non appena Kong Yi Ji aveva mandato giù un mezzo bicchiere di vino ed il suo volto, che si era fatto paonazzo, aveva a poco a poco ripreso il colorito originario, quelli che gli stavano accanto ritornavano all’attacco:
“Dicci un pò, Kong Yi Ji, ma tu sai davvero leggere e riconoscere i caratteri?”.
Kong Yi Ji li guardava come se fosse evidente che non valeva la pena di rispondere alle loro provocazioni ed a questo punto i villani rincaravano la dose chiedendogli:
“Ma allora come si spiega che non sei riuscito a capirne neppure la metà quando ti sei presentato all’esame distrettuale per il diploma di base?”.
Il povero Kong Yi Ji cominciava allora a perdere ogni contegno, ad agitarsi e a tremare, mentre tutto il suo volto diventava color della cenere e le sue labbra farfugliavano parole senza senso, come “eziandio” o “imperocché” ed altre dello stesso genere, che era tanto se si riusciva a capirne una o due. Quando c’era lui la gente scoppiava a ridere; dentro la trattoria e fuori di essa era tutta un’unica fragorosa risata. In quelle occasioni potevo unirmi anch’io alle risate ed il padrone lasciava correre perché pure lui, quando vedeva Kong Yi Ji, gli faceva spesso domande di questo tipo per far ridere i clienti.
Ben sapendo che era inutile rivolgersi agli altri clienti, Kong Yi Ji cercava di attaccare discorso con i ragazzi che servivano. Una volta mi chiese:
“Hai studiato un po’ i caratteri della scrittura?”.
Io gli risposi appena con un cenno del capo. Allora mi disse:
“Dunque sei stato a scuola...ti farò un esamino. Vediamo... Come scriveresti il carattere «huí» nella parola «huíxiàngdòu»(«semi di finocchio all’anice»)?
Mi domandai tra di me:
“Questo morto di fame viene a farmi l’esame?”.
Mi voltai dall’altra parte e non mi interessai più di lui. Kong Yi Ji aspettò un bel momento, poi mi disse in tono molto serio:
“Non lo sai scrivere, vero? Te lo insegnerò io e cerca di tenerlo bene a mente. Dovrai ricordarti bene di un paio di caratteri come questo quando sarai padrone di una trattoria. Scrivere serve a tenere correttamente i
conti.”.
Pensai tra di me che per diventare padrone di una trattoria avevo ancora da aspettare un bel po’ di tempo e mi venne pure in mente che il mio padrone non metteva mai nei conti i semi di finocchio all’anice. Mezzo divertito e mezzo spazientito, gli risposi svogliatamente:
“Che cosa credi di dovermi insegnare? Non bisogna scrivere in cima il segno dell’erba e sotto l’ideogramma che vuol dire «girare»?”.
Il volto di Kong Yi Ji s’illuminò di intensa soddisfazione. Cominciò a tamburellare con due lunghe unghie sul piano del banco ed assentendo con un cenno della testa mi fece:
“Ma bravo! Ma bravo! Sai che ci sono ben quattro modi di scrivere il carattere che significa «girare»?.”
M’ero già scocciato di ascoltarlo. Gli feci una smorfia e mi spostai verso un altro angolo. Kong Yi Ji aveva appena bagnato le unghie nel vino per poter tracciare gli ideogrammi sul piano del banco. Quando si accorse che non mostravo nessun interesse per quel che mi stava dicendo, ricominciò a sospirare ed il suo volto prese un’aria triste e delusa.
Qualche volta i mocciosi del quartiere, sentendo sghignazzare, correvano a vedere che cosa stava succedendo e facevano cerchio intorno a Kong Yi Ji. Lui allora cominciava a distribuirgli semi di finocchio, un seme per ciascuno. Ma, dopo aver mangiato il loro seme, i bambini continuavano a rimaner lì senza muoversi, con gli occhi fissi sul piattino di semi. Si vedeva subito che Kong Yi Ji si innervosiva. Stendeva la mano aperta sul bordo del piattino come per proteggerlo, si chinava in avanti verso i bambini e biascicava:
“Non ce ne sono più molti. Vi assicuro che ne sono rimasti pochini.”
Poi si raddrizzava, gettava ancora uno sguardo al piattino di semi e ripeteva:
“Non ce ne son più molti. Non mi credete? Ne son rimasti proprio pochini”.
Allora la banda dei mocciosi si disperdeva di corsa ridendo ed urlando.
Era così che Kong Yi Ji ci teneva allegri, ma, anche quando non si faceva vedere, gli altri clienti non ne sentivano la mancanza.
Una volta – dovevano essere all’incirca due o tre giorni prima della festa di Mezzo Autunno – il padrone, che stava facendocon calma i suoi conti, tirò giù la lavagnetta e disse improvvisamente:
“Kong Yi Ji non s’è più fatto vedere da parecchio tempo. Ci deve ancora ben diciannove soldi”.
Mi resi conto allora che era davvero da molto tempo che non l’avevo più visto da noi.
Uno di quelli che stavano bevendo un bicchierino esclamò:
“Vorrei proprio vedere come faceva a venire... lo hanno bastonato di santa ragione, tanto da rompergli le gambe”.
“Ah?!” fece il padrone.
“Continuava ancora a rubacchiare come prima”proseguì l’altro” ma questa volta è stato così stupido da andare a rubare proprio in casa di Ding il letterato, quello che ha superato il concorso provinciale. Come pensava di riuscire a portar via qualcosa da quella casa?”.
“E allora, che cos`è successo” chiese il padrone.
“Che cos`è successo? Prima gli hanno fatto firmare una confessione e poi l’han picchiato... l’han bastonato ben bene per più di metà della notte... gli hanno rotto tutte e due le gambe”.
“E poi?”
“E poi, che cosa? È successo che si è ritrovato con le gambe rotte”.
“Gliele hanno proprio rotte? E dopo, che cosa è successo?”.
“Chi lo sa?” rispose il cliente” Può darsi che sia morto”.
A questo punto il padrone non chiese più nient’altro ed andò avanti piano piano a fare i suoi conti.
Passata la festa di Mezzo Autunno cominciò a fare ogni giorno sempre più freddo e, sebbene io stessi tutto il giorno accanto alla stufa, dovetti mettermi indosso un giubbotto di cotone.
Un pomeriggio, m’ero seduto e m’ero messo a sonnecchiare perché non c’erano clienti da servire quando sentii una voce:
“Fammi scaldare un bicchiere di vino”.
La voce si udiva appena, ma non mi era nuova. Aprii gli occhi e, davanti al banco, non c’era nessuno. Allora mi alzai e andai a dare un’occhiata all’esterno del banco. Ed ecco, seduto per terra sulla soglia della trattoria, al di sotto del bordo del banco, stava Kong Yi Ji. La sua faccia era nera di sporcizia ed il suo sguardo era spento; non aveva più un aspetto umano. Portava una giubba stracciata, piena di rattoppi, e stava con le gambe distese. Dal collo gli pendeva una cordicella di paglia intrecciata che usava per tirarsi dietro la stuoia sulla quale si sedeva. Quando mi vide, disse di nuovo:
“Fammi scaldare un bicchiere di vino”.
A questo punto, il padrone sporse la testa fuori dal banco e chiese:
“Kong Yi Ji? Mi devi ancora diciannove soldi.”
“Ehm, ecco...” rispose Kong Yi Ji mogio mogio “pagherò la prossima volta... questa volta ho i soldi contati... bastano appena per un bicchiere... vorrei bere un bicchierino”.
Il padrone, che era abituato a sfotterlo, gli chiese ridendo:
“Hai di nuovo rubato qualcosa, Kong Yi Ji?”,
ma questa volta Kong Yi Ji, invece di lanciarsi come al solito in un’accalorata e ridicola difesa, disse soltanto:
“Per favore, lasciatemi in pace”.
“Ma come?” riprese il padrone “Se non hai rubato niente, perchè ti hanno bastonato fino a romperti le gambe?”.
“Mi sono rotto le gambe cadendo” rispose Kong Yi Ji a bassa voce “Sono scivolato... ecco, sono scivolato” ed implorava con lo sguardo il padrone di lasciar cadere il discorso.
Nel frattempo si erano raggruppati intorno al banco alcuni clienti, che si misero tutti a ridere insieme al padrone.
Feci scaldare il bicchiere di vino, lo portai fuori e lo posai sul gradino della porta. Lui tirò fuori da una tasca della sua giubba stracciata quattro monete e me le mise in mano. Notai allora che le sue mani erano sporche di terra e di fango. Doveva essersi trascinato fin lì appoggiandosi sulle palme delle mani. Vuotò lentamente il bicchiere e poi, tra le risate e gli scherni di coloro che gli stavano accanto, si trascinò via con grande fatica facendo di nuovo forza sulle mani perché le gambe rotte non gli permettevano di sollevarsi da terra.
Dopo di ciò, passò di nuovo molto tempo senza che lo vedessimo. Alla fine dell’anno il padrone tirò giù la lavagnetta e disse:
“Kong Yi Ji ci deve ancora diciannove soldi”.
L’anno dopo, alla Festa delle Barche dei Draghi, disse di nuovo:
“Kong Yi Ji ci deve ancora diciannove soldi”.
Ma, quando arrivò la festa di Mezzo Autunno, non disse più nulla e giungemmo a Capodanno senza che Kong Yi Ji si fosse fatto vedere.
Non lo vidi mai più nemmeno in seguito. Doveva proprio essere morto.
(Traduzione di Giovanni Gallo)
9 giugno 2012
Un altro racconto di Lu Xun, un po'più allegro del precedente.
UN MOMENTO DIFFICILE
I raggi del sole al tramonto avevano gradualmente formato una striscia gialla sull’argine del fiume. Le foglie degli alberi della cera che si drizzavano sull’argine tiravano finalmente un sospiro di sollievo dopo una giornata afosa , mentre più in basso i moscerini volavano ronzando intorno alle piante.Le volute di fumo che si levavano dalle case dei contadini, dove si stava preparando la cena, svanivano poco a poco, l’una dopo l’altra. Le donne ed i bambini spruzzavano un po’d’acqua per terra sulla soglia delle case e mettevano giù tavolini e seggiole.
Si capiva che era già arrivato il momento di mangiare.
I vecchi e gli uomini sedevano sulle seggiole e conversavano, sventolando grandi foglie di banano per rinfrescarsi, mentre i bambini più piccoli correvano tutt’intorno o stavano seduti sotto gli alberi della cera giocando con i sassolini.
Le donne portavano fuori fagioli neri secchi bolliti e riso giallo bollito del Songhua.
I gitanti a bordo di una barca che navigava sul fiume, resi romantici dal ricordo
delle poesie studiate a scuola, si estasiavano a quella vista: “ Che pace! Che serenità! Ecco veramente la vita idilliaca dei contadini!”.
Ma queste osservazioni piene di lirismo non trovavano alcun riscontro nella realtà.
Essi infatti non avevano sentito ciò che stava dicendo la vecchia signora Novelibbre che, in quel momento, era particolarmente stizzita e, battendo nervosamente con una foglia di banano ormai lacera le gambe della seggiola, borbottava: “Sono arrivata a settantanove anni e ne ho viste di cose, ma non posso sopportare che questi giovani mandino in rovina la nostra famiglia. È molto meglio morire. Fra dieci minuti si cena e questi continuano a mangiare piselli abbrustoliti. Finiranno per mangiarci la casa, per ridurci in miseria”.
La sua bisnipote Seilibbre, che proprio in quel momento stava correndole incontro con una manciata di piselli in mano, capì al volo che tirava cattiva aria e scappò sull’argine del fiume, nascondendosi dietro un albero della cera. Poi, sporgendo da dietro il tronco la testolina ornata da due piccoli ciuffi di capelli, gridò forte: “ Pellaccia dura”.
La vecchia Novelibbre, nonostante la veneranda età, ci sentiva ancora molto bene, ma, assorta nei suoi pensieri, non fece caso alle parole della bimba e continuò a borbottare tra di sé: “Ogni generazione è peggio di quella di prima”.
Nel villaggio c’era un uso un po’ strano: le donne che partorivano si divertivano a prendere le bilance ed a pesare i neonati e poi usavano il numero di libbre come nomignolo per i bambini.
Da quando aveva compiuto i cinquant’anni la vecchia Novelibbre aveva cominciato a cambiar carattere e ad inacidirsi, ad osservare che ai suoi tempi le cose andavano meglio, che non faceva così caldo e che anche i piselli erano più teneri. Insomma, il mondo moderno non le andava proprio bene. Per non dire poi che Seilibbre pesava alla nascita tre libbre in meno del bisnonno ed una libbra in meno di suo padre Settelibbre. Questo era un esempio concreto che non si poteva assolutamente contestare. E così continuava a ripetere instancabilmente: “Ogni generazione è peggio di quella di prima”.
La moglie di suo nipote Settelibbre, che stava portando in tavola un vassoio di riso, lo sbattè giù di malagrazia e rispose molto seccata: “Stai ricominciando con questa storia, nonna? La bambina è nata di sei libbre e dodici once, d’accordo. Ma voi, in famiglia, usate bilance fatte in casa, tarate a diciotto once. Se avessimo usato le bilance che usano tutti, tarate a sedici once, avremmo trovato che la bambina pesava sette libbre abbondanti. Del resto non credo affatto che il bisnonno ed il nonno pesassero veramente otto o nove libbre. Forse le bilance che usavano allora erano tarate a quattordici once”.
“Ogni generazione è peggio di quella di prima” replicò la vecchia.
Prima di poterle rispondere, la signora Settelibbre vide improvvisamente suo marito spuntare all’estremità del vialetto e scaricò su di lui la propria irritazione: “Disgraziato, com’è che ritorni a casa solo adesso? Dove sei stato finora? Non t’importa niente che qui a casa stiamo aspettando proprio te per la cena?”.
Anche se abitava in un villaggio di contadini, il signor Settelibbre s’era sempre ingegnato di volare un po’ più alto. A partire da suo nonno fino a lui, per tre generazioni, nessuno, in casa, aveva mai preso in mano una zappa. Come già aveva fatto suo padre pilotava una barca da trasporto con cui ogni giorno faceva andata e ritorno fino alla città di Luzhen, partendo di primo mattino e tornando a casa verso sera. Di conseguenza era ben informato di tutto. Sapeva, ad esempio, dove il dio del tuono aveva squartato lo spirito del millepiedi e dove una vergine aveva partorito una specie di demone notturno.
Sebbene il signor Settelibbre godesse di un certo prestigio tra la gente del villaggio e si fosse già creato una solida reputazione tra i compaesani, la sua famiglia conservava ancora le vecchie abitudini contadine e non vi si accendevano le lampade per cena. Così, quando il signor Settelibbre ritornava a casa che stava già facendo buio erano dolori.
Tenendo in mano la sua pipa di bambù dello Xiangfei, lunga oltre
sei piedi, con il bocchino d’avorio ed il fornello in peltro, Settelibbre venne
avanti lentamente, con la testa bassa, e si lasciò cadere su una seggiola.
Seilibbre approfittò della situazione per scivolare fuori dal suo nascondiglio
ed accovacciarsi accanto al padre. Gli disse anche qualcosa, ma lui non le
prestò attenzione.
“Ogni generazione è peggio di quella di prima” borbottò la vecchia Novelibbre.
Settelibbre sollevò lentamente la testa e mormorò con un sospiro: “L’imperatore è risalito sul Trono del Drago”.
La signora Settelibre rimase un lungo istante senza parole, poi, d’improvviso, come in trance, sembrò aver capito: “Può essere un bene. L’imperatore concederà un’amnistia, non è vero?”.
“Non ho più il codino” gemette Settelibbre.
“L’imperatore esige il codino?”
“Lo esige”.
“Come fai a saperlo?” chiese in fretta la signora Settelibbre, tutta agitata.
“Alla Locanda della Prosperità tutti dicono che lo vuole”.
Al sentir questo, la signora Settelibbre percepì d’istinto che non si trattava di una diceria senza fondamento perché la Locanda della Prosperità era un posto dove c’era sempre gente bene informata. Gettò un’occhiata alla testa pelata e luccicante di suo marito e non potè sottrarsi ad una sensazione di dispetto: le faceva pena e rabbia nello stesso tempo.
Poi, d’un tratto, si alzò, riempì ben bene di riso una scodella e la posò con gesto deciso dinanzi a Settelibbre dicendogli: “Affrettati a mangiare. Non ti vergogni a piangere? È così che pensi di farti ricrescere il codino?”.
Gli ultimi raggi di sole erano svaniti e ,sulla superficie del fiume, l’acqua, sempre più scura, andava raffreddandosi. Sul terrapieno si sentiva rumore di
scodelle e di bacchette e le schiene della gente gocciolavano di sudore.
La signora Settelibbre aveva appena finito la terza scodella di riso quando, alzando per caso lo sguardo, vide qualcosa che la fece sobbalzare. Tra le foglie degli alberi si vedeva infatti avvicinarsi la figura corta e panciuta del vecchio signor Zhao, che aveva appena attraversato la passerella. Ed il signor Zhao indossava un’elegante tunica di cotone azzurro lunga fino ai piedi.
Il vecchio signor Zhao era il proprietario della Trattoria dell’Abbondanza nel
villaggio vicino ed era anche, in un raggio di dieci miglia all’intorno, l’unico
notabile che avesse un briciolo di istruzione. Il fatto di sapersi letterato gli
dava quell’aspetto un po’stantio proprio di un uomo di un’altra epoca. Egli
possedeva una dozzina di volumi del “Romanzo dei Tre Regni”, commentato da Jin Shengtan, e si metteva di frequente a leggerli con estrema attenzione, un
carattere dopo l’altro, cosicché era in grado non solo di snocciolarvi nomi e
cognomi dei cinque generali conosciuti come “Le Tigri”, ma addirittura di
precisarvi che Huang Zhong era noto con il soprannome di Han Sheng mentre Ma Chao era detto anche Meng Qi. Dopo la Rivoluzione aveva attorcigliato il codino in cima alla testa alla maniera dei monaci taoisti e spesso osservava sospirando che, se Zhao Zi Long fosse stato ancora in vita, il mondo non sarebbe andato così male come stava andando.
La signora Settelibbre aveva la vista buona e notò subito che quel giorno il vecchio Zhao non era più acconciato alla maniera di un monaco taoista, ma che la sua testa era rasata e che un codino di un nero brillante gli pendeva dalla nuca. Ebbe allora la certezza che un imperatore sedeva di nuovo sul Trono del Drago, che il codino era di nuovo obbligatorio e che suo marito era nei guai.
Il vecchio Zhao infatti non indossava mai senza valide ragioni la tunica di cotone lunga fino a piedi. Nel corso degli ultimi tre anni se l’era messa indosso solo due volte: la prima volta era stata quando s’era ammalato il suo arcinemico A Si il butterato, la seconda volta quando era morto il vecchio Lu che, tempo prima, gli aveva sfasciato la locanda. Questa era la terza volta ed un tal gesto doveva di certo significare qualcosa di buono per lui e di sfavorevole per i suoi nemici.
La signora Settelibbre si ricordò che, due anni prima, suo marito, in preda ai fumi dell’alcool, aveva dato della “carogna” al signor Zhao e si rese conto immediatamente del pericolo che incombeva sul povero Settelibbre.
Il suo cuore prese a battere furiosamente.
Mentre il vecchio signor Zhao veniva avanti per il sentiero, tutti coloro che erano seduti a mangiare si alzavano ed indicando con le bacchette le proprie scodelle lo invitavano: “Signor Zhao, ci faccia l’onore di cenare con noi”. Ma il signor Zhao proseguiva per il suo cammino e, salutando ciascuno con un cenno del capo, rispondeva “Vi prego, vi prego, mangiate tranquilli”. In realtà stava puntando direttamente verso la tavola della famiglia Settelibbre.
I Settelibbre si alzarono in gran fretta per ossequiarlo, ma il signor Zhao disse loro con un sorrisetto:“Vi prego, rimettetevi a sedere e continuate pure a mangiare”. Nel frattempo lanciava uno sguardo attento a ciò che stavano mangiando per cena.
“Quei piselli essiccati hanno un profumino delizioso. A proposito, avete sentito le ultime novità?”.
Il signor Zhao s’era piazzato proprio dietro alla sedia di Settelibbre , in faccia alla signora Settelibbre.
“L’imperatore è risalito sul trono” mormorò Settelibbre.
La signora Settelibbre guardava in faccia il vecchio Zhao sforzandosi di sorridere.
“Ora che l’imperatore è risalito sul trono, quando ci sarà l’amnistia?”.
“Il decreto d’amnistia dell’imperatore? Piano piano verrà anche quello. ” rispose il signor Zhao , ma improvvisamente il tono della sua voce si fece severo “ Piuttosto, come la mettiamo con il codino di Settelibre? Il codino. È questo il problema serio. Sapete di certo che cosa accadde ai tempi di quelli chevolevano portare i capelli lunghi: “conservi i capelli e perdi la testa oppure conservi la testa e rinunci ai capelli”.
Settelibbre e sua moglie non avevano mai letto un libro in vita loro e così la dotta citazione storica andò completamente sprecata. Riuscirono però a capire che, se il signor Zhao, il quale era un uomo che aveva studiato, diceva queste cose la situazione doveva senz’altro essere molto grave, forse senza rimedio. Rimasero intontiti come se avessero appena ascoltato la propria condanna a morte. Sentivano un ronzio nelle orecchie e non riuscivano più a dire una parola.
“Ogni generazione è peggio di quella di prima” intervenne la vecchia Novelibbre, di nuovo contrariata, approfittando dell’occasione per rivolgersi al signor Zhao :“ I ribelli di oggi non sanno far altro che tagliare i codini della gente e così non si può più sapere se uno è buddista o taoista. I Capelloni di una volta, quelli erano tutt’altra cosa. Sono arrivata a settantanove anni e ne ho viste delle belle. I Capelloni di una volta avvolgevano con cura i loro capelli in reticelle rosse che gli scendevano giù fino alle caviglie. Il loro capo portava reticelle di seta preziosa gialla e rossa che pendevano giù... seta gialla e rossa. Ne ho viste di cose in settantanove anni”.
La signora Settelibbre si levò in piedi e mormorò, come parlando a sé stessa: “Che cosa si può fare? Siamo parecchi in famiglia, grandi e piccoli, ed è il suo lavoro che ci fa mangiare”.
Il signor Zhao scosse il capo: “ Non c’è nulla da fare. Non portare il codino, è inutile negarlo, è un crimine che è stato previsto, preciso preciso, chiaro chiaro, in tutti i libri delle leggi. La famiglia a carico non è un’attenuante”.
Quando la signora Settelibbre sentì che tutto era scritto nei libri, perse ogni speranza.
Non riuscì più a controllarsi e fu presa da un’improvvisa rabbia contro Settelibbre. Agitandogli le bacchette dinanzi alla punta del naso, gli gridò: “ Ti sei scavato la fossa con le tue stesse mani, ora sarai contento! Quando ci fu la rivolta, non continuavo forse a ripeterti “non prendere la barca, non andare in città”? Ma questo signore voleva a tutti i costi andare in città ed alla fine c’è
andato. C’è andato e gli hanno tagliato il codino. Avevi un bel codino, nero e
lucido, ma ora non si può più sapere se sei buddista o taoista. Questo avanzo di galera se l’è proprio andata a cercare.Ma puoi dirmi perché hai dovuto metterci di mezzo anche noi? Disgraziato... delinquente...”.
Gli abitanti del villaggio vedendo giungere il signor Zhao s’erano affrettati a finire la loro cena ed ora facevano capannello intorno alla tavola ancora apparecchiata della famiglia Settelibre.
Ad un tratto Settelibbre si rese conto di quanto fosse disdicevole per un uomo stimato essere pubblicamente vilipeso dalla moglie in questo modo. Solo allora alzò piano piano la testa ed obiettò: “ Oggi hai tanto da dire, ma in quel momento...”.
“Farabutto... delinquente...”.
Tra tutti gli spettatori di questa scena la giovane vedova Ba Yi era quella che aveva più buon cuore. S’era trovata, con in braccio il suo bambinetto di due anni, nato dopo la morte del padre, proprio accanto alla signora Settelibbre nel momento della sfuriata ed aveva pensato che le cose stavano prendendo una brutta piega. Perciò aveva subito cercato di calmarla dicendole: “Signora Settelibbre, non se la prenda così! Non siamo esseri soprannaturali. Nessuno di noi può prevedere il futuro. Non ha detto anche lei in quei giorni che non c’era niente di male a tagliarsi il codino? Inoltre i funzionari della provincia non hanno ancora detto niente su questa faccenda...”.
La signora Settelibbre non la lasciò finire. Con le orecchie color rosso fiamma,
girò le bacchette per puntarle diritto in faccia alla vedova Ba Yi e ruggì: “Davvero? E sarei io che avrei detto questo? Che cosa le viene in mente, signora Ba Yi? Mi guardi bene! Mi pare di essere ancora un essere umano. Come avrei potuto tirar fuori una così mostruosa idiozia? Io, allora, non
ho fatto altro che piangere. Ho pianto per tre giorni interi. Mi hanno visto
tutti. Piangeva persino questa povera anima di Seilibbre..”.
La piccola Seilibbre, che aveva appena vuotato una grossa scodella di riso, cominciò a strillare perché ne voleva un’altra.
La signora Settelibbre, che era già fuori di sé, abbassò violentemente il braccio e le sbattè le bacchette sulla testa, proprio in mezzo ai due ciuffetti di capelli, sgridandola ad alta voce: “Che cosa sono queste urla, piccola selvaggia?”
La scodella vuota sfuggì di mano a Seilibbre e, cadendo a terra, finì, proprio come se non ci fosse stato nessun altro posto in cui cadere, sullo spigolo di un mattone. Si udì il rumore secco di qualcosa che si rompe ed un grosso pezzo del bordo della scodella schizzò via.
Il signor Settelibbre saltò su a raccogliere i pezzi della scodella rotta per vedere se si potevano ancora rimettere insieme e, visti i danni, urlò: “Disgraziata”.
Seilibbre si beccò dalla madre un ceffone che la stese per terra
e rimase lì a piangere finché la vecchia Novelibbre non la prese per mano e non
la portò via con sé borbottando: “Ogni generazione è peggio di quella di prima”.
La vedova Ba Yi, scandalizzata, protestò ad alta voce: “ Signora Settelibbre! Come può picchiare un bambino?”.
Il signor Zhao aveva assistito sorridendo a tutte queste scene, ma si era irritato quando la vedova Ba Yi aveva affermato che i funzionari della provincia non avevano ancora detto nulla a proposito del codino. Girò perciò intorno alla tavola per avvicinarsi alla vedova Ba Yi ed una volta che fu a qualche passo da lei le chiese: “ Ma che cosa le importa che abbiano picchiato la bambina? Tra poco saranno qui i soldati dell’imperatore. Dovete sapere che adesso chi sostiene l’impero è il generale Zhang , che discende dal famoso Zhang Fei De di Yan. Ha una lancia lunga diciotto piedi, con la lama ondulata , ed ha il coraggio di affrontare da solo diecimila uomini. Chi potrà fermarlo?”.
E, sollevate insieme le due mani come se stesse impugnando un’enorme lancia con la lama ondulata, fece finta di scagliarsi sulla vedova Ba Yi urlando: “ Lo ferma lei ?”.
La signora Ba Yi, che si teneva stretto in braccio il bambino, era ancora sconvolta dallo schiaffone che aveva visto affibbiare a Seilibbre. Vedendosi piombare addosso all’improvviso il signor Zhao, con la faccia tutta gocciolante di sudore e gli occhi spiritati, si prese uno spavento tremendo, e, voltatasi di scatto, si allontanò in gran fretta, senza più osar dire una sola parola.
Gli abitanti del villaggio criticavano la signora Ba Yi per aver messo il naso in cose che non la riguardavano, ma, mentre si spostavano per far strada al signor Zhao, alcuni uomini che si erano fatti tagliare il codino e che , in quei giorni, avevano appena cominciato a farselo ricrescere, si nascosero in fretta dietro agli altri perché non li vedesse. Ma il signor Zhao passò fra la gente
senza fare troppa attenzione a chi gli stava intorno ed in un attimo fu dietro
il vialetto alberato. Dopo aver ripetuto ancora una volta, a guisa di saluto,
“Se credete di poterlo fermare...”, attraversò la passerella e si perse in
lontananza.
Gli abitanti del villaggio rimasero lì basiti rendendosi conto tutti quanti che non potevano avere nessuna speranza di fermare Zhang Fei De. Di conseguenza decisero che Settelibre andava già considerato praticamente morto. Ora che si era scoperto che Settelibbre era un delinquente, trovarono che prima, quando raccontava alla gente le notizie della città, avrebbe fatto meglio a non fumare la sua lunga pipa con quell’aria di ostentata superiorità e non poterono non provare una certa soddisfazione nel vedere come era andata a finire. Avrebbero voluto discutere a lungo di questa storia, ma non sapevano che cosa
dire. Inoltre nubi di moscerini sbattevano con un ronzio continuo contro le loro braccia nude per poi volare a rifugiarsi sotto gli alberi. Perciò, alla fine, anch’essi piano piano si dispersero per ritornare alle loro case, chiusero le porte ed andarono a dormire.
Brontolando, la signora Settelibre raccolse i piatti, i tavolini e le seggiole e riportò tutto in casa. Poi chiuse la porta ed andò anche lei a letto.
Il signor Settelibbre, dopo aver riportato dentro la scodella rotta, si sedette sulla soglia di casa a fumare, ma era così agitato che dimenticò di tirare la sua pipa di bambù dello Xianfei lunga più di sei piedi con il bocchino d’avorio e la brace nel fornello di peltro a poco a poco si spense.
Settelibre sentiva, nel suo intimo, che la situazione era molto, molto pericolosa e cercava disperatamente di trovare una via d’uscita, di pensare ad un piano di salvezza, ma tutto gli pareva estremamente confuso e non riusciva a concentrarsi su un solo pensiero coerente: “ Il codino? Sì, il codino... La lancia lunga diciotto piedi con la lama ondulata...Ogni generazione è peggio di quella di prima! L’imperatore siede di nuovo sul Trono del Drago...Devo portare in città la scodella rotta per farla riparare...Chi potrà fermarlo?...Sta tutto scritto, preciso preciso, nei libri... Disgraziata! ...”
Il giorno dopo, di primo mattino, Settelibbre, come di consueto, prese la barca ed andò a Luzhen, da dove ritornò verso sera con la sua pipa di bambù dello Xianfei, lunga più di sei piedi, e con la scodella. A cena, raccontò alla vecchia Novelibbre che aveva fatto riparare la scodella in città. Poiché ne era saltato via un gran pezzo, c’erano volute ben sedici graffette per ripararla. Al prezzo di tre soldi l’una, aveva fatto quarantotto soldi in tutto.
La vecchia Novelibbre gli rispose con malagrazia: “Ogni generazione è peggio di quella di prima. Ho vissuto abbastanza. Tre soldi per una graffetta! E fossero almeno come quelle di una volta...le graffette di una volta erano...ah, ho vissuto settantanove anni”.
Sebbene Settelibbre continuasse regolarmente a recarsi ogni giorno in città, la sua casa era ora molto meno frequentata. La maggior parte dei compaesani lo evitavano e non venivano più a domandargli quali novità ci fossero in città. Anche la signora Settelibbre era sempre di cattivo umore e continuava a chiamarlo “avanzo di galera”.
Quasi due settimane dopo, tornando a casa la sera dalla città, Settelibbre trovò la moglie di ottimo umore.
“Hai sentito qualcosa in città?”gli domandò.
“No, non ho sentito niente”.
“Sai se l’imperatore è veramente risalito sul
trono?”.
“Nessuno ne parlava”.
“Alla Locanda della Prosperità non hai sentito nessuno che ne
dicesse qualcosa?”.
“Neppure lì ne hanno parlato”.
“Credo proprio che l’imperatore non sia risalito sul trono. Oggi sono passata davanti alla locanda del signor Zhao e l’ho visto seduto a leggere. Aveva di nuovo il codino arrotolato in cima alla testa e non indossava la tunica lunga fino ai piedi.”.
Ci fu un attimo di silenzio.
“Pensi che l’imperatore risalirà sul trono?” domandò infine Settelibbre.
“Credo proprio di no”.
Oggi il signor Settelibbre è di nuovo rispettato e trattato come si deve dalla moglie e dai compaesani.
Quando arriva l’estate, tutta la famiglia continua come prima a mangiare sulla piazzuola in terra battuta dinanzi alla soglia di casa e , vedendoli, tutti li salutano sorridendo.
La vecchia Novelibbre ha compiuto da un po’ di tempo gli ottant’anni e
continua a lamentarsi, ma è sempre sana come un pesce.
I ciuffetti di capelli della piccola Seilibbre si sono ormai trasformati in una folta treccia. Anche se hanno cominciato a bendarle i piedini, può ancora aiutare la signora Settelibbre nei lavori di casa e zampetta avanti e indietro sulla piazzuola in terra battuta, a passettini incerti, tenendo in mano la sua scodella riparata con sedici graffette.
(Traduzione di Giovanni Gallo)
11 giugno 2012
Ancora un racconto di Lu Xun.
IL DIARIO DI UN MATTO
Due fratelli, di cui ora non dirò il nome, erano diventati miei amici al tempo delle scuole medie, ma poi ciascuno di noi era andato per la propria strada e, col passare degli anni, a poco a poco ci eravamo persi di vista. Alcuni giorni fa ho saputo accidentalmente che uno di loro era stato molto malato.Mentre ritornavo alla mia città di origine, ho interrotto il viaggio ed ho fatto un salto a casa loro, ma ne ho incontrato soltanto uno.
Mi ha detto che il malato era il fratello minore. “Ti sei scomodato a venire di lontano” ha aggiunto “ma mio fratello s`è ristabilito già da parecchio tempo ed è stato inviato a fare una supplenza in provincia”. Poi si è messo a ridere e mi ha mostrato due quaderni, di quelli che si usano per tenere un diario, spiegandomi che da quei quaderni si poteva capire chiaramente la natura della malattia e che non c’era niente di male nel mostrarli ad un vecchio amico.
Ho preso con me i quaderni e, nel viaggio verso casa, li ho letti attentamente. Mi sono allora reso conto che il mio amico aveva sofferto di una forma di “ delirio di persecuzione”.
Il diario è scritto in modo confuso e disordinato ed è pieno di frasi senza senso. Inoltre non vi è menzionata alcuna data e solo qualche differenza nel colore dell’inchiostro o nella forma dei caratteri, ora scarabocchiati ora tracciati con un pò più d’attenzione, permette di comprendere che l’autore non l’ha redatto tutto nello stesso posto e nello stessomomento.
Di tanto in tanto vi compare anche qualche considerazione più o meno
ragionevole.
Ho copiato alcuni brani del diario, che intendo utilizzare come materiale per uno studio scientifico. Ho riportato tutto, anche gli svarioni, senza cambiare una sola parola.
Tuttavia ho modificato i nomi delle persone, anche se si tratta sempre di gente di campagna, individui sconosciuti e senza importanza.
Quanto al titolo, è il titolo che lui stesso ha dato ai suoi appunti dopo la guarigione ed io non l’ho cambiato.
In data 4 aprile del settimo anno dell’era repubblicana.
Capitolo I
Stasera c’è veramente una bella luna. Eran trent’anni che non la vedevo ed oggi l’ho vista. Mi sento particolarmente euforico. Solo adesso mi rendo conto che finora per più di trent’anni ho vissuto nel buio. Però devo stare molto attento. Se così non fosse, perché quel cane dinanzi alla casa dei Zhao mi avrebbe ripetutamente guardato di traverso? Ho ben ragione di aver paura.
Capitolo II
Stasera non c’è luna. È inquietante, lo so. Stamattina, quando, con molta cautela, sono uscito di casa, lo sguardo del vecchio Padron Zhao era proprio strano. Sembrava al tempo stesso timoroso ed ostile. C’erano altri sette od otto individui che s’erano raggruppati e stavano confabulando tra di loro. Parlavano di me, perché li vedevo arricciare le labbra e guardarmi ridendo. Di nuovo un brivido mi è corso fino ai piedi. Era chiaro che erano pronti, che tutto era ormai stato deciso.
Non potevo mostrare di aver paura. Ho continuato ad andare avanti per la mia strada.
Davanti a me c’era un gruppetto di bambini. Anche loro stavano parlando di me e nei loro occhi c’era uno sguardo che non saprei definire, simile a quello
del vecchio Padron Zhao. Le loro facce erano pallide. Mi sono domandato quale
astio possa spingere dei bambini a comportarsi in questo modo. Non ho potuto
fare a meno di fermarmi e di chiedere loro ad alta voce: “Perché?”. Sono scappati via.
Mi domando quale risentimento possa avere verso di me Padron Zhao e per quale ragione la gente che incontro per strada ce l’abbia con me. L’unica cosa che mi viene in mente è che, una ventina d’anni fa, avevo strappato di mano al signor Gu Jiu i registri annuali dell’irrigazione e li avevo calpestati e che il signor Gu Jiu se n’era avuto molto a male. Padron Zhao non conosce il signor Gu Jiu, ma di certo gli sono arrivate voci su questa storia e vuol farmi pagare quel mio gesto. Perciò s`è messo d’accordo con quella gente sulla strada per farmi del male.
Ma, i bambini? A quel tempo non erano ancora venuti al mondo. Allora, perché oggi mi fissavano con uno sguardo in cui sembravano mescolarsi paura ed avversione.
Questo mi rende veramente inquieto. Deve essere qualcosa che gli hanno messo in testa padre e madre.
Capitolo III
Stasera non riesco proprio a prendere sonno.
Occorre riflettere su ogni cosa con attenzione per riuscire a capire.
Alcuni di questi uomini sono stati fatti bastonare e mettere alla gogna dalle autorità del distretto, altri sono stati schiaffeggiati dai notabili del villaggio, altri si son visti portar via le mogli dalle guardie, altri ancora hanno visto i genitori spinti al suicidio dalle angherie dei padroni. Ebbene, non gli avevo mai visto finora una faccia così impaurita ed al tempo stesso così cattiva come quella che hanno adesso.
La cosa più strana è stata quella donna che ho incontrato ieri per strada, mentre picchiava il suo bambino. Gli diceva :“Birboncello! Vorrei mangiarti tutto per la rabbia che mi fai” , ma i suoi occhi erano puntati su di me. Sono stato colto da un tremito, che non sono riuscito a nascondere. Quegli individui dal volto livido e dai denti come i lupi si sono messi a ridere e a sghignazzare. Allora il vecchio Chen il quinto è corso avanti, mi ha afferrato saldamente per un braccio e mi ha trascinato in casa.
Mi ha trascinato in casa, ma sembrava che la gente di casa non mi conoscesse più. I loro sguardi erano uguali a quelli degli individui che stavano fuori. Non appena sono entrato nella biblioteca, mi hanno subito sbarrato la porta dietro, come se non fossi nient’altro che una gallina o un’anatra da chiudere nel pollaio. Questo incidente mi ha confermato che i miei sospetti non erano privi di fondamento.
Alcuni giorni fa, il nostro fittavolo del villaggio di Langzi è venuto ad informarci che il raccolto era andato male ed ha raccontato a mio fratello maggiore che un noto cattivo soggetto del paese era stato fatto bastonare a morte dalle autorità e che in seguito alcuni avevano tirato fuori dal cadavere il cuore ed il fegato, li avevano messi a friggere nell’olio e li avevano mangiati per poter diventare spavaldi come lui. Quando mi sono permesso di dire una parola, il contadino e mio fratello mi hanno guardato con tanto d’occhi. Soltanto adesso mi rendo conto che i loro sguardi erano identici a quelli della gente che sta là fuori.
Al solo pensarci, sudo freddo dalla testa ai piedi.
È gente che si è messa d’accordo per mangiare carne umana.Perché non sarebbero capaci di mangiare anche me?
Pensate alle parole di quella donna “vorrei mangiarti tutto”, alle risate di quei tipi dal volto livido e dai denti affilati, al racconto del fittavolo...è chiarissimo che sono tutte allusioni dissimulate, comunicazioni in codice. Vedo perfettamente tutto il veleno che cola nelle loro parole, tutta la perfidia nascosta nelle loro risate. Hanno i denti bene allineati, tutti bianchi ed aguzzi: sono mangiatori di uomini.
Per quanto mi riguarda, posso assicurare che sono un persona perbene, anche se , da quando ho calpestato i libri contabili di casa Gu, può sembrare difficile sostenerlo.
È come se questa gente avesse un modo di pensare nascosto, che mi sfugge del tutto.
Se vogliono rovinare la reputazione di qualcuno, allora dicono che è un cattivo soggetto. Mi ricordo ancora che, quando mio fratello maggiore mi aiutava a fare i temi, per quanto esemplare fosse il personaggio di cui dovevo parlare, se facevo qualche osservazione nei suoi confronti, la metteva in evidenza, tracciando un cerchio intorno agli ideogrammi, mentre, allorché tentavo di trovare qualche scusa per un farabutto, mi diceva: “Vedo che oggi hai fatto dei ragionamenti sottili. Questo dimostra comunque una certa originalità”.
Io qui devo assolutamente riuscire a decifrare i loro pensieri; questa è gente che vuole mangiare degli esseri umani. Ma come posso fare?
Occorre studiare qualsiasi fenomeno con molta cura per poterlo capire.
Mi ricordo ancora di aver letto che nel lontano passato il cannibalismo era frequente, ma non ho le idee molto chiare in proposito.
Ho dato un’occhiata ad un libro di storia, che però non riportava le date e sul quale, in ogni pagina, erano tracciati di traverso i caratteri “Umanità” e “Virtù”. Poichè, pur essendomi coricato, non riuscivo ad addormentarmi, ho letto senza sosta per metà della notte finché gli ideogrammi si sono messi a ballare dinanzi ai miei occhi e tutto il libro si è riempito di due soli caratteri “mangiare uomini”. Tutti questi innumerevoli caratteri identici del libro, tutte le parole nel discorso del fittavolo mi guardavano con un sorriso sarcastico nei loro occhietti di scimmia.
Anch’io sono un uomo, e loro vogliono mangiarmi!
Capitolo IV
Stamattina sono rimasto tranquillamente seduto per un bel momento. Il vecchio Chen è venuto a portarmi il pranzo: un zuppa di verdure ed un pesce al vapore. Gli occhi del pesce erano bianchi e duri, la bocca spalancata proprio come quella delle persone che vogliono mangiare carne umana.
Dopo averne ingoiati alcuni bocconi, non sapevo più dire se quei pezzetti di carne molliccia erano carne di pesce o carne umana. Mi sono rimasti sullo stomaco ed ho finito per vomitare.
Allora ho detto al vecchio Chen : “Va’ a dire a mio fratello che qui mi sento soffocare e che vorrei fare due passi in giardino”.
Il vecchio Chen se n’è andato senza rispondermi, ma dopo un po' è tornato e mi ha aperto la porta.
Io però non mi sono mosso. Volevo vedere come mi avrebbero trattato. Ero sicuro che non mi avrebbero lasciato libero di fare ciò che volevo. Ed infatti, mio fratello mi si è subito avvicinando camminando lentamente per accompagnare verso di me un tipo anziano che aveva negli occhi lo sguardo di un assassino.Temendo che me ne accorgessi, questo tizio aveva chinato la testa e mi sbirciava di soppiatto da sopra il bordo degli occhiali.
“Oggi hai l’aria di stare proprio bene” ha osservato mio fratello.
“Sì” ho risposto.
“Stamane ho pregato il dottor He di passare un attimo da noi per darti un’occhiata”.
“Va bene” ho risposto, anche se sapevo con certezza che quel vecchio era semplicemente il boia travestito, il quale, facendo finta di tastarmi il polso, voleva in realtà controllare se ero abbastanza grasso, perché, in ricompensa della sua opera, avrebbe ricevuto anche lui una porzione della mia carne da mangiare.
Ma io non ho avuto paura.
Non sono un cannibale, ma sono lo stesso più coraggioso di loro.
Gli ho presentato i polsi per vedere che cosa avrebbe fatto.
Si è seduto, ha chiuso gli occhi, mi ha tastato con cura il polso per un momento, poi è rimasto per un po' immobile senza parlare, infine ha spalancato quei suoi occhi assatanati ed ha detto: “Non c’è da preoccuparsi. Tranquillo tranquillo per qualche giorno e tutto tornerà a posto”.
Non c’è da preoccuparsi! Tranquillo tranquillo! Certo, tranquillo e grasso, così è chiaro che avranno di più da mangiare.
Ma per me che vantaggio ci sarà mai? Com è possibile che “tutto torni a posto”?
Tutta questa gente che ha voglia di rimpinzarsi di carne umana, ma che desidererebbe farlo di nascosto, tutti questi spiriti demoniaci che non hanno il coraggio dei loro atti, quanto mi fanno ridere, morire dal ridere.
Non ho più resistito ed ho cominciato a ridergli in faccia senza potermi trattenere. Una risata allegra ed irrefrenabile che esprimeva chiaramente il mio pensiero, che gli faceva capire quanto ero onesto e coraggioso.
Il vecchio e mio fratello sono impalliditi tutti e due, sorpresi dal coraggio e dalla rettitudine che stavo dimostrando.
Ma è proprio perché sono coraggioso che hanno ancor più voglia di mangiarmi. Sperano di impregnarsi di un briciolo del mio coraggio.
Il vecchio è uscito da casa nostra, ma, fatti pochi passi, si è voltato ed ha mormorato a mio fratello, che lo aveva accompagnato fino alla porta: “Va ingoiato subito” e mio fratello ha fatto cenno di sì con la testa.
Ma allora fai parte anche tu di questo bel gruppo!
Non c’ero proprio arrivato, eppure avrei potuto pensarci: quelli che vogliono mangiarmi hanno un complice...mio fratello!
Mio fratello è un cannibale!
Ed io sono il fratello di un cannibale!
Certo non sarà lui a mangiarmi, mi lascerà mangiare dagli altri...ma resta il fatto che sono il fratello di un cannibale!
Capitolo V
È da qualche giorno che ci sto ripensando.
Ammettiamo pure che quel tizio anziano non fosse il boia travestito, ma fosse invece proprio un medico. Che cosa cambierebbe? Continuerebbe anche in questo caso ad essere un mangiatore di carne umana.
In quel suo libro intitolato” Medicina...ehm”- chi si ricorda più il titolo completo?- un luminare della scienza medica come Li Shizhen non ha forse scritto, nero su bianco, che la carne umana è commestibile purché sia ben cotta.
Non vedo quindi come quel tizio potrebbe negare di essere un mangiatore di carne umana.
Quanto a mio fratello, ho delle buone ragioni per diffidare di lui. Mi ricordo che, quando mi aiutava a leggere i libri di storia, lo sentii dire una volta con la sua stessa bocca che era possibile “scambiarsi i figli per mangiarli” ed affermare in un’altra occasione, mentre si discuteva di un malvagio, che non solo meritava di essere ucciso, ma che addirittura si doveva “mangiare la sua carne e dormire nella sua tana”.
Io ero ancora un bambino allora e rimasi terrorizzato da quelle parole per almeno mezza giornata.
Del resto , curiosamente, non mi è parso per nulla scosso nemmeno l’altro giorno quando il nostro fittavolo di Langzi è venuto a raccontargli quella storia della gente che aveva mangiato il cuore ed il fegato del giustiziato, anzi assentiva di continuo con la testa.
Ciò mostra che il suo animo è rimasto crudele come un tempo.
Se è consentito “scambiarsi i figli per mangiarli”, allora qualsiasi cosa può essere scambiata, chiunque può essere mangiato.
Una volta ascoltavo quel che diceva senza riflettere e non mi accorgevo che erano delle pazzie, ma oggi vedo con nitidezza che, quando faceva quei discorsi, non solo aveva grasso umano che gli colava ancora dagli angoli della bocca, ma aveva in mente un solo, chiarissimo pensiero: mangiare carne umana.
Capitolo VI
Scuro, scurissimo.... non riesco a capire se è giorno o notte.
Il cane di casa Zhao ha ricominciato ad abbaiare.
Bisogna avere il coraggio di un leone, la circospezione di un coniglio e l’astuzia di una volpe......
Capitolo VII
Conosco i loro metodi: non uccidono direttamente, o piuttosto non osano farlo per paura delle maledizioni e degli spiriti. Invece si sono messi tutti d’accordo per farmi sentire in trappola dovunque io vada e per spingermi ad ammazzarmi da solo.
Provate a guardare l’atteggiamento di quegli uomini e di quelle donne che ho incontrato per strada qualche giorno fa, considerate il comportamento di mio fratello in questi ultimi giorni, e questo vi basterà per rendervi perfettamente conto di ciò che sta succedendo.
Per questa gente la soluzione più comoda sarebbe che uno si slacciasse la cintura e si appendesse ad una trave. Così si strangolerebbe da solo, senza che contro di loro si potesse formulare un’accusa di assassinio ed i loro più intimi desideri sarebbero pienamente soddisfatti.
Ne sarebbero naturalmente i più felici del mondo e si metterebbero a sghignazzare dalla gioia. È vero che un uomo che si uccide perché è demoralizzato e terrorizzato sarà generalmente un po’ deperito, ma per
loro andrebbe ancora molto bene.
Questa è gente che è soltanto capace di mangiare carogne! Mi ricordo di aver letto in non so più quale libro di una bestia chiamata iena, così brutta che è quasi impossibile guardarla. È una bestia immonda, che si nutre di carogne. Frantuma con i suoi dentacci anche le ossa più grandi e le mastica fino a farne una poltiglia di pezzettini piccoli piccoli che poi ingoia tutti insieme: una cosa che fa già rabbrividire al solo pensarci.
Le iene sono imparentate con i lupi ed i lupi appartengono alla famiglia dei cani.
L’altro giorno il cane di casa Zhao mi ha fissato più volte: è chiaro che anche lui è un loro complice. Si sono messi d’accordo da tempo.
Il vecchio Zhao teneva gli occhi bassi, ma come poteva pensare di riuscire a darmela a bere?
Chi mi fa più pena però è mio fratello. Anche lui è un uomo. Come fa a non aver paura di questa gente, anzi addirittura a complottare con loro per divorarmi?
Forse, avendo ormai preso l’abitudine, non gli sembra più di fare del male. Oppure il suo animo si è già talmente indurito che fa il male sapendo di farlo.
Perciò, se dovrò maledire i mangiatori di uomini, dovrò cominciare da mio fratello, ma anche se vorrò tentare di dissuaderli, dovrò cominciare da mio fratello.
Capitolo VIII
In realtà, a quest’ora argomenti di questo tipo avrebbero già dovuto convincerli da lungo tempo.
Improvvisamente qualcuno è entrato nella mia stanza.
A prima vista non doveva avere più di vent’anni, ma i suoi lineamenti
non si riuscivano a scorgere con molta chiarezza. Era tutto sorridente e mi ha fatto un cenno con la testa, ma neppure il suo era un sorriso genuino.
Gli ho chiesto, senza tanti preamboli: “È giusto mangiare carne umana?”.
Sempre con un gran sorriso mi ha risposto: “ Perché mai si dovrebbe mangiare carne umana quando non c’è carestia?”.
Ho subito capito che anche lui era uno di loro, uno di quelli cui piace mangiare carne umana.
Allora ho raccolto tutto il mio coraggio e gli ho ripetuto la stessa domanda: “È giusto?”.
“Perché mi fa queste domande? Lei ha davvero...davvero voglia di scherzare.
Che bel tempo fa oggi!”
“Il tempo è bello... e c’è anche una luna magnifica, ma io Le stavo semplicemente chiedendo: “È giusto?”.
È rimasto sconcertato dalla mia insistenza ed ha cominciato a balbettare: “No...o...noo..n”.
“Non è giusto? Ma allora perché quelli lo fanno?”.
“Di che cosa sta parlando?”.
“Di che cosa sto parlando? Nel villaggio di Langzi mangiano carne umana, ed inoltre può trovare tutto scritto nei libri, nero su bianco, anzi meglio, tutto scritto con un bell’inchiostro rosso”.
A questo punto il suo volto ha cambiato aspetto ed è visibilmente impallidito.
Guardandomi con gli occhi sbarrati ha mormorato: “ È ben possibile che sia così... è sempre stato così”.
“È sempre stato così e dunque è giusto che sia così?”.
“Non desidero discutere di queste cose con Lei. E Lei, comunque, non dovrebbe parlarne. Chiunque ne parla fa male”.
Ho avuto un sobbalzo e mi sono tirato su spalancando gli occhi, ma l’uomo era già sparito. Ero tutto madido di sudore.
L’uomo che ho visto era molto più giovane di mio fratello, ma, sorprendentemente, era anche lui uno di loro. Devono essere stati suo padre e sua madre ad insegnarli a mangiare carne umana. E temo che lui abbia già trasmesso questo insegnamento ai suoi figli. Ecco perché i bambini mi fissano anche loro con uno sguardo così cattivo.
Capitolo IX
Hanno voglia di mangiare i propri simili ma, al tempo stesso, hanno paura di essere mangiati dagli altri. Per questo si spiano l’un l’altro con estrema diffidenza quando si trovano faccia a faccia...
Come sarebbe confortevole la loro vita se si liberassero da questa ossessione e potessero lavorare, camminare per strada, mangiare e dormire serenamente.
Sono ad un passo dalla porta della salvezza, gli basterebbe un attimo per varcarne la soglia. Ed invece tutti costoro, padri e figli, fratelli e sorelle, mogli e mariti, maestri ed allievi, gente che si odia senza neppure conoscersi, si sono messi tutti insieme per incoraggiarsi l’un l’altro nel male e per dissuadersi vicendevolmente dal compiere questo unico passo anche a costo della vita.
Capitolo X
Di primo mattino sono andato a cercare mio fratello. Stava al di fuori della porta del cortile, intento a guardare il cielo. Mi sono allora avvicinato fino a giungere proprio alle sue spalle, tra lui e la porta, poi, con estrema compostezza ed estrema cortesia, gli ho detto: “Fratello, dovrei parlarti un
momento”.
“Dimmi pure” ha risposto, voltandosi rapidamente verso di me e facendomi un cenno con la testa.
“Ciò che ho da dirti sono soltanto poche parole, ma difficili da tirar fuori. Per cominciare...i selvaggi primitivi mangiavano tutti un po’ di carne umana. Più tardi, in seguito ad un’evoluzione nel loro modo di pensare, alcuni smisero di mangiare carne umana e vollero essere buoni. Allora si trasformarono in uomini, in veri esseri umani. Altri invece continuarono a mangiare carne umana e ne mangiano ancora proprio come gli animali.
Alcuni sono andati avanti e, passando per differenti stadi di sviluppo, prima pesci, poi uccelli, poi scimmie, alla fine sono diventati esseri umani, ma altri, al contrario, non hanno voluto progredire e sono ancor oggi come le bestie. Quando coloro che mangiano gli esseri umani si paragonano con quelli che non mangiano carne umana quanto non debbono vergognarsi. Temo che si vergognino più di quanto le bestie feroci si vergognano di fronte alle scimmie, perché la differenza è ancor più grande, terribilmente grande.
Una volta Yi Ya fece bollire il proprio figlio per darlo in pasto a Jie e a Zhou, ma questa è ancora una storia antica. In realtà si sa che gli uomini si son sempre divorati l’un l’altro da quando Pangu creò il cielo e la terra fino ai tempi del figlio di Yi Ya, e poi dai tempi del figlio di Yi Ya fino ai tempi molto recenti di Xu Xilin il rivoluzionario, ed infine dai tempi di Xu Xilin fino all’episodio di quell’uomo che hanno preso ed ucciso poco tempo fa nel villaggio di Langzi.
Appena l’anno scorso, in città, hanno decapitato un criminale ed un tisico ha bagnato un pezzo di pane nel sangue per mangiarlo.
Vogliono mangiarmi, e tu, da solo, non puoi certo impedirglielo, ma perché devi diventare loro complice? Sono cannibali! Sono capaci di tutto! Dopo aver mangiato me, mangeranno anche te. Non c’è nulla che li trattenga dal mangiarsi anche tra di loro.
Ma basta che tu sia disposto a fare un solo passo, è sufficiente che tu cambi subito il tuo modo d’agire, e potremo vivere tutti in pace e serenità.
È vero che il mondo va così da sempre, ma oggi è ancora possibile, a noi personalmente, di volere il bene e di dichiarare apertamente che queste cose non devono succedere.
Fratello, io sono sicuro che tu avrai il coraggio di dirlo. L’altro giorno, quando il fittavolo voleva che gli riducessi l’affitto, hai ben saputo dirgli che non si poteva fare.”
All’inizio si è limitato a sogghignare, ma subito dopo il suo sguardo si è fatto cattivo e, quando ho cominciato a parlare delle loro tendenze nascoste,è diventato tutto pallido.
Intanto, dinanzi al portone, s’era raccolto un guppetto di persone, tra cui Padron Zhao con il suo cane, che allungavano il collo per cercare di vedere che cosa stava succedendo.
Di alcuni non riuscivo a scorgere bene le facce, sembravano essersele coperte con maschere di tessuto. Altri, pallidi e con i denti affilati, continuavano a sorridere.
Sapevo che erano tutti d’accordo, che erano tutti mangiatori di carne umana.
Ma sapevo anche che non la pensavano tutti allo stesso modo, ben al contrario.
Alcuni di loro ritenevano di dover mangiare carne umana perché era sempre stato così, mentre altri sapevano bene che non si doveva mangiare carne umana,e ciononostante volevano ancora mangiarne, pur avendo paura che il loro segreto venisse divulgato.
Perciò, quando hanno sentito il mio discorso, si sono irritati ancora di più, anche se hanno mantenuto sulle labbra quel loro sorriso ipocrita.
A questo punto mio fratello si è improvvisamente infuriato e si è messo a gridare: “Andate via tutti! Che soddisfazione vi dà guardare un pazzo?”.
Allora ho capito un po' della loro astuzia. Non volevano proprio cambiare ed i loro piani erano pronti da lungo tempo.
Hanno deciso di dire in giro che sono matto.
Così, quando mi mangeranno, non solo non ci saranno problemi, ma temo addirittura che ci sarà gente che li approverà.
Quando il nostro fittavolo ci ha raccontato che i suoi compaesani avevano mangiato quel cattivo soggetto, la cosa è stata presentata proprio negli stessi termini. È questo il loro vecchio trucco.
Il vecchio Chen si è precipitato con rabbia verso di me. Come se avessero potuto chiudermi la bocca! Io volevo assolutamente parlare a quella gente:
“Voi potete cambiare. Cominciate a cambiare nel profondo dei vostri cuori. Deve esservi chiaro che in futuro non ci sarà più posto per i cannibali sulla faccia della terra. Se persistete a non voler cambiare, finirete col mangiarvi tra di voi. E sarete sterminati dagli autentici esseri umani, proprio come lupi braccati dai cacciatori, proprio come bestie feroci”.
Il vecchio Chen ha cacciato via tutta quella piccola folla che s’era raccolta a guardarmi.
Nel frattempo anche mio fratello era sparito, chissa dove.
Il vecchio Chen mi ha consigliato di rientrare nella mia stanza.
Nella stanza era tutto buio, ero immerso nell’oscurità.
Travi ed assi del soffitto sembravano muoversi. Dopo aver oscillato per un bel momento, sono diventate grandi grandi e si sono accumulate sopra di me.
Pesavano enormemente. Non riuscivo più a muovermi.
Mi sono reso conto che la loro idea era di farmi morire schiacciato o soffocato.
Ma io avevo capito che questo enorme peso era soltanto un trucco, un’illusione, così ho lottato con tutte le mie forze per liberarmene.
Alla fine ero tutto madido di sudore.
Ma ho tenuto a ripeterglierlo: “ Cambiate! Cambiate sinceramente! Sapete bene che nel mondo del futuro non ci sarà posto per i cannibali...”.
Capitolo XI
Non vedo più splendere il sole. Sono stato rinchiuso nella mia camera. Unica distrazione i due pasti che mi portano ogni giorno.
Prendo in mano le bacchette e penso a mio fratello. Ho capito che, quando la nostra sorellina è morta, è stato per colpa sua. A quell’epoca la mia sorellina aveva solo cinque anni. L’ho ancora davanti agli occhi: era così graziosa, così tenera. La mamma piangeva a dirotto, ma lui le diceva di non piangere, probabilmente perché l’aveva mangiata lui stesso e quel pianto continuava a ricordarglielo. Come se avesse ancora potuto non pensarci più....
La mia sorellina era stata mangiata da mio fratello, ma se la mamma lo sapesse o no, neppure io sono in grado di dirlo.
Sono propenso a credere che lo sapesse, ma, quando piangeva, non lo diceva chiaramente, forse perché pensava anche lei che si dovessero accettare queste cose.
Ricordo che, quando avevo quattro o cinque anni, una volta che ero seduto al fresco dell’anticamera, mio fratello disse che, se il padre o la madre soffrivano la fame, i figli dovevano tagliarsi via un pezzo di carne e farlo bollire perché i genitori potessero nutrirsene, se volevano essere considerati figli devoti, e che, quella volta, neppure la mamma disse che non andava bene. Ma, se è lecito mangiare un pezzo di carne umana, allora naturalmente si possono mangiare anche uomini interi.
Eppure, quando mi viene da pensare al pianto di quei giorni, il mio cuore ne soffre ancora.
È questa la cosa che trovo più stupefacente.
Capitolo XII
Non posso pensarci.
Questo è un posto dove per quattro millenni hanno mangiato carne umana, e continuano chiaramente a mangiarne anche oggi, ed io ci sono vissuto tanti anni.
Mio fratello ha cominciato ad occuparsi della gestione della casa proprio all’epoca in cui morì la mia sorellina e non è affatto escluso che, a tavola, ci sia stata servita la sua carne senza che noi lo sapessimo.
Forse, senza saperlo, non avrò mangiato anch’io qualche boccone di carne della mia sorellina?
Ed ora è già arrivato anche il mio turno.
Mi rendo conto ora che sarà difficile per un uomo come me, su cui pesano quattromila anni di cannibalismo – anche se all’inizio non ne sapevo niente – guardare in faccia i veri esseri umani.
Capitolo XIII
Forse esistono dei bambini che non hanno ancora mangiato carne umana.
Salvateli! Salvate i bambini...
Aprile 1918
(Traduzione di Giovanni Gallo)
12 giugno 2012
ZHAO MENG FU
(1254 d.C.-1322 d.C.)
Il testo che segue è conosciuto ed apprezzato come uno dei migliori esempi di arte calligrafica.
La traduzione non può evidentemente rendere alcuna idea di questo aspetto, che gli appassionati di calligrafia potranno valutare solo osservando una delle copie manoscritte che hanno tramandato sino a noi attraverso i secoli, con la maggior precisione possibile, i caratteri dell’iscrizione composta da Zhao Meng Fu 趙 夢 頫 nel 1320 d.C. per il restauro di un tempio dedicato a Guan Yin.
Storia del Tempio di Guan Yin
Per lunghi anni il tempio era stato esposto alle intemperie: dalle fessure vi penetrava il vento, dal tetto vi colava giù la pioggia. C’era il rischio che crollasse. Numerosi abati si erano succeduti senza che alcuno di essi se ne preoccupasse.
Shanshi Zuhui, divenuto priore, si diede da fare per raddrizzare la situazione.Egli si rivolse personalmente ai pellegrini per chieder loro denaro e doni in natura. Si mise all’opera con energia, senza risparmiare sforzi, rinunciando persino al suo mantello ed alla ciotola delle elemosine per finanziare il progetto di restauro. Il governatore regionale ed il comandante del distretto militare diedero il loro appoggio all’iniziativa.
Il vecchio edificio fu demolito e ne fu eretto uno nuovo. La nuova costruzione era imponente, sostenuta da numerose travi portanti, con pilastri vermigli e capitelli riccamente ornati.Era una vera meraviglia. Guardando in alto si aveval’impressione di scorgere candidi fiorellini che sporgevano sul bordo di un precipizio d’oro vermiglio. Il giorno del completamento dei lavori nuvole fragranti si innalzarono nel cielo.Uomini e donne accorsero a far festa, a pregare e ad ammirare la splendida realizzazione. Non s’era davvero mai visto nulla di simile.
Quando il venerabile maestro mi pregò di redigere un’iscrizione commemorativa, gli domandai che cosa significasse il nome “Guan Yin”(1). Mi rispose che Guan Yin significa “chi vede (觀 “guan”) le cose di questo mondo senza guardare e ne sente le voci (音 “yin”)senza ascoltare.” Ecco perché i sutra dicono che Guan Yin sente le voci di questo mondo, ma non soggiace ai vincoli della materia. Non sente queste voci con i sensi, ma le percepisce con la mente. L’essenza del buddhismo è pura spiritualità, la luce delle menti che si illuminano vicendevolmente.Si dice che proprio nel realizzarsi al di fuori delle voci del mondo sono nascoste la virtù e la benedizione. Questa è la visione del mondo che dovremmo avere.
Il maestro era già largamente noto come un santo monaco e la sua saggezza era da tutti riconosciuta, quando venne ad insegnare qui dove dominava la montagna. Egli fece erigere muri di sostegno ed ampliare i i sentieri, lungo i quali fece piantare filari di begli alberi. Le statue che ornano il tempio sono una gioia per gli occhi. Tante cose che erano cadute in rovina sono state restaurate. È stata veramente un’impresa straordinaria, rara ed importante come scrivere un grande libro di dottrina.
Io sono originario di un lontano villaggio nella regione di Wu ed iniziai qui la mia carriera di funzionario all’epoca della dinastia Song. È da allora che mi sono accostato all’insegnamento del Buddha e che Guan Yin ha cominciato ad esercitare una profonda influenza su di me.Ritornai in questi luoghi quindici anni più tardi e sono ormai trenta che li conosco.È come se il destino di una mia precedente incarnazione mi avesse legato alla Porta Universale di Guan Yin.(2) Perciò, sebbene io non sia un buddhista praticante, come avrei potuto rifiutarmi di comporre questa iscrizione?
Scritto nel settimo anno dell’era Yanyou (3) da Zhao Meng Fu (4), membro dell’accademia Hanlin, redattore dei decreti imperiali e storico ufficiale.
(1) Si è a lungo ritenuto che , designando il Boddhisattva della Compassione con il termine Guan Shi Yin 觀 世 音 (“chi ascolta le voci del mondo”), i primi traduttori cinesi del Sutra del Loto avessero frainteso il significato del nome Avalokiteshvara(“il signore che ascolta”). La traduzione corretta sarebbe quindi stata quella successiva di Xuanzang玄藏 (602 d.C.-664 d.C.), che avrebbe reso esattamente Avalokiteshvara (“avalokita”, participio del verbo “avalok” (“ava”= “in basso” e “lok”= guardare” )= “che guarda verso il basso”, “che si china verso il mondo”, “che ascolta compassionevolmente” + “ishvara”=“signore”, con il dittongo “ai” che, per le leggi della fonetica sanscrita, si pronuncia “e”, dando così “Avalokiteshvara”) con Guan Ji Zai 觀 自 在 (“il signore che ascolta”).
Recenti studi hanno tuttavia messo in evidenza come la grafia “Avalokiteshvara” si sia generalmente affermata solo nel VII°secolo d.C. per influenza del shivaismo,che contaminò alcune correnti buddiste con la sua idea
di un Signore supremo (“Parameshvara”), mentre in precedenza era largamente in uso la grafia “Avalokitasvara” che poteva ragionevolmente essere interpretata come “chi ascolta le voci”(“avalokita”= “che ascolta ”+ “svara”=“voce”) o addirittura esser fatta derivare da “avalokitaahrsvara”, cioè “chi ascolta i lamenti” (“avalokita”= “che ascolta”+“ahrsvara”=”voce di lamento”).Trattandosi del -Bodhisattva della Compassione era implicito che egli tendesse l’orecchio ai lamenti del mondo, come fu ben intuito da Kumarajiva (in cinese 鳩 摩 羅 什 Jiumoluoshi) , il quale, nel 406 d.C., traducendo Avalokitasvara con Guan Shi Yin 觀 世 音,ritenne di dover porre in rilievo il
doppio significato del termine “lok”:“guardare” come verbo e “mondo” come sostantivo.
Guan Shi Yin , il Bodhisattva della Compassione, ci è così presentato nel capitolo 25 della versione cinese del Sutra del Loto ( 妙 法 蓮 華 經, “miao fa lian hua jing”) realizzata da Kumarajiva:
“ In quel momento il Bodhisattva Inesauribile Determinazione si alzò, si scoprì la spalla destra, congiunse le mani e, rivolgendosi al Buddha gli domandò: “O tu che sei il più venerabile al mondo, dimmi perché il Bodhisattva Guan Shi Yin è così chiamato”.
Il Buddha gli rispose: “Devoto amico, se uno degli infiniti milioni di esseri viventi che soffrono ogni sorta di tormenti sentirà parlare di Guan Shi Yin e si rivolgerà a lui con tutto il suo cuore, Guan Shi Yin lo ascolterà e lo libererà dalle sue sofferenze”.
Le traduzioni corrette sarebbero dunque quelle di Kumarajiva e degli altri traduttori che precedettero Xuanzang, ma poichè esse sono anteriori ai più remoti esemplari del Sutra del Loto che ci siano giunti in una lingua indiana, non v’è alcun modo di poter provare questa tesi con assoluta certezza.
Va ancora notato che nel VII° secolo d.C., a causa del tabù legato all’utilizzazione del carattere “shi” 世, che faceva parte del nome personale dell’imperatore Tang Taizong 唐 太 宗 (626-649 d.C) , Li Shimin 李 世 民,la grafia Guan Shi Yin 觀 世 音 fu abbandonata a favore della grafia Guan Yin 觀 音,che è quella usata ancor oggi. L’imperatore Taizong aveva cercato di alleggerire il tabù, decretando che fosse vietato soltanto l’uso dei due caratteri shi 世 e min 民 in successione, ma suo figlio l’imperatore Tang Gaozong 唐 高 宗(649-683 d.C.) ripristinò il divieto anche per l’impiego separato di ciascuno dei due caratteri.
Si può infine osservare, a titolo di curiosità, che, col passare dei secoli, il Bodhisattva della Compassione assunse nell’iconografia cinese e giapponese caratteri sempre più marcatamente femminili. Questa evoluzione, prodotta in Cina dalla pietà popolare e favorita dall’accostamento con la divinità tradizionale Xiwangmu ( 西 王 母﹐”La regina madre dell’Occidente” ), trova comunque un punto di partenza nello stesso Sutra del Loto, che, fra le trentatre possibili incarnazioni di Avalokiteshvara, ne menziona anche sette dinatura femminile.
(2) La Porta Universale di Guan Yin ( nella versione originale:觀 世 音 菩 薩 普 們 “Guanshiyin pusa pumen”) è il titolo del venticinquesimo capitolo del Sutra del Loto, che è interamente dedicato al Bodhisattva della Compassione. Con il termine “porta universale” si intende indicare la capacità del Bodhisattva di comprendere ogni tipo di situazione e di alleviare ogni forma di sofferenza, intervenendo in qualsiasi posto ed in qualsiasi momento sotto la più diversa varietà di aspetti. Guanyin è pertanto la porta attraverso cui passa chiunque intenda procedere sul sentiero della compassione.
(3) Il settimo anno dell’era Yanyou (延 祐) corrisponde al 1320, ultimo anno di regno dell’imperatore Renzong 仁 宗 della dinastia Yuan 元 朝.
(4) Zhao Meng Fu 趙 夢 頫 ( 1254d.C.- 1322 d.C) è un letterato cinese, famoso soprattutto come pittore e come calligrafo. Discendente dei Song 宋 , fu criticato per aver accettato di servire la dinastia Yuan 元 朝, sotto la quale ricoprì diverse cariche, divenendo fra l’altro membro dell’Accademia Hanlin.
Nel campo della pittura, si scostò dalla tecnica raffinata del suo secolo per ritornare alle forme più semplici e genuine dell’epoca Tang, come mostra l’apparente rozzezza di una delle sue opere più famose “ Colori d’autunno
sui monti Qiao e Hua”. I suoi quadri di cavalli si ispirano allo stile di Han Gan 韓 干.
Conseguì grande fama anche nella calligrafia, per la quale si ispirò a due famosi maestri attivi ai tempi della dinastia Jin 晉 朝 : Wang Xizhi 王 羲 之 e Wang Xianzhi 王 獻 之 . Ciò spiega perchè gli fu richiesto di comporre l’epigrafe commemorativa dell’inaugurazione del tempio di Guan Yin.
(Traduzione di Giovanni Gallo)
13 giugno 2012)
UN ANTICO ESEMPIO DI "LANGUE DE BOIS"
Lo storico Sīmā Qiān 司 馬 遷 ci presenta, nel paragrafo 57 del capitolo del Shĭ Jì 史 記 dedicato a Qín Shĭ Huáng Dì ed ai suoi immediati successori ( 秦 始 皇 帝 本 紀 Qín Shĭ Huáng Dì Bĕn Jì), uno dei più antichi esempi di “langue de bois”, vale a dire di deliberata negazione della realtà, esercizio praticato con entusiasmo dai politici di tutti i tempi e di tutti i paesi.
La data è il 27 settembre del 207 a.C., nel terzo ed ultimo anno di regno dell’imperatore Èrshì, figlio di Qín Shĭ Huáng Dì.
Cervo o cavallo?
Il terzo anno di regno dell’imperatore Èrshì, l’ottavo mese , il giorno detto “jĭhài”, Zhào Gāo ideò uno stratagemma per verificare se la massa dei cortigiani, di cui non si fidava, fosse disposta a seguirlo nei suoi intrighi.
Prese un cervo e lo presentò all’imperatore dicendo:“Maestà, ecco un cavallo”.
L’imperatore si mise a ridere e gli domandò: “Hai le traveggole, primo ministro? Chiami cavallo un cervo!”.
Poi chiese ai cortigiani presenti che cosa pensassero dell’affermazione di Zhào Gāo: parecchi rimasero prudentemente in silenzio, altri per servilismo verso il primo ministro affermarono che l’animale era un cavallo, ma alcuni gli risposero che era proprio un cervo.
Gāo prese nota di questi ultimi e li fece poi eliminare di nascosto.
Dopo di ciò, tutti i cortigiani lo temettero.
三 年。。。八 月 己 亥﹐趙 高 欲 為 亂﹐恐 群 臣 不 聽﹐乃 先 設 驗 ﹐持 鹿 獻 於 二世﹐ 曰﹕ “馬 也”。
二 世 笑 曰 ﹕“丞 相 誤 邪 ﹖謂 鹿 為 馬”。 問 左 右﹐ 左 右 或 默 ﹐或 言 馬 以 阿 順 趙 高。 或 言 鹿 (者)﹐高 因 陰 中 諸 言 鹿 者 以 法。 後 群 臣 皆 畏 高。
(Traduzione di Giovanni Gallo)
14 giugno 2012
TÀO YUĀN MÍNG
(365 d.C.- 427 d.C.)
Di Tào Yuān Míng 陶 淵 明 è celebre l’orgogliosa frase con cui si dimise dalle sue funzioni per non dover accogliere con tutti gli onori a Pengze, il villaggio da lui amministrato, un alto funzionario disonesto e corrotto: “Non sarà un sacco di riso a farmi piegare la schiena di fronte a persone spregevoli”.
Tào Yuan Míng non si pentì mai di quella decisione ( anche se essa lo privò del modesto stipendio statale garantito dal “posto fisso”) ed accettò con animo sereno le difficoltà di un’ esistenza marcata da fatiche e stenti.
In questo suo breve racconto intitolato “Táo huā yuán jì” 桃 花 原 記 (“La storia della sorgente dei fiori di pesco”) Tào Yuān Míng immagina l’esistenza di un paese felice, al di fuori del tempo e dello spazio.La stessa storia fu poi ripresa da Wáng Wéi 王 維 nella sua poesia intitolata “Táo yuán xíng” 桃 原 行 ( “Il canto della sorgente dei peschi”, v.pagina “Poesie Cinesi”)
La Storia della Sorgente dei Fiori di Pesco
All’epoca in cui regnò la dinastia Jìn (1), e precisamente durante l’era Tàiyuán (2), c’era un pescatore di Wŭlíng (3) che, un giorno, risalendo con la sua barchetta il corso di un torrente, si allontanò, senza rendersene conto, dai posti conosciuti. Improvvisamente, si ritrovò in mezzo ad un boschetto di peschi fioriti. Sulle due rive, per molte centinaia di passi, c’erano soltanto alberi di pesco, dai cui rami cadevano, in un turbinio incessante, splendidi petali profumati.
Il pescatore fu molto sorpreso da questa visione, ma andò avanti, perché voleva vedere fin dove giungesse quel boschetto.
Il pescheto finiva proprio accanto alla sorgente del corso d’acqua, dietro la quale si ergeva una montagna. Nella parete rocciosa si scorgeva una fenditura dalla quale sembrava filtrare un po’di luce. Il pescatore lasciò la barchetta e penetrò nella fessura della roccia che, all’inizio, era così stretta da lasciar passare una sola persona. Dopo qualche decina di passi però la galleria sbucava improvvisamente all’aperto in un’ampia pianura, tutta circondata dalle montagne, ed apparivano d’un tratto alla vista numerose e magnifiche case. C’erano bei campi, deliziosi laghetti, filari di gelsi, boschetti di bambù, ed altre cose dello stesso genere. Sui sentieri che si intersecavano tra i campi si sentivano abbaiare i cani, chiocciare le galline. Uomini e donne indossavano abiti di foggia mai vista, come gli stranieri. Vecchi e giovani avevano un aspetto lieto e sereno.
Coloro che scorsero per primi il pescatore ne furono grandemente sorpresi e gli chiesero da dove venisse. Il pescatore glielo spiegò. Allora lo invitarono a casa loro, gli offrirono un bicchiere di vino, tirarono il collo ad una gallina e prepararono da mangiare. Nel villaggio si sparse la voce che era arrivato un forestiero e tutti vennero a fargli domande.
Raccontarono poi che, per sfuggire ai disordini che si erano verificati ai tempi della dinastia Qín (4), i loro antenati avevano preso con sé mogli, figli e compaesani e si erano rifugiati in quell’angolo nascosto, da cui non erano più usciti. Così erano vissuti separati dal mondo esterno.
Gli domandarono come andassero le cose ora. Non sapevano che fosse esistita la dinastia Hàn (5), per non parlare dei Wèi (6) e dei Jìn.
Il pescatore spiegò loro minuziosamente ciò che era accaduto nei secoli precedenti e tutti lo ascoltarono pieni di stupore, sospirando.
Tutti gli altri abitanti del villaggio lo invitarono poi nelle loro case, offrendogli da mangiare e da bere.
Dopo essersi trattenuto alcuni giorni nel paese, il pescatore prese congedo. Al momento di salutarlo, gli abitanti del villaggio lo pregarono di non riferire alla gente di fuori della loro esistenza.
Il pescatore uscì, risalì sulla sua barchetta e, rifacendo il percorso all’inverso, lasciò dappertutto dei segni di riferimento per potere in seguito ritrovare la strada.
Appena arrivato in città, si presentò al prefetto e gli riferì ciò che aveva scoperto. Il prefetto mandò subito degli uomini ad accompagnarlo nella ricerca dei segni che egli aveva lasciato sul percorso, ma la spedizione si smarrì e non riuscì più a ritrovare la strada che conduceva al villaggio nascosto.
Liú Zĭjì (7) di Nányáng (8) era un uomo di valore. Quando sentì raccontare questa storia si rallegrò e progettò di andare in cerca del villaggio, ma non poté farlo perché si ammalò e morì.
Dopo di lui, nessuno s’è più curato di cercare il paese della felicità.
NOTE
(1) La dinastia Jìn governò la Cina dal 265 d.C. al 420 d.C.
(2) L’era Tàiyuán comprende gli anni che vanno dal 376 d.C. al 396 d.C., sotto l’imperatore Xiàowŭ dei Jìn Orientali.
(3) L’antica Wŭlíng è oggi la città di Chángdé, nella provincia di Húnán.
(4) I” disordini verificatisi all’epoca dei Qín”sono verosimilmente le rivolte e le guerre che fecero seguito alla morte di Qín Shĭ Huáng Dì (210 a.C.) e che portarono infine all’instaurazione della dinastia Hàn (206 a.C.). Si potrebbe però anche pensare che gli abitanti del villaggio si riferiscano alle campagne di conquista del Primo Imperatore, Qín Shĭ Huáng Dì, che indussero molte popolazioni a fuggire dalla Cina ed a cercare scampo in territori ancora deserti.
(5) La dinastia Hàn durò dal 206 a.C.al 220 d.C.
(6) La dinastia Wèi, nota anche come Cáo Wèi, per distinguerla dalla successiva dinastia dei Wèi del Nord, durò dal 220 d.C. al 265 d.C.
(7) Liú Zĭjì è menzionato solo in questo scritto di Tào Yuān Míng. Alcuni commentatori affermano, sulla base di non si sa quale fonte, che era un eremita.
(8) Nányáng, conosciuta nei tempi più antichi come Wănchéng, è una città del Hénán.
(Traduzione di Giovanni Gallo)
15 giugno 2012
L’ideale di una vita semplice e naturale, cui si ispira “La storia della sorgente dei fiori di pesco” 桃 花 原 記 ( táo huā yuán jì ) di Tào Yuānmíng 陶 淵 明 , è enunciato in numerosi capitoli del testo sacro del taoismo con una serie di affermazioni che travalicano ampiamente i limiti di ciò che oggi è considerato “politicamente corretto”. Il capitolo LXXX del Dào Dé Jīng 道 德 經 , qui sotto riportato, può ad esempio facilmente essere visto come l’elogio di una società chiusa ed immobile che rifiuta qualsiasi sviluppo, politico, sociale, intellettuale, economico o tecnico che sia. È però opportuno ricordare che i miti del "paradiso terrestre", dell'"età dell'oro" e del "buon selvaggio" sono sempre stati un elemento fondamentale anche della coscienza religiosa, filosofica e letteraria della nostra civiltà.
Se governassi un piccolo regno con pochi abitanti,
farei in modo che la gente non usasse strumenti capaci di moltiplicare il lavoro dell’uomo,
farei in modo che i cittadini tenessero alla propria vita e non emigrassero in terre lontane.
Se ci fossero imbarcazioni e veicoli, farei in modo che nessuno li utilizzasse.
Se ci fossero armi ed armature, farei in modo che nessuno se ne equipaggiasse.
Farei in modo che il popolo tornasse a contare annodando le corde.
Farei in modo che trovasse piacevole il cibo che mangia ed eleganti le vesti che indossa, confortevoli le case che abita e dignitosi gli usi ed i costumi ereditati dalla tradizione.
Anche se i villaggi degli Stati confinanti fossero così vicini ai nostri villaggi da permetterci di sentire le galline che chiocciano ed i cani che abbaiano i miei sudditi dovrebbero invecchiare e morire senza mai averli visitati.
小 國 寡 什
使 有 什 伯 之 器 而 不 用
使 民 重 死 而 不 遠 徙
雖 有 舟 輿 無 所 乘 之
雖 有 甲 兵 無 所 陳 之
使 民 復 結 繩 而 用 之
甘 其 食
美 其 服
安 其 居
樂 其 俗
鄰 國 相 望
雞 犬 之 聲 相 聞
民 至 老 死
不 相 往 來
(Traduzione di Giovanni Gallo)
29 giugno 2012
UN BRANO DEL PRIMO LIBRO INTERAMENTE DEDICATO AL TÈ
LÙ YŬ 陸 羽
(733 d.C. – 804 d. C)
IL LIBRO DEL TÈ 茶 經 CHÁJĪNG
Capitolo 1
L’origine del tè
La pianta del tè è un grazioso arbusto delle regioni meridionali, che da un piede o due d’altezza può giungere sino a parecchie decine di piedi. Quanto alla larghezza del fusto, c’è una pianta nella zona delle valli e delle
gole di Bāshān 巴 山di cui ci vogliono due uomini per abbracciare il tronco. Per raccoglierne le foglie, occorre tagliarne i rami.
La pianta del tè ha l’aspetto di una pianta di zucca, ma le sue foglie sono come quelle della gardenia, i suoi fiori come quelli delle rosacee, i suoi semi come quelli di una palma, il suo fusto come quello dell’albero
dell’incenso e la sua radice come quella di un noce.
Il carattere usato per scrivere la parola “tè” ( 茶“chá”)si può ritenerederivato vuoi dal radicale ++ (“căo, erba) vuoi dal radicale 木 (“mù``”, albero), o meglio ancora dalla combinazione dei due.Tuttavia, per indicare la pianta del tè, sono usati anche altri termini: 檟 “jiă”,蔎” shè”, 茗 “míng” e 荈 "chuăn”.
Il suolo migliore per la coltivazione del tè è quello costituito dalle rocce che il tempo ha eroso fino a farne sabbia. La pianta cresce abbastanza bene anche sulla ghiaia, mentre il meno adatto al suo sviluppo si rivela il terreno argilloso.
È raro che l’arbusto del tè cresca bene,se non è coltivato da mani esperte. Il seme va piantato come quello di una zucca. Dopo tre anni si può procedere al primo raccolto.
Il tè proveniente da terreni incolti è migliore di quello che proviene dai giardini.
Il tè a foglie violette che cresce all’ombra di un bosco su un pendio esposto al sole è migliore del tè a foglie verdi.( 1 )
Le foglioline più piccole, simili a germogli di bambù, sono migliori delle foglie più sviluppate.
Le foglie accartocciate sono migliori di quelle lisce.
Il tè che cresce sui pendii orientati a mezzanotte non merita di essere raccolto. Esso tende a ristagnare nello stomaco e ad ostruire l’intestino.
Quando viene assunto a fini terapeutici, il tè appartiene alla categoria delle “medicine fredde”. (2)
Come bevanda, esso va molto bene per le persone attente, capaci, frugali e virtose.
In presenza di febbre, sete, senso di oppressione al petto, mal di testa, occhi secchi, pesantezza delle braccia e delle gambe e rigidezza delle articolazioni, bastano cinque o sei sorsi di tè per produrre un effetto tonificante (3) come quello della dolce rugiada caduta dal cielo. (4)
Qualora il tè sia stato raccolto fuori stagione o non sia stato trattato correttamente o, ancora, sia stato mescolato con altre erbe, il suo consumo può provocare indisposizioni ed indigestioni.
Ciò che vale per il tè vale anche per il ginseng, la cui qualità dipende dalle zone di provenienza.
Il miglior ginseng si trova nello Shàngdăng.(5) Quello prodotto a Băijì(6) ed a Xīn Luó(7) è di qualità media, mentre quello di Gāo Lì (8) è il meno pregiato.
Il ginseng che cresce nelle regioni di Zezhōu , Yizhōu, Youzhōu e Tanzhōu (9) non ha proprietà medicinali, anzi è sconsigliabile consumarlo.
Se ci si cura con la radice della campanula (10), non si guarisce dalle malattie.(11)
Chi sa come agisce il ginseng è già in grado di capire come agisce il tè.
NOTE
(1) Le foglie violette che talora si riscontrano su alcune piante di tè sono dovute alla presenza di antocianina. In questo caso, i Cinesi chiamano la pianta ed il suo prodotto 紫 茶 “zĭ chá”, vale a dire“tè purpureo”.
(2) La medicina tradizionale cinese si fonda anch’essa sull’idea dell’interazione tra 陰 “yīn” e 陽 “ yáng” ed identifica la salute con l’equilibrio tra il caldo (elemento “yáng”) ed il freddo (“elemento “yīn”). La malattia , più o meno grave, risulta quindi da uno squilibrio, più o meno forte, tra questi due elementi , che deve essere eliminato con la somministrazione di una medicina che apporti al corpo la necessaria dose dell’elemento deficitario.
Una“malattia calda” ( 熱 病 "rèbìng”), caratterizzata da sintomi quali la febbre e la sete, va perciò curata con un’”erba medicinale fredda” ( 寒 葯 ”hányào”). Una delle erbe che possono essere usate in tal caso è
il tè, che è di “natura fredda” Le “quattro nature”o “quattro energie”( 四 氣 “sìqì”) sono le seguenti: 寒 (”hán”,
“freddo”) , 涼 (“liáng”, “fresco”), 溫 (“wēn”, “tiepido”) e 熱 (“rè”,”caldo”).
(3 ) Ho reso qui con l’espressione“effetto tonificante” il termine 醍 醐 “tíhú”, che, nel lessico della dottrina
buddhista,ha perso il significato originario di “unguento profumato” ed è passato a designare il “nirvana”, cioè lo stato di beatitudine in cui si trova chi è pervenuto alla verità. Nel contesto del 茶 經 “chá jīng” esso è usato per indicare che qualche sorso di tè può far passare chi lo beve da uno stato di malattia ad uno stato di benessere.
(4) Il termine “dolce rugiada” (甘 露 “gānlù”) figura già nel Dào Dé Jīng 道 德 經, il testo sacro del Taoismo, compilato intorno al V° secolo a.C., e precisamente nel Capitolo 32, di cui riporto qui la traduzione:
“La Via è eterna, ma non ha nome.
È semplice, è la più piccola delle cose,
ma nessuno è capace di soggiogarla.
Quando principi e re sapevano conformarsi ad essa
tutto il creato rendeva loro uno spontaneo omaggio,
cielo e terra, insieme, stillavano una dolce rugiada,
gli uomini vivevano in armonia, di libero accordo.
Non appena s’è persa la semplicità originaria,
le cose hanno cominciato a ricevere un nome,
ma quando cominciano ad essere dati i nomi
si deve anche capire che è tempo di fermarsi.
Chi sa evitare gli eccessi non sarà mai in pericolo.
Tutto confluisce nella Via
proprio come ruscelli e torrenti
si riversano nei fiumi e nel mare.”
Nella mitologia cinese era indicato con l’espressione “dolce rugiada” il “fluido vivificante” o “acqua sacra” che, all’origine del mondo, la Divinità avrebbe versato sulla Terra per conferire vita al Creato.
5) Lo Shàngdăng 上 黨 era un’area montagnosa corrispondente più o meno al territorio dell’attuale prefettura di Chángzhì 长 治 nella provincia dello Shānxī 山 西 (Cina Settentrionale).
6) Il Baekje o Paekche (in cinese 百 濟 Băijì ) era un regno situato sulla costa sud-occidentale della Corea. Fondato nel 18 a.C., sopravvisse come Stato indipendente, fino al 660 d.C. quando fu sconfitto e conquistato dal Regno di Silla.
7) Il Regno di Silla, ( in cinese 新 羅 Xīnluó ), fondato nel 57 a.C., comprendeva la metà sud-orientale dell’attuale Corea. Esso durò quasi un millennio. Si frammentò nell’892 d.C. in tre Stati ( Silla, Hubaekje e Hugoguryeo), poi riuniti nel 936 d.C. da Wang Geon (877 d.C.-943 d.C.), il primo sovrano della dinastia Goryeo ( 918 d.C.- 1392 d.C.), dalla quale le lingue occidentali hanno fatto derivare il termine“Corea”.
8) Il Regno del Goguryeo ( in cinese 高 句 麗 Gāojùlì ) comprendeva la parte centro-settentrionale dell’attuale Corea, nonché ampi territori situati più a nord che oggi appartengono alla Cina ed alla Russia. Fondato nel 37 a.C., fu sconfitto nel 668 d.C. dal Regno di Silla, alleatosi con i Táng 唐 朝.Gran parte del suo territorio fu
diviso tra il Regno di Silla e l’Impero Cinese, mentre , nella regione della Manciuria, sorse un nuovo regno chiamato Balhae.
9) Tutte le località citate si trovano nella Cina Settentrionale. Zézhōu 澤 州è situata presso la città di Jīnchéng晉
成 nello Shānxī 山 西. Yìzhōu 易 州 si trova nella regione del Liáoníng 遼 寧 a sud-ovest di Pechino. Yŏuzhōu
幽 州 è situata al nord del Hébĕi 河 北 presso il confine con il Liáoníng 遼 寧. Tánzhou 檀 州 corrisponde all’attuale contea di Mìyún 密 雲, che costituisce parte della periferia nord-orientale di Pechino.
10) Ho tradotto con “campanula” il termine 薺 尼 “jìní, che designa la “Adenophora Trachelioides Maxim.”, una pianta della famiglia delle Campanulacee (sottofamiglia: Campanuloidi, genere: Adenophora) diffusa in Cina, la cui
radice veniva anticamente usata a fini terapeutici come quella del ginseng.
11) Il testo originale cinese usa il termine 六 疾 (“liù jí”, “sei malattie”) che mi sembra richiamare il termine 六
淫 (“liù yín”, “i sei eccessi”), con cui si indicavano sei fattori climatici alla cui influenza si ricollegavano i
diversi tipi di malattie: 風( “fēng”,”vento”), 寒 (“hán”,”freddo”), 火 (“hŭo”,”caldo”), 濕 (“shī”,”umidità”), 燥
(“zào”,”secchezza”) e 署 (“shŭ”,”calura estiva”).
Ed ecco infine il testo originale:
茶經
陸羽撰
一之源
茶者,南方之嘉木也,一尺二尺,乃至數十尺。其巴山峽川有兩人合抱者伐而掇之,其樹如瓜蘆,葉如
梔子,花如白薔薇,實如栟櫚,葉如丁香,根如胡桃。其字或從草,或從木,或草木並。其名一曰茶,
二曰檟,三曰<艸設>,四曰茗,五曰荈。其地:上者生爛石,中者生櫟壤,下者生黃土。凡藝而不實,
植而罕茂,法如種瓜,三歲可采。野者上,園者次;陽 崖陰林紫者上,綠者次;筍者上,牙者次;
葉卷上,葉舒次。陰山坡穀者 不堪采掇,性凝滯,結瘕疾。茶之用,味至寒,飲最宜精行儉德之人,
熱渴、凝悶、腦疼、目澀、四支煩、百節不舒,聊四五啜,與醍醐、甘露 抗衡也。采不時,造不精,
雜以卉,莽飲之成疾,茶累也。亦猶人參,上 者生上黨,中者生百濟、新羅,下者生高麗。有生澤州
、易州、幽州、檀 州者,藥無效,況非此者!設服薺<艸尼>,使六疾不瘳。知人參累,則茶 累盡矣
IL PADIGLIONE DELLE ORCHIDEE
La "Prefazione ai poemi del Padiglione delle Orchidee" (蘭 亭 集 序 "Lán tíng jí xù"), composta nel 353 d.C. da Wáng Xīzhī 王 羲 之 (303-361 d.C. o, secondo altre fonti, 303-379 d.C.), contiene alcune profonde e serene riflessioni sul carattere effimero della vita umana, ma non è famosa per questo motivo. La sua celebrità è invece dovuta al fatto che essa è considerata, per l'eleganza dei caratteri e la vigoria dei tratti, il capolavoro indiscusso della calligrafia cinese. Si può trovare sul seguente link:http://en.wikisource.org/wiki/ (Preface to the Poems Composed at the Orchid Pavilion) la riproduzione di una copia dell'epoca Táng di questo scritto, di cui l'originale è andato perduto, accompagnata dal testo in caratteri cinesi e in pīnyīn nonchè da una traduzione in inglese.
PREFAZIONE AI POEMI DEL PADIGLIONE DELLE ORCHIDEE
Il nono anno dell'era dell'Armonia Perpetua, corrispondente nel ciclo sessagesimale all'anno detto " Il fratello minore del bue", ci siamo riuniti, nei primi giorni dell'ultimo mese di primavera, qui a Shānyīn nel Guìjī,per celebrare, presso il Padiglione delle Orchidee, la festa della Purificazione Primaverile.
Siamo un folto gruppo di poeti e di letterati, giovani e vecchi, tutti insieme.
Questa zona è ricca di alte montagne e di picchi scoscesi. Vi abbondano le foreste ed i boschetti di bambù e vi si
incontrano limpidi corsi d'acqua e precipitosi torrenti.Il fiumicello che scorre qui vicino riflette i raggi del sole a destra ed a sinistra del Padiglione delle Orchidee, intorno al quale esso forma due ruscelletti.Ci siamo seduti sulle rive, uno accanto all'altro, e, sebbene non disponessimo né di strumenti a fiato né di strumenti a corda per fare un po' di musica,qualche bicchiere di vino e qualche canzone sono stati sufficienti per avviare un'animata conversazione e per stimolare alcune riflessioni. Splende il sole, il tempo è sereno e l'aria è limpida. Spira una brezza leggera e piacevole.Alzando gli occhi si può ammirare l'infinita distesa del cielo, abbassandoli si possono contemplare le innumerevoli bellezze della terra. Perciò basta lasciar errare lo sguardo e mettersi a sognare perchè la vista e l'udito raggiungano l'estasi. Credetemi, è un puro piacere!
La vita degli uomini in questo mondo è breve. Alcuni vivono in famiglia e condividono le proprie aspirazioni con i loro cari; altri preferiscono una vita libera ed errabonda. Le possibilità di scelta sono infinite e diverse: non è la stessa cosa condurre un'esistenza tranquilla ed ordinata od andare invece in cerca di emozioni e di avventure.Chi prova gioia nel vivere in un certo modo si sentirà per un po' di tempo soddisfatto e si compiacerà di sé stesso, ma dimentica che la vecchiaia coglierà anche lui. Non appena si sarà stancato di come vive o non avrà più le stesse passioni, sarà tormentato dai rimpianti. Dove se n'è andata tutta la gioia, in un solo attimo?
Noi già apparteniamo al passato e ciò non può che farci sospirare.La lunghezza della nostra vita dipende dal Destino, ma alla fine nessuno sfuggirà alla sorte comune. Hanno detto gli Antichi: "Nascita e morte sono entrambe
elementi essenziali della vicenda umana". In fondo, non dobbiamo poi rattristarci tanto.Ogni volta che mi domando perché gli uomini del passato abbiano espresso tanta malinconia, sempre mi impressiona osservare quanto i loro
scritti siano pervasi di tristezza e di rimpianto, e comincio anch'io a sospirare senza capirne la ragione. So bene che è una falsa consolazione affermare, come essi dicevano, che vivere e morire si equivalgono e che è assurdo sostenere che non fa differenza vivere a lungo, come il mitico Péng, che raggiunse la veneranda età di 800 anni, o soccombere in giovane età.
Quando i posteri penseranno a noi, le loro considerazioni saranno identiche a quelle che io svolgo in questo momento pensando al passato.Che tristezza!
Perciò parlo degli amici che sono qui con me e prendo nota di ciò che dicono, pur sapendo che domani il mondo sarà diverso e che tutto sarà cambiato. Solo i rimpianti non cambieranno mai, perché la natura dell'uomo è sempre la stessa.E forse voi posteri che mi leggerete proverete le stesse emozioni che sento io ora mentre sto scrivendo.
LŬ XÙN
LA VERA STORIA DI Ā Q (1)
Capitolo primo
Prefazione
È già da qualche anno che ero fermamente intenzionato a scrivere la vita di Ā Q. Ma, pur volendo farlo, ero trattenuto dal pensiero che, scrivendo questa storia, avrei dimostrato di non essere un grande scrittore. Fin dall’antichità infatti le migliori penne si sono sempre esercitate nelle biografie degli uomini illustri, giacché il grand’uomo continua a vivere nell’opera che ne parla e l’opera vive attraverso le gesta del suo eroe, ed alla fine non si sa più se è il personaggio che ha reso famosa l’opera o viceversa. Eppure io, a poco a poco, irresistibilmente, ritornavo di continuo , come ossessionato da un incubo, all’idea di scrivere la storia di Ā Q. Tuttavia, accingendomi ad iniziare quest’opera, che non sarà mai un capolavoro, non appena ho preso in mano la
penna, mi sono reso conto delle innumerevoli difficoltà da affrontare.
Il primo problema era quello del titolo. Dice Confucio:”Se non si chiamano le cose con il loro nome le parole risultano inefficaci” (2), e questa è una massima di cui si dovrebbe sempre tener conto. Ci sono diversi tipi di titoli per un’opera di questo genere: “biografia “, “autobiografia”, “vita esemplare”,“vita romanzata”, “contributi biografici”, “memorie familiari.”, “episodi della vita” di una persona.
Una “biografia ”? Di sicuro, questo scritto non figurerà mai accanto alle biografie di molti uomini illustri nei libri di storia.
Un’”autobiografia”? È chiaro che io non sono Ā Q.
Se dico che è una” vita romanzata”, quale opera ci ha mai tramandato i fatti reali da cui avrei tratto ispirazione?
Non posso neppure parlare di “vita esemplare” perché Ā Q non si distingueva affatto per mirabili virtù.
“Contributi alla biografia di Ā Q?”. A dire il vero nessun Presidente ha finora ordinato all’Istituto Storico Nazionale (3) di compilare una “vita”di Ā Q, che possa essere integrata con tali contributi. Certo, Dickens si è permesso di scrivere “La vita di un giocatore d’azzardo” anche se nella storia inglese non ci sono biografie di autentici giocatori
d’azzardo, ma ciò che è lecito ad uno scrittore celebre, non è consentito ad uno scrittorucolo come me. (4)
Restano ancora le “memorie familiari”, ma io non sono assolutamente in grado di dire se ho qualche antenato in comune con Ā Q né i suoi parenti mi hanno mai incaricato di scriverne la vita.
Forse potrei limitarmi al titolo “Episodi della vita di Ā Q”, ma allora mi si potrebbe di nuovo obiettare che non
ha senso soffermarsi su episodi della vita di un personaggio di cui nessuno ha mai scritto la biografia.
Per farla breve, questo mio lavoro è effettivamente una“vita”, ma poiché si tratta di un testo volgare in quanto, per scriverlo, ho utilizzato la lingua dei carrettieri e di altra gente di quella risma, non ho osato usurpare un così nobile titolo (5). Piuttosto, riferendomi a quei romanzieri un po’alla buona, che non facevano parte né delle Tre Dottrine né delle Nove Scuole (6), i quali avevano l’abitudine di scrivere: “Ora basta con le digressioni, torniamo alla vera storia”, ho preso le due ultime parole di questa frase “(La) vera storia” e ne ho fatto il titolo del mio lavoro. E se questo titolo richiama “La Vera Storia della Calligrafia” (7) scritta dagli Antichi, mi dispiace tanto, ma non posso proprio farci niente.
La seconda difficoltà era che una biografia dovrebbe, per tradizione, cominciare con le cooordinate dell’interessato, secondo il modello seguente: “X X, il cui nome di cortesia era Y, cittadino di Z...”, mentre io non sapevo nemmeno quale fosse il cognome di Ā Q.
Un giorno la gente credette che il suo cognome fosse Zhào, ma già il giorno seguente nessuno ne era più sicuro. Era infatti accaduto che il figlio del signor Zhào aveva superato l’esame distrettuale per l’accesso alla funzione
pubblica. La notizia era stata diffusa per il borgo al rullo dei tamburi ed Ā Q, che aveva appena scolato un paio di bicchierini, aveva cominciato a vantarsi dicendo che anche a lui ne veniva un grande onore per ragioni di
parentela giacché aveva un antenato in comune con il bisnonno paterno del festeggiato ed anzi, se si calcolava esattamente il numero delle generazioni a partire da questo antenato, lo stesso Ā Q risultava, nell’ambito del clan
familiare, più anziano del festeggiato di ben tre generazioni. In quell’occasione alcuni degli ascoltatori avevano addirittura già cominciato a provare un certo rispetto nei suoi confronti.
Ma ecco che il giorno dopo una guardia municipale trascinò Ā Q a casa del vecchio signor Zhào il quale, guardandolo con un volto paonazzo di rabbia, lo apostrofò: “ Ā Q, miserabile canaglia, come osi sostenere che noi siamo tuoi parenti?”.
Ā Q non aprì bocca.
Il vecchio Zhào, più lo guardava, più si sentiva crescere la rabbia in corpo. Fece alcuni passi verso di lui, sibilando con atteggiamento minaccioso: “Come hai avuto il coraggio di raccontare una simile sciocchezza? Ti pare possibile che io abbia dei parenti come te? Ti chiami forse Zhào?”.
Ā Q continuava a tacere, pensando solo a come squagliarsela, allorché il vecchio Zhào fece un balzo in avanti e gli appioppò un ceffone, urlando: “ Ma quando mai potresti chiamarti Zhào?! Uno della tua risma chiamarsi Zhào?!”.(8)
Ā Q non fece alcun tentativo di difendere un suo eventuale diritto di chiamarsi Zhào, ma si limitò a massaggiarsi con una mano la guancia indolenzita, mentre la guardia municipale lo accompagnava fuori.
Appena fuori, si prese ancora una bella ramanzina da parte della guardia municipale, che gli fece anche sborsare duecento soldi per il proprio intervento.
Tutti coloro che sentirono parlare di questo fatto dissero che Ā Q era stato veramente stupido nell’andarsi a cercare lui stesso gli schiaffi. Era infatti altamente improbabile che il suo cognome fosse Zhào, ma, anche se lo
fosse stato, Ā Q avrebbe comunque fatto meglio ad evitare di vantarsi in modo tanto sciocco di una parentela con una famiglia così importante del villaggio.
Dopo di ciò nessuno s’è mai più occupato delle origini familiari di Ā Q ed è questo il motivo per cui, in conclusione, non so ancora adesso quale fosse il suo cognome.
Il terzo problema era che ignoravo come si scrivesse il nome di Ā Q. (9)
Quand’era vivo tutti lo chiamavano Ā Quèi (10), ma, da quand’è morto, non c’è più uno che pronunci ancora il
suo nome, e non si può nemmeno immaginare di veder scritto questo nome “ sulle tavolette di bambù o sui rotoli di seta”. (11) Per questo motivo il mio saggio, che intendeva riportare la prima volta per iscritto il suddetto nome, era anche il primo a dover affrontare il difficile compito di scoprire come si scrivesse.
Ho riflettuto attentamente sulla questione: Ā Quèi va scritto con l’ideogramma di “cassia” o con quello di
“nobile”? (12)
Se Ā Quèi si fosse fatto chiamare Yuètíng o se avesse festeggiato il suo compleanno nel mese in cui cade la Festa della Luna, non c’è dubbio che si sarebbe dovuto usare il carattere “cassia” (13). Ma visto che non aveva un
secondo nome o che, anche se lo aveva nessuno lo conosceva, e visto che non distribuiva mai inviti di compleanno, ai quali la gente risponde abitualmente con versi augurali, scriverne il nome con il carattere “cassia”sarebbe assolutamente arbitrario. Allo stesso modo, se per caso avesse avuto un fratello maggiore o minore chiamato Ā Fù (14), il suo nome sarebbe certamente stato scritto con il carattere che significa “nobile”, "onorato”. Ma, disgraziatamente, non aveva fratelli. Scrivere Ā Quèi con il carattere che significa “nobile” sarebbe dunque altrettanto arbitrario.
I rimanenti caratteri che corrispondono alla pronuncia “quèi”, rari ed inusuali, mi sembrano improbabili.
Ho anche sottoposto la questione al figlio del signor Zhào, il brillante letterato che ha superato l’esame distrettuale, ma nemmeno lui è stato in grado di rispondermi. Mi ha però confidato che, a suo parere, se non si
riesce a risolvere il problema, la colpa è di Chén Dúxiù (15), il quale, con la sua rivista “La Gioventù Moderna” (16), propugna l'adozione dell'alfabeto latino (17) e sta mandando a ramengo l'autentica e genuina cultura nazionale.
Allo stremo delle risorse, non mi è rimasto altro da fare che pregare una persona che risiede nello stesso distretto in cui abitava Ā Quèi di consultare gli atti del suo processo (18), ma, dopo circa otto mesi, ho ricevuto in risposta una lettera con cui mi si riferiva che negli archivi giudiziari non si trovava traccia di alcun nome nemmeno lontanamente simile. Ora, può darsi che la persona a cui mi ero rivolto non abbia cercato con molto impegno, ma questa era l'ultima possibilità di trovare come si scrivesse il nome Ā Quèi.
Siccome temo che il nuovo sistema di scrittura fonetica cinese (19) non sia ancora molto diffuso, non mi resta che utilizzare le lettere dell'alfabeto latino. Seguendo la pronuncia inglese, la grafia del nome dovrebbe essere, se non erro "Quèi". Perciò ho deciso di rendere approssimativamente il nome del mio personaggio con il carattere "Ā"
e con la lettera latina "Q". (20)
Ciò equivale in sostanza a seguire ciecamente i dettami della rivista “La Gioventù Moderna” e me ne vergogno moltissimo, ma, se nemmeno un fine letterato è riuscito a trovare una risposta al problema, che cos’altro avrei potuto fare io?
Il quarto ostacolo era scovare il luogo di nascita di Ā Quèi. Se il suo cognome fosse realmente stato Zhào, allora, sulla base delle chiare note esplicative al “Băi Jiā Xìng” (21),le quali ricollegano con precisione ogni cognome ivi riportato al distretto d’origine della famiglia, si sarebbe saputo che era originario di “ Tiānshuĭ presso Lŏngxī”
nella regione del Gānsù, ma purtroppo non ci si può fondare su questo cognome e di conseguenza non si
può neppure stabilire il luogo d’origine del nostro eroe. Sebbene egli sia vissuto a lungo a Wèizhuāng (22), ha però abitato molto di frequente anche in altri luoghi, cosicché non si potrebbe dire che era “di Wèizhuāng”. Si potrebbe certo dire che era “anche di Wèizhuāng”, ma allora si violerebbe uno dei canoni stilistici delle biografie.
Ciò che mi conforta un pochino è che il carattere “Ā” è assolutamente corretto ed incontestabile.Esso non si appoggia in alcun modo su congetture fallaci ed è in grado di superare perfettamente l’esame degli esperti. (23)
Per quanto riguarda le altre questioni, non è certo un individuo di modesta cultura come me che sarà capace di risolverle, ma spero che i discepoli di “un uomo appassionato della storia e delle antichità” come il signor Hú ShÌ (24) possano trovare una quantità di nuovi filoni di ricerca tali da portare a conclusioni definitive.
Quanto sopra valga come prefazione.
NOTE
(1) "La vera storia di Ā Q" ( 阿Q 正傳 "Ā Q Zhèngzhuàn") di Lŭ Xún 魯 迅 (1881-1936) nacque come una serie di scenette satiriche pubblicate, a scadenze settimanali o quindicinali, sul giornale "Chénbào Fùkān" (晨 報 附 刊 "Supplemento del mattino") di Pechino dal 4 dicembre 1921 al 12 febbraio 1922. Solo più tardi, nel 1923, essa fu rielaborata sotto forma di racconto breve e pubblicata nel volume di racconti "Nàhăn"( 吶 喊 "Il grido di battaglia").
(2) Dai "Dialoghi di Confucio" ("Lún Yŭ 論 語,13.3"). Ecco una traduzione libera in linguaggio moderno del
dialogo tra il Maestro ed il suo discepolo Zĭlù:
Zĭlù domandò: "Maestro, se il re di Wèi vi chiedesse consiglio sul governo dello Stato, da che cosa comincereste?".
Il Maestro rispose: "Dalla corretta terminologia".
Zĭlù si stupì: "Davvero? È proprio così importante?".
Il Maestro gli spiegò: " Sei veramente un sempliciotto, Zĭlù. I funzionari tendono a non eseguire gli ordini che non capiscono. Quindi, se il linguaggio degli ordini è nebuloso, gli ordini non vengono eseguiti. Se gli ordini non vengono eseguiti, l'amministrazione non funziona. Se l'amministrazione non funziona, i procedimenti non sono portati a termine. Se i procedimenti non sono portati a termine, i reati non vengono puniti. Se i reati non vengono puniti, il popolo è confuso e il paese cade nel disordine.Perciò occorre che la terminologia sia corretta affinché ciò che viene ordinato possa essere eseguito. Il linguaggio dell'amministrazione deve essere preciso ed esatto".
(3) Negli anni della dinastia Qíng 清 朝 esisteva un'Accademia di Storia Nazionale ( 國史館 "Guò Shĭ Guăn"),alla
quale l'imperatore poteva, con proprio decreto, affidare l'incarico di redigere la biografia di un personaggio illustre. L'uso si mantenne anche sotto il governo repubblicato nato dalla rivoluzione del 1911.
(4) In una lettera a Wéi Sùyuán 韋 素 園 dell'8 luglio 1926 Lŭ Xún ammette: " 'La vita di un giocatore d'azzardo' ( 博 徒 別 傳 'Bótú Biézhuàn' ) è il titolo dato alla traduzione cinese del romanzo di Conan Doyle 'Rodney Stone'. Nel mio racconto 'La Vera Storia di Ā Q' ho scritto che era di Dickens, ma mi sono sbagliato".Il romanzo di Conan
Doyle era stato volto in cinese da Lín Qínnán 林 琴 南 , pseudonimo di Lín Shū 林 紓 (1852-1924), traduttore di numerosi romanzi occidentali.
(5) Lŭ Xún polemizza qui contro coloro che lo accusavano di usare nei suoi racconti il linguaggio popolare ( 白 話 ) “báihuà” anziché la lingua letteraria ( 古 文) “gŭ wén“.
(6) L'espressione "Tre Dottrine e Nove Scuole" (Sān Dào Jiŭ Jiā (o Jiŭ Liú) 三 道 九 家 (流) compendia,
per così dire, i "generi letterari" riconosciuti nell'antica Cina, distinguendo fra argomenti religiosi e morali, da una parte, ed argomenti di carattere filosofico, politico, sociale, etc., dall'altra.
Le "Tre Dottrine" sono evidentemente il Confucianesimo, il Taoismo ed il Buddismo. Il termine "Scuole" si riferisce invece alle numerose scuole di pensiero sorte in Cina nel periodo anteriore all'unificazione del paese da parte di Shĭ Huáng Dì.
Il "Tàishĭgōng Zìxù" ( 太 史 公 自 序 "Autobiografia del Grande Storico"), ultimo capitolo delle "Shĭjì"( 史 記 "Memorie Storiche") di Sīmă Qiān 司 馬 遷, opera compilata tra il 109 a.C. ed il 91 a.C., elenca sei scuole: Confucianisti, Taoisti, Legalisti (Scuola della Legge), Naturalisti (Scuola dello Yīn-Yáng), Moisti e Cultori della Logica (Scuola dei Nomi). Lo "Yìwénzhì" (藝 文 志 "Trattato d'arte e di letteratura"), che costituisce il capitolo 30
del "Hànshū" (漢 書 "Storia della Dinastia Hàn"), opera terminata nel 111 d.C., porta il numero delle scuole a dieci, aggiungendone altre quattro: la Scuola della Diplomazia, la Scuola dell'Agricoltura, gli Eclettici ed i Romanzieri. (Esisteva a quei tempi anche una Scuola dell'Arte Militare, che però non è menzionata nello Yìwénzhì).
Lŭ Xún crea l'espressione "Nove Scuole" traendola, per esclusione, dal seguente passo dello Yìwénzhì: "Di queste dieci scuole, nove meritano di essere studiate. I romanzieri e simili sono nati come narratori di storie. Compongono le loro opere sulla base di racconti e pettegolezzi. Scrivere un romanzo non è attività degna di un gentiluomo".
(7) "La Vera Storia della Calligrafia" ( 書 法 "Shūfă Zhèngzhuàn" ) fu scritta nel XVII° secolo da Féng Wŭ 馮 武, nato nel 1627, ma fu pubblicata soltanto agli inizi del XVIII° secolo, sotto il regno dell'imperatore Kāngxī
康 熙 帝 della dinastia Qíng 清 朝.
(8) Il furore del signor Zhào nei confronti del miserabile che ha osato usurpare il suo cognome si spiega anche con il fatto che "Zhào" 趙 è un cognome "nobile". Esso era infatti il nome di famiglia degli imperatori della dinastia Sòng
宋 朝 ( 967 d.C.-1279 d.C.) ed è il primo cognome che figura nel "Băijiāxìng" (百 家 姓"Libro delle Cento Famiglie"), un elenco dei cognomi cinesi pubblicato appunto durante l'epoca Sòng.
9) Zhōu Zuòrén 周 作 人 , fratello di Lŭ Xŭn, spiegò nel 1921 che lo scrittore aveva chiamato Ā Q il protagonista del suo racconto perché la forma della lettera Q, simile ad una testa da cui pende un codino, era già essa stessa un simbolo del carattere ottuso e reazionario del personaggio.
10) Il monosillabo pronunciato"quèi" ("guì" nella trascrizione in pīnyīn) può corrispondere in cinese a parecchi significati ed è quindi impossibile stabilire sulla base della sola pronuncia con quale carattere debba essere
scritto.
11) Nei " Lǚ Shì Chūn Qiū" (呂 氏 春 秋"Annali del signor Lǚ"), dovuti a Lǚ Bùwéi 呂 不 韋, e precisamente nella parte intitolata " Zhōngchūn Jì" (中 春 記 "Memorie di Mezza Primavera"), si legge che" ciò che è scritto su bambù e su seta trasmette la conoscenza alle generazioni future". Listelli di bambù e rotoli di seta erano infatti i materiali
su cui si scriveva prima dell'invenzione della carta. Con questa frase pomposa Lŭ Xún intende dire ironicamente che nessuno aveva sprecato carta per scriverci sopra il nome di Ā Q e tramandarne il ricordo.
12) Il carattere pronunciato "guì", se è scritto con la radice di "albero" 桂 (75.6), significa "albero di cassia" ,mentre, se è scritto con la radice di "conchiglia"貴(154.5), significa "prezioso", "nobile", "onorato".
13) La leggenda di Wú Gāng 吳 剛, il boscaiolo esiliato sulla luna e costretto per l'eternità ad abbattere un albero di cassia che perpetuamente ricresce, collega la cassia alla luna. Quindi - argomenta scherzosamente Lŭ
Xún - se Ā Q fosse nato nel mese della Festa della Luna (ottavo mese del calendario lunare, corrispondente più o meno al periodo compreso tra metà settembre e metà ottobre), che è anche detto "il mese della cassia", o se il suo secondo nome o soprannome fosse stato "Yuètíng" 月亭 ( il mitico "Palazzo sulla Luna", dimora delle fate), ci sarebbero valide ragioni per concludere che "guì" significava "cassia". Disgraziatamente, non si sapeva quando Ā
Q fosse nato e nessuno lo aveva mai chiamato con un secondo nome o soprannome.
14) Lo scrittore si riferisce qui all'uso di attribuire ai figli nomi di buon augurio.
Poiché le maggiori aspirazioni delle famiglie cinesi erano compendiate nella frase augurale " cháng mìng, fù, guì" 長 命 富 貴 , vale a dire " longevità, prosperità ed onori", se ad uno dei figli veniva dato il nome Fù, corrispondente ai nostri Felice, Prospero, Fortunato, era assai probabile che ad un altro venisse dato il nome Guì, corrispondente al nostro Onorato.
15) Chén Dúxiù 陳 獨 秀 (1879-1942) fu uno dei capi della Rivoluzione del 1911 e, successivamente, uno degli animatori del Movimento del 4 Maggio. Nel 1921 fondò con Lĭ Dàzhāo 李 大 釗 il Partito Comunista Cinese. Fu
direttore della rivista "Xīn Qīngnian" ( 新 青 年 “La Nuova Gioventù" ).
16) Il periodico "Qīngnián Zázhì" (青 年 雜 誌 "La Rivista della Gioventù"), pubblicato per la prima volta il 15 settembre 1915, fu ribattezzato nel 1916 "Xīn Qīngnián", vale a dire "La Nuova Gioventù" o "La Gioventù Moderna". Esso propugnava la lotta contro il feudalesimo e la tradizione e preconizzava, tra l'altro, l'uso,
nei giornali e nei libri, della lingua popolare ("báihuà").
17) Nel 1918 Qián Xuántóng 錢 玄 同 ed altri lanciarono sullo "Xīn Qīngnián" una campagna per l'abolizione della scrittura tradizionale e per l'adozione dell'alfabeto latino. Scrivendo il 3 marzo 1931 al traduttore giapponese del
racconto, Lŭ Xún precisa infatti: " Chi propose l'uso dell'alfabeto latino fu Qián Xuántóng, anche se nella Vita di Ā
Q lo stimabile diplomato Zhào attribuisce erroneamente tale iniziativa a Chén Dúxiù".
18) Come appare dal seguito del racconto, durante i disordini che accompagnarono la Rivoluzione del 1911, Ā
Q fu processato sotto l'accusa di aver saccheggiato la casa del signor Zhào e condannato a morte. Dagli atti del processo, se fosse stato possibile trovarli, sarebbe quindi dovuto risultare quali fossero il suo nome ed il suo cognome e con quali caratteri si scrivessero.
19) Il "Zhùyīn Zìmŭ" 注 音 字 母, colloquialmente chiamato "bopomofo" ( dalle sue lettere iniziali: b, p, f, m ), fu creato tra il 1910 ed il 1920 come primo sistema ufficiale di trascrizione fonetica del mandarino. Esso è
sostanzialmente un alfabeto, composto di 37 lettere e di 4 segni per indicare i toni. Le lettere sono una semplificazione di alcuni caratteri tradizionali, secondo un metodo analogo a quello adottato in Giappone per comporre lo "hiragana". Ciò avrebbe dovuto rendere il sistema meno "esotico" agli occhi della gente e permettergli di affermarsi come un sistema di scrittura parallelo agli ideogrammi, ma non bastò a procurargli un'adeguata diffusione.Nel 1930 la denominazione "Zhùyīn Zìmŭ" (letteralmente "caratteri fonetici" o "lettere fonetiche") fu sostituita dalla denominazione "Zhùyīn Fùháo 注 音 符 號 (letteralmente "simboli fonetici") per evitare l'impressione che si trattasse di un sistema alfabetico tendente a rimpiazzare i caratteri tradizionali. Nella Cina Continentale esso fu utilizzato fino al 1958; a Táiwān, fino al 2009. Come sistema di scrittura esso aveva lo svantaggio di non possedere l'eleganza e la ricchissima tradizione culturale degli ideogrammi, mentre ,come sistema di trascrizione fonetica, aveva il difetto di non essere immediatamente comprensibile ai lettori occidentali.
20) Dopo aver espresso l'intenzione di usare una lettera dell'alfabeto latino secondo la pronuncia inglese per rendere il suono che il sistema di trascrizione fonetica allora più diffuso, il Wade-Giles, fondato proprio sulla pronuncia inglese, rendeva con "kuèi" e che il pīnyīn rende attualmente con "guì", Lŭ Xún avrebbe dovuto, a rigor di logica, usare la lettera K, che in inglese si pronuncia "kei" e non la Q, che si pronuncia "kju:". La curiosa scelta
effettuata dallo scrittore trova una spiegazione se teniamo presente quanto riferito da Zhōu Zuòrén (cfr. nota n.9) a proposito della lettera Q che ricorda "una testa da cui pende un codino". Se aggiungiamo che, in inglese, la pronuncia della lettera Q è identica a quella del termine "queue", che significa esattamente "coda" o "codino", la soluzione dell'enigma è abbastanza chiara. Il titolo "La Vera Storia di Ā Q" va interpretato come "La Vera Storia di Compare Codino", cioè la storia di un tradizionalista, conformista e reazionario.
21) Il "Jùnmíng Băijāxìng" (郡 名 百 家 姓 "Libro delle Cento Famiglie con i Nomi delle Prefetture") è un'opera che integra il "Băijiāxìng" affiancando a ciascuno dei cognomi in esso riportati l'indicazione della zona d'origine della famiglia che reca tale cognome.
22) Il luogo d'origine di Ā Q è di pura fantasia. “Wèizhuāng" 未 庄 significa infatti "non villaggio", cioè "villaggio inesistente".
23) Alla fine, l'unica cosa che si sa con certezza del personaggio è che la gente gli si rivolgeva facendo precedere il suo nome dal prefisso "Ā", che equivale, grosso modo, ai nostri "zio" o "compare" usati come appellativo
confidenziale. Non è davvero molto!
24) Hú Shì 胡 適( 1891-1962) fu uno studioso che frequentò i corsi del filosofo Dewey negli Stati Uniti e si laureò nel 1917 alla Columbia University. Amico di Chén Dúxiù, non lo seguì nel suo percorso politico, evolvendo invece verso posizioni liberali. In un suo studio critico del 1920 sul famoso romanzo "Shuĭhŭzhuàn" 水 滸 傳 ("Storia in riva al fiume", tradotto in italiano con il titolo "I Briganti"), si dichiarò "appassionato cultore della storia e delle antichità", espressione ripresa con una certa ironia da Lŭ Xún, che non doveva averlo in molta simpatia.
CAPITOLO II
Resoconto sommario delle occasioni in cui Ā Q dimostrò la propria superiorità
Se nome, cognome e luogo di nascita di Ā Q rimangono incerti, altrettanto vaghe sono le informazioni di cui disponiamo per quanto riguarda il suo mestiere e la sua condizione sociale. Ciò è dovuto al fatto che la gente di Wèizhuāng, sia che gli affidasse qualche lavoro, sia che lo prendesse in giro, non si interessava mai della sua persona. Lo stesso Ā Q non parlava mai di sé. Soltanto quando litigava con qualcuno, gli capitava di dire, guardando fisso negli occhi l’avversario: “Una volta, nella mia famiglia, stavamo tutti molto meglio di te. Chi credi mai di essere?”.
Non aveva famiglia ed abitava nel tempio degli dei tutelari di Wèizhuāng. Non aveva neppure un’occupazione fissa, ma svolgeva solo lavori occasionali per gli altri: se c’era da falciare il grano, lo falciava, se c’era da macinare il riso, lo macinava, se c’era da spingere una barca, la spingeva. Allorché il lavoro durava un po’ più a lungo, poteva anche accadere che fosse ospitato in casa della persona che lo aveva temporaneamente ingaggiato, ma, non appena aveva finito, se ne andava. Perciò, la gente si ricordava di chiamarlo quando c’era un lavoro urgente da fare, ma ciò che ricordava era il servizio che aveva reso, non chi fosse Ā Q. Quando non c’era bisogno di lui, la gente si dimenticava perfino della sua esistenza. Possiamo quindi immaginare quanto gliene importava di sapere chi fosse.
Soltanto una volta ci fu un vecchio padrone che lo lodò dicendo : “Come lavori bene, Ā Q !”. In quel momento Ā Q stava ritto dinanzi al vecchio, a torso nudo, tutto solo, allampanato, con l’aspetto di uno che il lavoro stanca, ed i presenti ebbero la sensazione che quelle parole, anziché essere sincere, fossero piuttosto un segno di scherno, ma Ā Q ne fu estremamente contento.
Ā Q aveva infatti un’alta opinione di se stesso. Di tutti gli abitanti di Wèizhuāng , non ce n’era uno che considerasse degno di stima e nemmeno i due “professorini” del paese gli sembravano meritare un sorriso di
saluto da parte sua, poiché era convinto che ormai agli esami di stato venissero promossi tutti.
Il signor Zhào ed il signor Qián erano grandemente rispettati dalla popolazione, non soltanto perché erano ricchi, ma proprio perché erano genitori di persone colte e studiose. Ā Q era il solo a non provare, in cuor suo, alcuna ammirazione per loro, perché pensava: “Se avessi io un figlio ,sarebbe molto migliore dei loro rampolli”.
Per di più, dopo essere stato qualche volta in città, Ā Q era diventato naturalmente ancor più presuntuoso. Ciò non gli impediva tuttavia di provare un sano disprezzo per la gente della città.
Si usavano allora dei sedili di legno lunghi circa un metro che gli abitanti di Wèizhuāng chiamavano “banchi”. Anche Ā Q li chiamava “banchi”. La gente della città , invece, li chiamava “panche”. “Quanto mi fanno ridere.” pensava Ā Q “Non sanno nemmeno parlare correttamente”. Quando facevano friggere le carpe, tutti gli abitanti di Wèizhuāng aggiungevano scalogno tagliato a spicchi, mentre gli abitanti della città aggiungevano scalogno finemente tritato. “Che ridere!” pensava Ā Q “Non sanno nemmeno cucinare”. Ma, in realtà, quelli che facevano ridere erano proprio gli abitanti di Wèizhuāng, gente che non aveva mai messo il naso fuori dal proprio villaggio
e che non aveva mai visto come si faceva friggere il pesce in città.
Ā Q, che “una volta era stato qualcuno”, che “conosceva la gente importante” e che era “uno che sapeva lavorare”, sarebbe stato in pratica– non occorre nemmeno dirlo – un “uomo perfetto” se, per disgrazia, non avesse avuto qualche piccolo difetto fisico.
La più noiosa di queste imperfezioni si manifestava sulla testa, che era coperta di numerose cicatrici lucide lasciate da una strana malattia della pelle che lo aveva colpito non si sapeva quando. Pur portandole sul
proprio corpo, Ā Q non sembrava ritenere queste macchie particolarmente onorevoli e perciò evitava accuratamente di pronunciare la parola “scabbia” e tutti i termini che avessero un suono analogo. In seguito arrivò addirittura a bandire dal proprio vocabolario qualsiasi termine che potesse provocare un’associazione di idee come “lucido “ o “brillante” ed, alla fine, rinunciò persino ad usare parole come “lampada” o “candela”.
Se qualcuno, deliberatamente o senza intenzione, usava in sua presenza una di queste parole , le strie sulla testa di Ā Q diventavano scarlatte, segno che si stava irritando. Allora guardava bene chi gli stava di fronte e, se era uno lento di parola, cominciava ad insultarlo, se era uno di aspetto mingherlino, cominciava a picchiarlo. Ma, chissà perché, era quasi sempre lui che aveva la peggio in questi scontri, cosicché a poco a poco cambiò
tattica e finì per contentarsi di lanciare al malcapitato uno sguardo carico di indignazione.
Tuttavia, non si sa per quale motivo, dopo che Ā Q aveva cominciato a lanciare sguardi indignati, gli sfaccendati di Wèizhuāng si divertivano ancora di più a punzecchiarlo.
Infatti, non appena lo vedevano apparire, fingevano di sobbalzare dalla paura, urlando :“Mamma mia! Abbiamo visto un lampo”.
Ā Q, come sempre, si irritava e lanciava loro uno sguardo furioso.
“Ci siamo sbagliati.” continuavano quelli imperterriti “Era solo una lanterna, unta alla paraffina, che luccicava qui vicino”.
Ad Ā Q non restava altro da fare che cercare una replica adeguata.
“Voi non meritate nemmeno...” cominciava e, in quel momento, sembrava che le cicatrici luccicanti che la malattia gli aveva lasciato sulla testa fossero addirittura qualcosa di nobile e degno, non semplici cunicoli di acari. Ma, come s’è già detto, Ā Q era un uomo che aveva del discernimento. Ad un tratto, si accorgeva che stava affrontando un argomento che per lui era tabù e da quell’istante non diceva più una parola.
Talvolta i balordi non si accontentavano semplicemente di sfotterlo e la faccenda terminava a botte.
Dopo avergliele pubblicamente date di santa ragione, dopo aver strattonato il suo codino giallastro e dopo avergli sbattuto, quattro o cinque volte, rumorosamente, la testa contro il muro, solo a quel punto, i balordi, fermamente convinti di avergli somministrato una bella lezione, si allontanavano.
Ā Q rimaneva lì ancora un momento e rifletteva: “ Giriamola nel modo che vogliamo, è come se fossi stato picchiato da mio figlio. Non c’è più alcuna decenza al giorno d’oggi...”. E se ne andava anche lui, pienamente
convinto di essersi mostrato in quell’occasione moralmente superiore ai suoi avversari.
Purtroppo, Ā Q, invece di tenere per sé queste riflessioni, finiva spesso per raccontarle alla gente.
Così, tutti coloro che si divertivano a prenderlo in giro, sapevano, praticamente tutti, che ricorreva a questo tipo di risorsa psicologica per continuare a considerarsi superiore.
Perciò, ogni volta che gli tiravano violentemente il codino giallastro, gli dicevano : “Ricordatelo bene, Ā Q ! Qui non è il figlio che picchia il padre, è l’uomo che bastona la bestia. Ripeti anche tu: è l’uomo che bastona la bestia”.
Allora Ā Q, tenendosi con la mano la radice del codino, la testa tutta piegata da un lato, mormorava:” Che importanza ha picchiare una bestia? Io sono una bestia. Ed ora, per favore, lasciatemi andare”.
Ma, anche se era un animale, i balordi non lo lasciavano andare prima di avergli rumorosamente sbattuto la testa cinque o sei volte, secondo la consuetudine locale, contro qualcosa di solido. Fatto questo, se ne andavano, fermamente convinti di avergli dato una bella lezione e sicuri che, questa volta, Ā Q doveva essere veramente distrutto. Ed invece, dopo nemmeno dieci secondi, Ā Q se ne andava anche lui, lui pure fermamente convinto di essersi dimostrato superiore. Egli pensava: “È vero che io sono il “più bravo nell’ umiliarsi e nell’ avvilirsi”, ma non è importante ciò in cui uno è “il più bravo”, l’importante è “essere il più bravo”. Il primo classificato nel concorso nazionale per l’accesso alla funzione pubblica non è anche lui “il più bravo”? E voi, chi credete mai di essere?”.
Dopo aver usato questi ed altri astuti ragionamenti per cercare di non ritenersi inferiore ai suoi avversari, Ā Q se ne andava tutto allegro all’osteria a bere un paio di bicchierini. Qui si metteva di nuovo a sghignazzare con gli altri, cominciava di nuovo a litigare, aveva di nuovo occasione di mostrare la propria superiorità ed infine ritornava allegramente al tempio degli dei tutelari, lasciava cadere la testa sul cuscino e si addormentava.
Quando aveva soldi in tasca, andava a giocare a “pai bao”(1). Si poteva vedere un gruppo di uomini seduti per terra e, in mezzo a loro, Ā Q, col volto madido di sudore, che gridava a gran voce: “Quattrocento sul Drago
Azzurro”.
“Ehm, ehm...ora apriamo...ecco..” L’uomo che teneva il banco sollevava il coperchio del cofanetto e, anche lui marcio di sudore, cantilenava: “ Porta del Cieloo...Indietro all’angoloo.. Il corridoio dell’Armonia è vuotoo...Ā Q ha perduto la sua puntataa....”.
“Cento sul corridoio dell’Armonia... centocinquanta!”.
Al ritmo di questa cantilena i soldi di Ā Q svanivano, trasferendosi a poco a poco nelle tasche di altri individui sudaticci ed al nostro alla fine non restava che uscire dal mucchio dei giocatori e continuare a guardare, da dietro le teste degli spettatori, che cosa facevano gli altri, finché la gente non se ne andava ed anche lui doveva rientrare, di malavoglia, al tempio degli dei tutelari per ritornare al lavoro, il giorno dopo, con gli occhi gonfi.
Ma, come recita il proverbio:” Il vecchio della frontiera ha perso il cavallo. Chi può dire che non sia una fortuna?”(2). Infatti, la sola volta che Ā Q ebbe la sfortuna di vincere, fu anche quella in cui praticamente prese la peggiore batosta della sua vita.
Era la sera della processione per la festa patronale di Wèizhuāng. Quella sera, secondo la tradizione, doveva esserci una rappresentazione teatrale in piazza e, proprio alla sinistra del palcoscenico, s’erano installate, come d’uso, numerose bancarelle in cui si praticava il gioco d’azzardo. I gong e i tamburi dello spettacolo rimandavano un’eco lontana nelle orecchie di A Q, il quale ascoltava soltanto la cantilena dell’uomo che teneva il banco.
Vinse una volta, poi vinse ancora. Le monetine di rame si trasformarono in monete d’argento, le monete d’argento in dollari d’argento, i dollari d’argento cominciarono ad ammucchiarsi. Nell’eccitazione della vincita non riuscì a trattenersi dal gridare: “Due dollari sulla Porta Celeste”.
Non seppe mai tra chi e per quale ragione fosse scoppiata la rissa. Imprecazioni, colpi, rumore di passi affrettati, poi la testa che rintronava, un ronzio nel cervello. Quando riuscì a tirarsi su sulle ginocchia, le bancarelle erano scomparse. Si sentiva indolenzito in diverse parti del corpo, come se avesse preso una bella razione di pugni e di calci. Alcune persone intorno a lui lo fissavano attonite. Con in testa la vaga sensazione di aver perso qualcosa, si incamminò verso il tempio degli dei tutelari e, solo quando fu di nuovo in grado di riflettere, si rese conto che il suo mucchietto di dollari era sparito. Ma, visto che la grande maggioranza di quelli che tenevano il banco nei giochi d’azzardo non era originaria del villaggio, come si sarebbe potuto sapere dov’erano scappati?.
Quant’era bianco e luccicante quel mucchietto di monete d’argento!. Ed era stato suo...ma adesso era sparito. Cercare di convincersi che era come essere stati derubati dal proprio figlio non gli sembrava comunque, in queste circostanze, una grande consolazione. Neppure pensare di essere una bestia riusciva più a dargli conforto. Questa volta provava proprio l’amara sensazione di essere stato sconfitto.
Ma, ancora una volta, riuscì prontamente a trasformare una sconfitta in una vittoria. Sollevando la destra si appioppò lui stesso in faccia due ceffoni così violenti da sentirsi bruciare tutto il volto. Dopo essersi preso a botte, si sentì sereno e rilassato, come se si fosse sdoppiato ed una delle persone presenti in lui ne avesse schiaffeggiato un’altra. Ben presto ebbe l’impressione di aver veramente preso a schiaffi un’altra persona,
anche se la faccia continuava a fargli male.
Si mise a letto pienamente convinto di essersi dimostrato ancora una volta superiore. E si addormentò.
NOTE
1) Il "pái bào" 牌 報 è un gioco d'azzardo praticato gettando i dadi su un tavolo suddiviso in caselle di segni e valori diversi.
2) Si tratta di un antico proverbio (“ chéngyŭ “成 語) che dice: 塞 蓊 失 馬﹐焉 知 非 副 “sài wēng shī mă,
yān zhī fēi fú”, cioè “il vecchio della frontiera ha perso un cavallo, chissà che non sia una fortuna”.
Il significato del proverbio è più o meno analogo a quello dei nostri “ non tutto il male viene per nuocere” e “non è tutto oro ciò che luccica”.
Il proverbio viene spiegato con la seguente storiella:
“Un vecchio che abitava presso la frontiera possedeva un cavallo pregiato che un giorno fuggì nella steppa tra i barbari.
Ai vicini che lo compativano,il vecchio rispose: “Chi può dire che non sia una fortuna?”.
Infatti, qualche tempo dopo, il cavallo ritornò accompagnato da un’intera mandria di cavalli selvaggi.
Ai vicini che si rallegravano con lui, il vecchio rispose:”Chi può dire che non sia una disgrazia?”.
Infatti, qualche tempo dopo, il figlio, cavalcando uno degli stalloni, cadde e si ruppe una gamba.
Ai vicini che si rammaricavano con lui del grave incidente subito dal figlio, il vecchio rispose:”Chi può dire che non sia una fortuna?” ed ebbe ragione perché, poco tempo dopo, tutti i giovani del villaggio furono arruolati per una
spedizione contro i barbari, e solo il ragazzo con la gamba rotta potè rimanere a casa.
Capitolo III
Resoconto sommario delle ulteriori vittorie di A Q
Sebbene Ā Q passasse di vittoria in vittoria, dovette tuttavia aspettare di essere preso a schiaffi dal signor Zhào per farsi un nome.
Dopo aver sborsato alla guardia municipale duecento soldi per il disturbo, si mise a letto pieno di rabbia e cominciò a pensare: “Oggigiorno il mondo è veramente indescrivibile. I figli picchiano i genitori”. Di conseguenza –
gli venne in mente all’improvviso – il signor Zhào, prendendolo a schiaffi, si era comportato come se fosse suo figlio. Ciò, a poco a poco, gli risollevò il morale. Si tirò su e, canticchiando allegramente “ La vedovella sta accanto al sepolcro”, andò all’osteria. In quel momento il vecchio signor Zhào era ridiventato ai suoi occhi una persona degna di considerazione.
Anche se è strano a dirsi, dopo questo incidente tutti sembravano effettivamente considerarlo con maggiore rispetto. È da escludere che ciò fosse dovuto, come credeva lui, al fatto che il signor Zhào l’aveva trattato come
avrebbe trattato il proprio padre. Di regola, a Wèizhuāng, se due fratelli si prendevano a botte o se Tizio picchiava Caio, la cosa non faceva veramente notizia. Perché tutti cominciassero a parlare di una faccenda di questo genere, occorreva pure che la vicenda coinvolgesse persone conosciute. Non c’era naturalmente il minimo dubbio che la colpa dell’incidente fosse di Ā Q. E che dunque? Era assolutamente impossibile che il signor Zhào potesse essere dalla parte del torto. Ma, se la colpa era di Ā Q, perché la gente sembrava ora trattarlo con insolito riguardo?
È difficile da spiegare, ma siamo in grado di formulare, a questo riguardo, due ipotesi. Può darsi che, siccome Ā Q aveva dichiarato di appartenere allo stesso casato del signor Zhào, anche se subito dopo era stato preso a schiaffi, la gente temesse che potesse esserci qualcosa di vero in queste dichiarazioni e che fosse comunque più prudente mostrargli un certo rispetto. Oppure può darsi che succedesse ciò che accadeva con i buoi nei templi di Confucio: sebbene fossero animali domestici, come il maiale o l’agnello, i fedeli più devoti non osavano sacrificarli e cibarsene per paura di compiere un sacrilegio, visto che visto che dei buoi erano stati usati un tempo per tirare la carrozza del Maestro.
Dopo questi avvenimenti Ā Q godette per qualche anno di buona considerazione.
Un giorno di primavera, mentre , ubriaco fradicio, si trascinava per strada lungo un muro assolato, scorse Wáng il barbone, seduto per terra a torso nudo, intento a spidocchiarsi ed anche lui, all’improvviso, sentì che il corpo cominciava a prudergli. Siccome Wáng soffriva di scabbia ed aveva una barbaccia incolta, tutti lo chiamavano “quel barbone rognoso di Wáng”. Ā Q, anche se evitava accuratamente di usare il termine “rognoso”,
mostrava di solito il più assoluto disprezzo nei suoi confronti. Egli riteneva infatti che la scabbia fosse qualcosa di abbastanza naturale, mentre quei peli arruffati sulle guance erano veramente il massimo della stramberia moderna e non si potevano guardare. Ā Q gli si sedette accanto. Se si fosse trattato di qualsiasi altro sfaccendato, Ā Q non avrebbe avuto il coraggio di sedersi al suo fianco senza la minima formalità. Ma da Wáng il barbone, che cosa c’era da temere? Anzi, a dire il vero, il solo sederglisi accanto era già fargli un onore.
Anche Ā Q si tolse la giacchetta piuttosto malandata, e la rivoltò per esaminarla in cerca di pidocchi, ma, sia che l’avesse lavata abbastanza di recente, sia che non si desse da fare con sufficiente impegno, alla fine di una
lunga ricerca non riuscì a trovarne più di tre o quattro.
Sollevando lo sguardo vide che “quel barbone di Wáng” ne stava pigliando uno, e poi un altro, e poi ancora altri due, e poi un terzo, e li schiacciava tra i denti con un bello schiocco sonoro. A tutta prima Ā Q ne fu
sgradevolmente sorpreso, ma poi cominciò ad irritarsi. Vedere che un miserabile come Wáng il barbone riusciva a prendere tanti pidocchi, mentre lui, al contrario, non riusciva a trovarne quasi nessuno era una vera vergogna. Quanto avrebbe voluto trovarne ancora uno o due bei grassi, ma non ce n’erano proprio più, e riuscì solo a rimediare un pidocchietto che infilò selvaggiamente in bocca, addentandolo con furore, senza però ottenere altro che un rumorino secco, insignificante, di nuovo nemmeno lontanamente paragonabile ai suoni densi
ed untuosi che riusciva a produrre Wáng.
Le cicatrici sulla sua testa divennero scarlatte. Scagliando a terra con rabbia la giacchetta, sputò ed esclamò ad alta voce: “ Bestiaccia pelosa!”.
“Cane rognoso!” gli rispose Wáng il barbone, squadrandolo con disprezzo”Chi stai insultando?”.
Sebbene negli ultimi tempi avesse goduto di un relativo rispetto e fosse quindi cresciuta la stima che egli aveva di se stesso, quando Ā Q incontrava uno di quegli sfaccendati abituati a picchiare si mostrava ancora prudente, ma questa volta si sentiva insolitamente bellicoso. Come osava un barbone dal volto irsuto offenderlo in questo modo?
“Chi si sente insultato ha la coda di paglia” dichiarò Ā Q alzandosi in piedi, con le mani sui fianchi.
“”Hai le ossa che ti prudono?” ribatté Wáng il barbone, alzandosi in piedi a sua volta e rimettendosi la camicia.
Ritenendo che volesse svignarsela, Ā Q si precipitò in avanti col pugno levato. Ma, prima ancora che il pugno potesse abbattersi sul corpo di Wáng, quest’ultimo lo afferrò per il braccio e gli diede un violento strattone
che lo fece barcollare in avanti. Poi gli afferrò il codino e cominciò a tirargli la testa verso il muro, per sbattercela contro, come d’uso.
“Gioco di mano, gioco da villano” protestava Ā Q con la testa piegata da un lato. Ma Wáng il barbone doveva evidentemente essere proprio un villano perché, senza ascoltare le lamentele di Ā Q, gli sbatté cinque volte di
seguito la testa contro il muro ed infine gli diede ancora un robusto spintone che lo gettò, barcollante, a due metri di distanza. Dopo di ciò, si allontanò, pienamente soddisfatto.
Per quanto Ā Q potesse ricordarsi, questa doveva essere considerata come la prima grave umiliazione della sua vita, perché aveva sempre preso in giro Wáng il barbone per le sue guance irsute, senza che quello osasse
mai replicare, né, tanto meno, mettergli le mani addosso. Ed ora, all’improvviso, lo aveva picchiato. Una cosa che Ā Q non si sarebbe mai aspettata. Era mai possibile che fosse vero ciò che si diceva in città: che l’Imperatore aveva abolito gli esami di stato e che laureati e dottori non erano più richiesti? In questo caso, la famiglia Zhào doveva aver perso prestigio e ciò spiegava, a sua volta, perché gente come Wáng potesse trattarlo senza rispetto.
Mentre Ā Q non riusciva a liberarsi da questa idea, vide arrivare di lontano un’altra persona che gli stava parecchio antipatica. Era qualcuno che Ā Q aveva sempre cordialmente disprezzato: il figlio maggiore del
signor Qián. Costui era andato a studiare in città, in una scuola straniera, poi, non si sa perché, era addirittura finito oltremare. Era tornato a casa, sei mesi dopo, tutto impettito, e senza codino. Sua madre aveva pianto a dirotto per giorni interi e sua moglie aveva tentato per tre volte di gettarsi nel pozzo. Dopo un po’ sua madre
cominciò a raccontare a tutti in giro che dei farabutti l’avevano fatto ubriacare e che, mentre era ubriaco, l’avevano praticamente costretto a tagliarsi il codino. “Avrebbe potuto diventare funzionario” aggiungeva “ ed invece ora dovrà aspettare che gli ricresca il codino”.
Ma Ā Q non credeva a questo racconto ed insisteva nel chiamare il giovane Qián “scimmiottatore dei maledetti forestieri” e “spia degli stranieri”. Ed ogni volta che lo incontrava, gli lanciava, bisbigliando appena, in modo da
non farsi sentire, i più feroci insulti.
Ā Q trovava profondamente detestabile ed estremamente penoso che il figlio del signor Qián portasse ora un codino posticcio. Era forse un gesto da uomo mettersi un codino falso? Ed il fatto che sua moglie non avesse più
tentato ,una quarta volta, di gettarsi nel pozzo provava che non era, nemmeno lei, una donna stimabile.
Lo scimiottatore dei maledetti forestieri gli stava adesso passando accanto.
“Crapa pelata! Somaro!”. In passato Ā Q era sempre stato attento a bisbigliare tali insulti tra i denti, senza farsi sentire dall’interessato, ma ,questa volta, poiché era proprio arrabbiato e provava un intenso bisogno di
sfogarsi, le parole gli uscirono involontariamente di bocca chiare e distinte.
Per sua disgrazia il nostro eroe aveva dimenticato che il“crapa pelata” andava in giro con una robusta, luccicante canna da passeggio, che lo stesso Ā Q soleva chiamare “cero da funerali”.
Mentre l’offeso si precipitava verso di lui, venendogli addosso a grandi passi, Ā Q capì in un attimo che stavano per piovere botte a volontà.Camminando in fretta ,con i muscoli che si contraevano nervosamente e la
schiena che si irrigidiva, rannicchiò le spalle in attesa della scarica, che infatti arrivò puntualmente. Il rimbombo della bastonata fu tale che gli sembrò di averla ricevuta direttamente sulla testa.
“Mi riferivo a quello lì” cercò di giustificarsi, indicando un bambino che gli stava passando accanto.
E pacchete! E pacchete! E pacchete!
A memoria di Ā Q, questo trattamento andava considerato come la seconda grave umiliazione della sua vita. Ma, appena svanita l’eco della bastonatura, ciò che provò, considerando che il peggio era ormai passato, fu
piuttosto un certo senso di sollievo. Lo aiutò inoltre quella preziosa “ capacità di dimenticare” che aveva ereditato dai suoi antenati. Si allontanò camminando piano piano e, quando giunse dinanzi alla porta dell’osteria, era
già di nuovo allegro.
Ma, proprio in quel momento si vide venire incontro una monachella del Convento della Serena Meditazione. La vista di una monaca era una cosa che faceva regolarmente bestemmiare Ā Q.Ci si immagini ,quindi, dopo le
umiliazioni che aveva.appena subito.
“Non sapevo che cosa mi portasse scarogna oggi, ma adesso ho capito che era perché stavo per incontrarti”.pensò guardando la monaca. Ed avvicinatosi a lei, sputò rumorosamente in guisa di saluto: “
Eech...puh!...”
La monachella fece finta di niente. Si limitò a chinare la testa ed andò avanti. Ma Ā Q le si affiancò ed improvvisamente allungò la mano per accarezzarle la testa, rasata da poco. Poi, sghignazzando sguaiatamente, le disse:” Torna subito al convento, testa pelata! Il tuo bonzo ti sta aspettando”.
“Perché mi tocchi?” protestò la monaca, arrossendo tutta in volto e cercando di accelerare il passo.
Gli uomini seduti davanti all’osteria scoppiarono in una fragorosa risata.
Vedendo che la sua nobile impresa veniva meritatamente apprezzata, Ā Q si eccitò ancora di più.
“Se lo fanno i bonzi, perché non posso farlo io?” replicò, pizzicandole una guancia.
I clienti dell’osteria sghignazzarono di nuovo.
Ā Q ne fu tutto contento e, per soddisfare pienamente i suoi ammiratori, la pizzicò ancora una volta, con forza, prima di lasciarla andare.
Nell’esaltazione dello scontro aveva già dimenticato sia Wáng il barbone sia lo Scimiottatore dei maledetti forestieri e gli pareva che tutte le umiliazioni della giornata fossero state vendicate.
Addirittura, stranamente, si sentiva pervaso da una sensazione di beatitudine in tutto il corpo persino superiore al senso di sollievo che aveva provato quando avevano smesso di bastonarlo. Si sentiva leggero, leggero, come
se stesse per spiccare il volo.
“Che tu possa morire senza discendenza”lo maledisse, di lontano, la vocina piagnucolosa della monaca.
“Ha! Ha! Ha!”. Ā Q si mise a ridere a crepapelle.
“Ha! Ha! Ha!” gli fecero eco i clienti dell’osteria.
Capitolo 4
Tragedie d’amore
Si dice che ci siano dei vincitori che riescono a sentirsi orgogliosi di aver vinto solo se hanno combattuto contro un avversario feroce come una tigre od un’aquila. Se invece si sono trovati di fronte una pecorella od un pulcino
bagnato, non traggono alcuna soddisfazionedalla loro vittoria. Ce ne sono pure che, dopo aver spazzato via
tutto ciò che si parava loro dinanzi, dopo aver visto l’avversario soccombere, cedere o dichiararsi “ servo fedele e tremante”, dopo aver constatato che non gli è più rimasto un solo nemico, né un solo avversario, né un solo amico, si ritrovano senza nessuno accanto, soli ed isolati, tristi ed abbandonati , e vivono un ben amaro trionfo.
Ma il nostro Ā Q non aveva di queste ubbie. Qualsiasi vittoria gli faceva sempre molto piacere.E questo potrebbe forse anche provare che in Cina la mentalità e la cultura sono più sane che in tutto il resto del globo.
Guardatelo! È tutto allegro e gioioso come se stesse per spiccare il volo.
Tuttavia questa vittoria ebbe sul nostro eroe una strana ripercussione.
Per la maggior parte della giornata rimase euforico, come se avesse le ali ai piedi, ed era ancora tutto allegro quando rientrò al Tempio degli dei tutelari, dove soleva dormire tranquillo, russando fragorosamente.
Ma, chissà perché, quella sera non riuscì proprio a chiudere gli occhi. Gli pareva che il pollice e l’indice non fossero più come prima. Era come se fossero diventati un po’più morbidi e lisci del normale.
Non avrebbe saputo dire se era qualcosa di soffice e di oleoso, spalmato sulle guance della monachella, che era rimasto attaccato alle sue dita o se la punta delle sue dita si fosse semplicemente ammorbidita sfregando le
guance della monachella.
“Che tu possa morire senza discendenza!”.
Queste parole risuonarono di nuovo nelle orecchie di Ā Q. Pensò:” Non c’è proprio niente da fare. Devo trovare una donna. Chi muore senza discendenti non ha nessuno che offra una ciotola di riso al suo spirito. Devo
trovare una donna. Come dice il Maestro, “ non avere discendenti è la più grave delle mancanze contro la pietà filiale” e “gli spiriti di coloro che non hanno avuto discendenti vagano affamati”.Ed era proprio una grande tristezza della vita –pensava- che a causa di ciò egli potesse poi essere costretto a vagare “ senza poter ottenere riposo”.
“Una donna...una donna...” pensava.
“Se ci riescono i bonzi...” continuava a pensare “ una donna... una donna...una donna”.
Non sappiamo se quella sera Ā Q riuscì infine a prendere sonno, ma, più o meno da quel momento in poi ebbe sempre l’impressione di avere le dita un po’unte e scivolose e rimase sempre un po’svagato.
“Una donna...”era diventato il suo pensiero ricorrente.
Da ciò possiamo dedurre con precisione quale elemento di disordine siano le donne nella vita della gente. La maggior parte degli uomini cinesi riuscirebbero infatti a vivere in modo saggio e virtuoso se, per loro
disgrazia, non fossero completamente rovinati dalle donne.
Ciò che causò la caduta dei Shang furono gli eccessi di Dájì (1), ciò che portò al crollo dei Zhou fu il brutto carattere di Baosi (2). Quanto ai Qín..., sebbene la storia non lo attesti, se supponessimo che anche la loro fine fu
dovuta ad una donna, di sicuro non ci allontaneremmo del tutto dalla realtà. Non sussiste invece il minimo dubbio sul fatto che Dong Zhuò fu assassinato per colpa di Diaochán.(3)
Anche Ā Q era, ovviamente, un uomo virtuoso. Non sappiamo se persino un ignorante come lui avesse trovato qualche buon maestro, ma si deve riconoscere che, per quanto riguardava il rispetto delle regole della decenza
nei rapporti tra i sessi si era sempre mostrato estremamente rigoroso ed avrebbe volentieri messo al bando degli sfrontati come la monachella o lo scimiottatore dei maledetti stranieri.
La sua opinione era che le monache e i bonzi dovevano farsi gli affari loro in privato. “Se una donna va in giro da sola è per accalappiare i buoni a nulla. Se un uomo ed una donna si parlano per strada non può che esserci
una tresca”.
Quando si imbatteva in una simile sfacciata, per mostrare la sua disapprovazione, spesso cominciava a fissarla intensamente od esprimeva, ad alta voce, commenti sgradevoli o, addirittura, se si trovavano in un luogo appartato e poco frequentato, le lanciava dietro per scherno un pugno di sassolini.
Chi avrebbe mai detto che, giunto ai trent’anni, età in cui l’uomo, secondo Confucio, “sta saldo”, il nostro eroe finisse col perdere completamente la tramontana a causa di una monachella. Il fatto che i libri canonici riprovino severamente tali sbandate ci fornisce una prova incontestabile della malvagità femminile. Se infatti il volto della giovane monaca non fosse stato così liscio e morbido, Ā Q non sarebbe pervenuto a questo stadio di malsana eccitazione e lo stesso sarebbe accaduto se la donna si fosse coperta il volto con un velo.Cinque o sei anni prima, mentre assisteva ad uno spettacolo all’aperto in mezzo alla folla, Ā Q aveva pizzicato il sedere ad una donna, ma, a causa della stoffa dei pantaloni, la sensazione non era poi stata così eccitante.Ma la monachella andava in giro a volto scoperto, altra prova della perfidia di quella svergognata.
“Una donna...” continuava a pensare Ā Q.
Spesso si metteva ad osservare con attenzione tutte le donne che a suo giudizio, “dovevano certamente darsi da fare per adescare i fannulloni”, ma quelle non gli sorridevano proprio. Ascoltava con estrema attenzione anche le
donne con cui gli capitava di parlare, ma pure da queste non sentiva mai il minimo accenno ad un possibile appuntamento. Proprio così! Questo era un altr esempio dell’odiosità delle donne: volevano tutte far credere di essere delle santerelline.
Un giorno Ā Q aveva macinato, in casa del signor Zhào, il riso che era stato raccolto in una giornata di lavoro e, dopo aver mangiato cena, era seduto in cucina a fumare la pipa.
In un’altra casa, dopo avergli dato cena, lo avrebbero probabilmente mandato subito a dormire, ma in casa Zhào si cenava piuttosto presto e , perciò, sebbene la regola fosse quella d’andare subito a letto senza accendere le luci appena finito il pasto, di tanto in tanto si tollerava qualche eccezione a questo principio. Così, quando il figlio del signor Zhào si stava preparando agli esami, gli fu permesso di tenere una lampada accesa per poter studiare anche di notte e, quando Ā Q veniva ingaggiato dagli Zhào come giornaliero, gli veniva consentito di accendere una lampada per poter finire di macinare il riso.
È a causa di questa seconda deroga alle regole della casa che Ā Q stava ancora seduto in cucina, a fumare la pipa, prima di andare a finire il proprio lavoro.
Quando “Zia Wu”, che era la sola donna di servizio impiegata in casa Zhào, ebbe finito di lavare i piatti, andò anche lei a sedersi sulla lunga panca della cucina e cominciò a chiacchierare con Ā Q.
“La signora è da due giorni che non mangia perché il padrone vuole prendersi una ragazzina come concubina...” e, intanto Ā Q pensava : “ Una donna...Zia Wu... questa vedovella non è poi tanto male”.
“La signora giovane è incinta da un mese...”. “ Una donna...” continuava a pensare Ā Q.
Posò la pipa e si alzò in piedi.
“La signora giovane...” continuava a raccontare Zia Wu.
“Vieni al letto con me! Vieni a letto con me!” la implorò Ā Q, gettandosi avanti e cadendo in ginocchio dinanzi a lei.
Ci fu un momento di spaventoso silenzio.
“ Ooooh....”. Zia Wu rimase dapprima attonita, poi, d’improvviso, fu scossa da un tremito e si precipitò fuori dalla cucina lanciando alti strilli. Correva ed urlava, poi si mise a piangere.
Anche Ā Q, ritrovandosi in ginocchio dinanzi al muro, rimase intontito. Appoggiandosi con le due mani alla panca vuota, si tirò su piano piano, rendendosi vagamente conto di aver fatto qualcosa che non andava bene. Di
sicuro si sentiva un po’ sottosopra pure lui. Si infilò nervosamente la pipa nella cintura dei pantaloni e decise di ritornare subito a macinare il suo riso.
“Toc”, e sulla sua testa atterrò, con un rumore secco, un colpo tremendo. Si voltò di scatto e si trovò di fronte il giovane Zhào, quello che aveva brillantemente superato gli esami distrettuali, che impugnava a due mani
un grosso palo di bambù.
“Canaglia...specie di...”.
Vedendo che il grosso palo di bambù stava di nuovo per abbattersi su di lui, Ā Q si coprì la testa con tutte e due le mani per proteggersela e si beccò il colpo proprio sulle nocche, cosa che gli fece un gran male. E, mentre
infilava a razzo la porta della cucina, gli sembrò di avere ancora ricevuto una botta sulla schiena.
“Figlio di meretrice” gli urlò dietro il giovane Zhào insultandolo in lingua mandarina.
Ā Q si rifugiò, tutto solo, nel magazzino dove si macinava il riso. Le nocche delle dita e la testa gli facevano ancora male. Continuava a pensare a quell’insulto, “figlio di meretrice”, perché era un’espressione che non aveva mai sentito in bocca agli abitanti di Wéizhuang, ma solo in bocca ai ricchi che erano in rapporto con le autorità e ciò lo spaventava ancor di più e lo turbava oltre misura.Gli erano anche uscite di mente tutte le fantasticherie sulle donne. Comunque, dopo le botte e gli insulti, si convinse che la tempesta fosse ormai passata senza altre conseguenze e si rimise a macinare il riso. Dopo aver macinato un momento, sentì caldo e si fermò di nuovo
per togliersi la camicia.
Mentre si toglieva la camicia, udì un gran clamore all’esterno ed essendo per natura estremamente curioso andò a vedere quale fosse la ragione di tutto quel baccano, dirigendosi rapidamente verso il luogo da cui proveniva il
rumore. Seguendo il suono delle voci si ritrovò a poco a poco nel cortile interno di casa Zhào. Nonostante fosse ormai scuro, riuscì a vedere che c’erano parecchie persone: tutta la famiglia Zhào, inclusa la signora che non mangiava da due giorni, ed inoltre la loro vicina, la signora Zou ed i loro parenti Zhào Bái Yan e Zhào Si Chén.
La nuora del signor Zhào stava tirando Zia Wu fuori dalla stanza dei domestici e le diceva: “ Vieni... vieni fuori
non stare ad intristirti nascosta in camera tua”. “Sappiamo tutti che sei una donna onesta” le diceva da parte sua la signora Zou “ Non deve neanche venirti in mente l’idea di ucciderti”. Zia Wu continuava a piangere, mormorando fra i pianti parole che non si riusciva quasi mai a distinguere chiaramente.
“Ah!” pensò Ā Q“ Strano! Chissà perché la vedovella sta facendo tutta ‘sta scena?”.
Curioso di saperlo, stava avvicinandosi a Zhào Si Chén per domandarglielo, quando improvvisamente s’accorse che il vecchio signor Zhào veniva verso di lui con una grossa canna di bambù in mano. Vedendo la nodosa
canna, Ā Q si ricordò d’un tratto delle botte che aveva appena preso e gli venne il sospetto che ci fosse qualche rapporto tra quell’episodio ed il baccano che si stava facendo nel cortile. Si voltò per scappare, deciso a rifugiarsi di nuovo nel magazzino del riso, ma non potè farlo perché la canna di bambù si interponeva tra lui e quella via di scampo. Allora si voltò di nuovo e si mise a correre senza più pensare a nulla finchè riuscì ad infilare la porticina sul retro della casa ed a scappar fuori senza chiedere il resto. Ed in un attimo si ritrovò al tempio degli dei tutelari.
Dopo che Ā Qr imase seduto un momento, gli venne la pelle d’oca e cominciò a tremare perché, sebbene fosse già primavera , di notte faceva ancora piuttosto freddo e non era consigliabile rimanere con la schiena nuda. Si
ricordò allora che il suo giubbotto era rimasto a casa del signor Zhào, ma ebbe paura, se fosse andato a riprenderselo, di assaggiare una seconda volta le bastonate del neodiplomato. Ma arrivò la guardia municipale: “Ā Q, figlio di buona donna! Adesso cominciamo addirittura a dire oscenità alle serve di casa Zhào. Sei proprio un bandito e sei pure riuscito a rovinarmi la serata. Disgraziato!“. Sotto questo torrente di ingiurie Ā Q rimase naturalmente zitto zitto e, siccome era già notte, dovette sborsare alla guardia municipale una multa maggiorata, di ben quattrocento soldi. Non avendo denaro in tasca, Ā Q dovette dare in garanzia il cappello di feltro che portava in testa. Inoltre, fu costretto ad accettare le seguenti cinque condizioni impegnandosi:
1) a portare a casa Zhào due ceri rossi, del peso di cinquecento grammi, ed un sacchetto di bastoncini d’incenso per espiare la propria malefatta;
2) a remunerare di tasca sua il religioso taoista chiamato dalla famiglia Zhào ad esorcizzare gli spiriti
delle donne che si erano suicidate;
3) a non varcare mai più la soglia di casa Zhào;
4) a dichiararsi l’unico responsabile di qualsiasi disgrazia che potesse succedere a Zia Wu;
5) a rinunciare a qualsiasi pretesa di essere pagato e di recuperare il giubbotto abbandonato in casa Zhào.
Ā Q naturalmente accettò tutto, ma non aveva denaro. Fortunatamente era già primavera e perciò, dando in pegno la coperta di cotone che non gli serviva più, riuscì a procurarsi duemila soldi che gli permisero di
soddisfare le condizioni che gli erano state imposte.
Dopo essersdi prostrato fino a terra con la schiena nuda, fu sorpreso di constatare che gli restava ancora un po’ di moneta, ma, invece di ritornare a disimpegnare il cappello di feltro, andò a bersela tutta in trattoria.
La famiglia Zhào , da parte sua, non bruciò l’incenso né le candele, che furono messi da parte per poter essere utilizzati quando la signora Zhào avesse venerato il Buddha.
La maggior parte della camicia di Ā Q, che cadeva a brandelli, fu trasformata in pannolini per il bambino che la nuora del signor Zhào partorì nel mese di settembre. Tutti i ritagli che restavano furono riciclati dalla Zia Wu
come solette per le scarpe.
NOTE
(1) Dájì 妲 己 , favorita del re Zhòu 紂 王 , contribuì ampiamente, con le sue stravaganze e con la sua crudeltà, a provocare la caduta della dinastia Shāng 商 朝 (1046 a.C).
(2) Bāosì 褒 姒 , concubina del re Yōu 幽 王 , della dinastia Zhōu 周 朝 , era di carattere melanconico. Per farla
divertire, Yōu aveva ideato parecchi scherzi, uno dei quali consisteva nel fingere un attacco dei nemici al palazzo reale. Chiamati in soccorso con i fuochi di segnalazione, i nobili accorsero più volte trafelati da tutto il paese, alla testa delle loro truppe, solo per accorgersi di essere stati presi in giro. Convinti che si trattasse del solito scherzo di cattivo gusto, essi non si mossero più quando i nemici assalirono veramente il palazzo reale. (771 a.C.).
(3) Secondo il Romanzo dei Tre Regni (三 國 演 義 Sān Guó Yănyì ), la bella Diāochán 貂 蟬 si sarebbe servita del suo fascino per mettere l’uno contro l’altro il gran cancelliere Dŏng Zhuò 董 卓 ed il generale Lǚ Bù 呂 布.
Quest’ultimo, roso dalla gelosia, avrebbe infine ucciso il rivale in amore.
Le fonti storiche che riportano l’assassinio di Dŏng Zhuò ( avvenuto nel 192 d.C.) non menzionano però il nome di Diāochán, che sembra piuttosto essere un personaggio di fantasia.
Capitolo V
Il problema di guadagnarsi da vivere
Dopo aver compiuto quanto richiesto dagli usi, Ā Q ritornò come al solito al tempio degli dei tutelari. Il sole era già tramontato e, a poco a poco, Ā Q cominciò a provare una sensazione sgradevole. Si mise a riflettere attentamente e giunse alla conclusione che ciò doveva essere dovuto al fatto che aveva la schiena
nuda. Si ricordò allora che possedeva ancora un giubbotto sbrindellato, se lo mise subito indosso e si coricò. Quando riaprì gli occhi il sole cominciava di nuovo a brillare sulla parete occidentale del tempio. Ā Q si tirò su a sedere borbottando: “Figlio di...”.
Dopo essersi alzato, si mise a bighellonare come al solito, finché non cominciò di nuovo ad avvertire a poco poco un senso di disagio che era tuttavia diverso dal malessere fisico procurato dalla schiena nuda. Sembrava che improvvisamente, quel giorno, tutte le donne di Weichuang avessero preso paura di lui: non appena lo vedevano avvicinarsi, correvano subito a nascondersi in casa. In effetti, persino la signora Zou, che aveva quasi cinquant’anni, si affrettò a ritirarsi come le altre, urlando alla figlia undicenne di rientrare subito in casa. Ad Ā Q la cosa parve molto strana.“Queste donne” cominciò a pensare “ da un momento all’altro sono diventate tutte timide
come verginelle...Che baldracche!”.
Ma, qualche giorno dopo, dovette rendersi conto che c’era proprio qualcosa che non andava. Dapprima, l’osteria rifiutò di fargli credito, poi il vecchio custode del tempio degli dei tutelari borbottò qualcosa che sembrava un
invito ad andar via, infine, s’accorse d’un tratto che da un po’di tempo non venivano più richiesti i suoi servizi, anzi ,che da parecchi giorni, nessuno era più venuto a proporgli qualche lavoretto. Che l’osteria non gli facesse più credito, poteva sopportarlo; se il vecchio insisteva perché se ne andasse, bastava far finta di non sentire i suoi mugugni; ma se nessuno veniva più ad offrirgli un lavoro, lo stomaco rimaneva vuoto e questa era davvero una cosa grave, un “maledetto” guaio. Quando non ce la fece più, Ā Q si vide costretto a presentarsi da coloro che gli davano abitualmente lavoro per domandare che cosa stesse succedendo—era solo in casa Zhào che gli era stato espressamente vietato di mettere piede--, ma ricevette una strana accoglienza.Era sempre un uomo che usciva a rispondergli, guardandosi intorno con aria molto scocciata, e che, cacciandolo via con un gesto della mano, come se fosse un mendicante, gli diceva:”Non c’è niente per te, non c’è niente. Vattene!”. Ad Ā Q ciò apparve
ancora più strano.”Questa gente” pensò” aveva sempre qualche lavoruccio da affidarmi.Come è possibile che, da un momento all’altro, non ci sia più niente? Se si comportano così, ci deve essere sotto qualcosa”. Si affrettò ad indagare finché non scoprì che ora, per i piccoli lavori, tutti andavano a chiamare D lo smilzo. Questo D lo smilzo era un poveretto, magro ed affamato, che, nella considerazione di Ā Q, stava ancora un gradino al di sotto di Wáng il barbone. Chi avrebbe mai pensato che un tipo come quello potesse cercare di portargli via
il pane quotidiano? Perciò Ā Q se la prese più del normale e, mentre camminava inferocito. di tanto in tanto levava in alto il braccio, canticchiando: “Ti colpirò con la mia mazza ferrata”.(1) Qualche giorno dopo finì per incontrarlo
dinanzi al muro luccicante di casa Qián. “Quando due nemici si incrociano, i loro occhi lanciano lampi”.Ā Q ebbe un sobbalzo ed anche D lo smilzo si fermò di netto.
“Animale!” ruggì Ā Q con gli occhi accesi e la bava alla bocca.
“Lo so che sono un verme” gli rispose D lo smilzo” Che ti serve ricordarmelo?”.
Tanta remissività rese ancor più furioso Ā Q, il quale, tuttavia, non avendo in pugno la mazza ferrata, non poté far altro che gettarsi su D lo smilzo con una mano protesa in avanti per afferrargli il codino. Ma l’avversario, proteggendosi il codino con una mano, cercò, a sua volta, con l’altra mano ,di afferrare il codino di Ā Q, costringendo quest’ultimo ad usare la mano che gli era rimasta libera per difendere il proprio codino. In passato
Ā Qnon avrebbe di certo mai considerato D lo smilzo come un avversario degno della minima considerazione, ma, a forza di digiunare, era ormai ridotto anche lui a pelle ed ossa, proprio come il suo rivale, cosicché le forze dei
contendenti apparivano equilibrate.
Le due figure umane piegate in avanti e le quattro mani protese intorno alle due teste gettarono per una mezz’oretta un’ombra bluastra, che ricordava la forma di un arcobaleno, sul muro imbiancato di casa
Qián.
“Va bene! Va bene!” dicevano alcuni degli spettatori, probabilmente nella speranza di separare i litiganti.
“Bene! Bene” dicevano altri, non si capiva se per farli smettere, per approvarli o per aizzarli ulteriormente.
I due contendenti, tuttavia, non gli prestavano attenzione. Se Ā Q avanzava di tre passi, D lo smilzo retrocedeva di tre passi, e si bloccavano di nuovo. Se D lo smilzo avanzava di tre passi, Ā Q retrocedeva, a sua volta di tre
passi, ed erano di nuovo fermi. Dopo circa mezz’ora – è difficile dire con esattezza quanto tempo fosse trascorso perché a Weizhuang non c’erano molti orologi, forse eran soltanto venti minuti – nuvolette di vapore cominciarono a formarsi intorno alle loro teste e gocce di sudore a colargli giù dalla fronte. Ā Q lasciò cadere le braccia e, nello stesso istante, anche D lo smilzo mollò la presa. Entrambi si raddrizzarono simultaneamente e si tirarono indietro con perfetta sincronia, allontanandosi tra la folla.
“Te la farò pagare...figlio di mignotta!” minacciò Ā Q, voltando indietro la testa, mentre si allontanava. “ Non finisce qui...figlio di puttana!” replicò D lo smilzo voltando anche lui la testa mentre se ne andava via.
L’epica lotta fra” la tigre ed il drago” terminò così apparentemente senza vinti né vincitori e non si sa neppure se gli spettatori ne fossero stati soddisfatti, perché si allontanarono senza fare alcun commento. L’unica cosa certa è che nessuno veniva più ad ingaggiare Ā Q per fare qualche lavoretto.
Un giorno, sebbene la temperatura fosse tiepida e soffiasse una leggera brezza che lasciava presagire l’estate, Ā Q s’accorse che sentiva freddo. La cosa tuttavia non lo preoccupò: il suo problema più grave era che aveva lo
stomaco vuoto. La coperta, il cappello di feltro e la camicia di cotone se ne erano già andati da un pezzo e, subito dopo, aveva venduto anche la giacchetta imbottita. Ora, gli rimanevano solo i pantaloni, che non poteva, ovviamente, togliersi di dosso. Aveva ancora, è vero, una giacchetta di lino tutta strappata, ma la si sarebbe potuta vendere al massimo come materiale per risuolare le scarpe.
Ā Q aveva sperato per un po’ di riuscire a trovare per terra qualche monetina, ma fino a quel momento non ne aveva vista nessuna. Aveva anche sperato che qualche monetina potesse sbucar fuori all’improvviso da un
angolo della sua misera stanza ed aveva frugato freneticamente in ogni cantuccio, ma la stanza si era rivelata desolatamente vuota. Allora aveva deciso di uscire in cerca di cibo.
Mentre vagava per la strada “in cerca di cibo”, si trovò di fronte all’amata osteria ed al panettiere che conosceva così bene, ma andò avanti senza esitazioni, senza nemmeno lasciarsi distrarre dal pensiero di fermarsi. Non era questo ciò che cercava, anche se, a dire il vero, non sapeva nemmeno lui che cosa stesse cercando.
Poiché Weichuan non era un grosso borgo, in breve Ā Q si ritrovò a camminare fuori del paese. La campagna era piena di risaie, verdeggianti a perdita d’occhio di tenere pianticelle. In mezzo alle risaie si scorgevano,
simili a puntini neri che giravano in tondo, i contadini che le stavano coltivando. Ma Ā Q, del tutto insensibile al fascino di questo paesaggio campestre, continuò sicuro ad andare avanti, perché sentiva istintivamente che
il cammino che lo avrebbe condotto al cibo passava ben lontano di lì. Alla fine comunque si trovò dinanzi al muro di cinta del convento della Serena Meditazione.
Anche il convento era circondato dalle risaie ed i suoi muri impolverati spiccavano tra il verde delle pianticelle appena nate. Dietro il muro di cinta, che non era molto alto, c’era l’orto. Ā Q esitò un istante guardandosi intorno, ma non c’era nessuno in vista. Allora cominciò ad arrampicarsi sul muretto aggrappandosi a qualche canna, ma il debole muro di fango si mise a franare ed Ā Q tremava di paura, ma, alla fine, afferrandosi alle branche di un gelso, riuscì a saltare oltre. All’interno, c’era unav egetazione abbondante, ma nessuna traccia di vino, di panini o di qualsiasi altra cosa che si potesse mettere in bocca. Certo, verso ponente c’era un boschetto di bambù e, sotto gli alberi, si vedevano spuntare numerosi germogli, ma c’era un inconveniente: non erano cotti. C’erano anche rape che avevano già fatto i semi, piante di senape che stavano fiorendo e cavolini quasi marci. Ā Q si indispettì come uno studente che senta di essere stato bocciato ingiustamente.Mentre si avvicinava pian piano alla porta dell’orto, sobbalzò all’improvviso quando gli si parò chiaramente di fronte un’aiuola di rape. Si chinò e cominciò a raccoglierle, ma dal cancello fece improvvisamente capolino una testa rotonda, che si tirò immediatamente indietro. Era precisamente la piccola monaca che abbiamo già incontrato. Sebbene Ā Q nutrisse ovviamente scarsa stima per gente come le monache, vi sono tuttavia a questo mondo situazioni in cui occorre“essere disposti a fare un passo indietro”. Perciò, sradicò in fretta quattro rape, gli strappò via le foglie e, ripiegato un lembo della camicia per farne una specie di tasca, ve le mise dentro.Ma nel frattempo era già arrivata una vecchia monaca che cominciò ad urlare:
“Ah! Che Buddha ci aiuti! Ah! Ā Q, hai scavalcato il muro dell’orto per venirci a rubare le rape? Che infamia!
Ahimè! Buddha, aiutaci!”.
“Io sarei entrato nel vostro orto per rubarvi le rape?” le rispose Ā Q arretrando piano piano.
“Oddio...” ribatté la vecchia monaca indicando con il dito il rigonfiamento nella camicia di Ā Q“ Non è proprio quello che stavi facendo?”.
“E questi rape sarebbero vostre? Voi le chiamate e loro vi rispondono? Voi...” cercò di schernirla Ā Q, ma non riuscì a finire la frase perché dovette darsela a gambe levate, inseguito da un enorme cagnaccio nero. Ā Q aveva visto questo cane dinanzi alla porta del convento e si domandò come fosse mai riuscito ad arrivare nell’orto. Abbaiando ferocemente il cagnaccio gli si mise alle calcagna e stava già per azzannargli una gamba, quando molto opportunamente una rapa cascò giù dalla falda della giacca e lo disorientò, bloccandolo per un attimo. Ā Q ne approfittò subito per aggrapparsi ai rami del gelso, scalare il muretto e lasciarsi ricadere all’esterno con le sue rape, mentre il cagnaccio nero continuava a latrare sotto l’albero e la vecchia monaca invocava disperatamente il Buddha.
Temendo che la monaca potesse di nuovo lanciargli addosso il cane, Ā Q recuperò le sue rape e si allontanò in fretta, non senza prima aver raccolto da terra qualche sasso per difendersi, ma il cagnaccio se n’era andato e non si fece più vedere. Ā Q allora gettò via le pietre e, mentre camminava e mangiava, rifletteva tra sé: “ Qui non c’è proprio niente da cercare...farei meglio ad andare in città”.
Nel momento in cui stava finendo di mangiare la terza rapa, aveva ormai preso la decisione di andare in città.
NOTA
(1) Ā Q canticchia qui un’aria tratta dall’opera “La battaglia della tigre con il drago”, che narra le vicende della lotta del fondatore della dinastia Sòng 宋 朝 con uno dei suoi rivali. Quest’opera appartiene al repertorio tradizionale del tipo di opera detto Shàojù 紹 劇 , che si sviluppò, sotto la dinastia Míng 明 朝 , a Shàoxing 紹 興 , Níngbō
寧 波 e Hángzhōu 杭 州 , nella regione del Zhèjiāng. 浙 江.
Capitolo VI
Dalla ripresa al declino
Quell’anno Ā Q si fece di nuovo rivedere in paese subito dopo la festa di Mezzo Autunno. (1)
Tutti furono sorpresi nel sentire che era ritornato e solo allora si accorsero che si era allontanato dal villaggio e cominciarono a domandarsi dove fosse stato sino a quel momento.
Le altre volte che era andato in città Ā Q si era premurato di farlo sapere anche ai sassi, ma siccome questa volta era stato zitto, nessuno s’era accorto della sua assenza.
Poteva anche darsi che lo avesse detto al vecchio custode del Tempio degli Dei Tutelari, ma, per antica consuetudine, a Wèizhuāng faceva notizia solo se era il Signor Zháo o il Signor Qián o il Signor Diplomato a recarsi in città.
Se nemmeno lo Scimiottatore dei Maledetti Stranieri era in grado di attirare la pubblica attenzione, tanto meno avrebbe potuto riuscirci Ā Q.
Per questo il vecchio non si sarebbe comunque scomodato a diffondere la notizia al suo posto.
Di conseguenza, gli abitanti di Wèizhuāng non avevano avuto alcuna possibilità di conoscerla.
Questa volta, tuttavia, il ritorno di Ā Q avvenne in modo del tutto diverso rispetto alle precedenti occasioni e fu
davvero tale da attirare l’attenzione della gente.
Si stava infatti facendo sera quando egli apparve con aria insonnolita sulla porta dell’osteria, si avvicinò al bancone, frugò intorno alla propria cintura e tirò fuori una manciata di monete d’argento e di bronzo
che gettò sul banco ordinando: “Ecco i soldi! Portatemi del vino!”.
Indossava un giubbotto imbottito, nuovo fiammante, e, per di più, dalla vita gli pendeva ostentatamente una grossa borsa, il cui peso considerevole tirava con forza sulla cinghia dei pantaloni facendole fare un
grande arco verso il basso.
Da sempre, a Wèizhuāng, il vedere qualcuno comportarsi in modo abbastanza inusuale induceva a trattarlo con rispetto piuttosto che con indifferenza ed in quel momento, per quanto tutti sapessero bene che era Ā Q quello che si trovavano davanti, dovevano tuttavia constatare che era un Ā Q diverso da quello del giubbotto sbrindellato.
Dicevano gli Antichi: “Chi è stato lontano per tre giorni va guardato con altri occhi”. (2)
Così i servitori, il padrone della trattoria, i clienti ed i passanti gli manifestarono, del tutto spontaneamente, accanto alla diffidenza, anche una forma di rispetto.
Dopo averlo salutato con un vigoroso cenno del capo, il padrone dell’osteria proseguì:
“Salve, Ā Q, vedo che sei tornato!”.
“Sì, son tornato”.
“ Hai fatto i soldi, eh...? Dov’eri finito?”.
“Ero andato in città.”
Il giorno successivo l’intera Wèizhuāng era al corrente del ritorno di Ā Q.
Tutti volevano sapere dei soldi e del giubbotto nuovo di zecca e conoscere la storia dei suoi successi e così, nelle taverne, nelle case da tè e sotto i cornicioni dei templi era un continuo scambiarsi notizie tra gli abitanti del villaggio.
Il risultato di tutto ciò fu che Ā Q ne conseguì un inaspettato prestigio.
Secondo quanto raccontava lui stesso , Ā Q era stato al servizio di un Diplomato Provinciale (3) e questo dettaglio della storia metteva in soggezione tutti coloro che lo ascoltavano.
Questo signore si chiamava Bái, ma, siccome era l’unica persona in tutta la città che avesse affrontato con successo gli esami imperiali a livello provinciale, quando si parlava di lui non occorreva pronunciarne il
nome: bastava dire il “Diplomato Provinciale” e tutti sapevano di chi si trattava. Per molta gente era come se il suo vero nome e cognome fosse effettivamente “Diplomato Provinciale”.
L’aver lavorato in casa di una tale personalità era naturalmente un titolo d’onore, ma Ā Q aggiungeva che , in seguito, aveva preferito licenziarsi perché il famoso diplomato s’era dimostrato “un gran figlio di buona
donna”.
Nell’udir ciò, tutti gli ascoltatori sospiravano, pur provando allo stesso tempo un senso di soddisfazione, perché ,se da una parte vedevano confermata la loro convinzione che Ā Q fosse sostanzialmente inadatto a servire in casa di un rispettabile diplomato, dall’altra dovevano riconoscere che ritrovarsi senza lavoro è una brutta cosa.
Ā Q raccontava che era ritornato anche perché non gli piaceva la gente della città, che chiamava “panche” i banchi e che cucinava le carpe con scalogno finemente tritato invece di tagliarlo a spicchi e, per di piû, aveva appena scoperto un altro difetto: le donne della città camminavano ancheggiando in modo piuttosto sgraziato.
Ciò non toglieva comunque che anche in città ci fosse qualcosa da ammirare: ad es. la gente di Wéizhuāng non sapeva giocare a scacchi con 32 pezzi e solo lo scimiottatore dei diavoli stranieri era in grado di giocare a
mah-jong, mentre in città qualsiasi monello di strada era un esperto di quel gioco. Persino l’imitatore dei diavoli stranieri, messo di fronte ad un ragazzino di dieci anni in città, avrebbe fatto la figura di un piccolo diavolo
dinanzi al Signore dell’Inferno.
Al sentir questo tutti gli ascoltatori arrossivano di vergogna.
“Avete mai visto un’esecuzione capitale?” domandò loro Ā Q.“Eh...quello è uno spettacolo. Quando accoppano i
rivoluzionari...sì...quello è davvero uno spettacolo.”e ,parlando, scuoteva la testa di qua e di là, cosicché uno spruzzo di saliva finì sulla faccia di Zhào Sīchén.
Tutti coloro che ascoltarono questa parte della storia, si misero a tremare.
Allora Ā Q, dopo aver girato lo sguardo tutt’intorno, sollevò improvvisamente il pugno e lo lasciò ricadere sulla coppa di Wáng il barbone che aveva allungato il collo per poter ascoltare meglio, urlando a gran voce “ ...eh...zacchete!
Wáng il barbone fece un salto dallo spavento ed istantaneamente tirò indietro la testa con un guizzo simile al balenare di un lampo o di una scintilla, mentre tutti i presenti sentivano un brivido correre lungo la schiena. Da quel momento, Wáng il barbone rimase inebetito per parecchi giorni e non osava più riavvicinarsi ad Ā Q, che anche gli altri cercavano di evitare.
Ā Q acquistò in quel periodo, agli occhi della gente di Wéizhuāng, un reputazione che se- a voler essere onesti – non superava quella del vecchio signor Zhào, le faceva però – e lo si può affermare senza allontanarsi troppo
dalla realtà- una bella concorrenza.
Poco tempo dopo, la fama di Ā Q cominciò improvvisamente a diffondersi anche tra le donne di Wéizhuāng. Sebbene le uniche due famiglie importanti di Wéizhuān fossero i Qiān e i Zhào e, tolte le donne di queste due
famiglie i nove decimi delle altre disponessero di ben poche risorse, le donne son sempre donne, e ciò permette di capire come si fosse verificato un fatto così curioso.
Quando due donne si incontravano, la loro conversazione era sempre di questo tipo: “ La signora Zōu ha comprato da Ā Q una camicetta di seta azzurra. Non era proprio nuova, ma l’ha pagata solo novanta soldi.
Inoltre, la madre di Zhào Báiyán ( a questo proposito occorrerà indagare perché, secondo altre fonti, si sarebbe trattato della madre di Zhào Sīchén) ha comprato, anche lei, un vestitino di seta rossa per bambini, fabbricato
all’estero e l’ha pagato solo trecento soldi, con uno sconto dell’otto per cento”.
Allora, tutte quelle che non avevano una camicetta di seta sentirono un gran bisognoi di vedere Ā Q per chiedergli di vendergliene una e quelle che non avevano un vestitino di seta per i bambini volevano comprarlo anche loro.
Se prima lo sfuggivano, ora quando incontravano Ā Q per strada, lo seguivano implorandolo di fermarsi: ".Ā Q, non avresti ancora qualche camicetta di seta? No?! Allora un vestitino per bambini. Non ne hai davvero nessuno?".
Più tardi la notizia finì per arrivare dalle case dei poveri alle case dei ricchi, giacché la signora Zōu, estremamente contenta di aver comprato una camicetta di seta la mostrò alla vecchia signora Zhào perché la valutasse e
la signora Zhào, a sua volta, ne parlò al vecchio signor Zhào con grande ammirazione.
Quella stessa sera, a cena, il vecchio signor Zhào parlò della cosa con il figlio diplomato, domandandosi se non ci fosse qualcosa di losco nel modo di fare di Ā Q e se non fosse opportuno sorvegliare meglio le porte e le
finestre.
Non sapevano però se Ā Q avesse già venduto tutte le sue merci e pensavano che forse si sarebbe ancora potuto trovare, nel suo campionario, qualcosa di conveniente.
Visto che la vecchia signora Zhào avrebbe desiderato comprare un bel giacchino di pelle che non costasse troppo, il consiglio di famiglia affidò alla signora Zōu l’incarico di accostare Ā Q per fissargli un appuntamento,
derogando così, per la terza volta, alle regole di casa Zhào: quella sera infatti venne temporaneamente deciso, a titolo speciale, di accendere una lampada ad olio.
Buona parte dell’olio s’era già consumata ed Ā Q non compariva ancora.
Tutta la famiglia Zhào cominciava a spazientirsi ed a sbadigliare: alcuni dicevano che Ā Q era un gran maleducato, altri sospettavano e deploravano che la signora Zōu non avesse insistito abbastanza. La vecchia
signora Zhào temeva che Ā Q non osasse presentarsi a causa del divieto che gli era stato fatto in primavera, ma il vecchio signor Zhào le disse che non c’era motivo di preoccuparsi, perché “questa volta sono io che l’ho mandato a chiamare”, ed i fatti provarono che aveva proprio ragione lui, visto che, alla fine, Ā Q arrivò, seguito dalla signora Zōu che arrancava dietro di lui.
“Continuava a ripetermi che non aveva più niente ad vendere“ riferì quest’ultima, ansimando e sospirando,” e, quando io gli rispondevo di venire a raccontarvelo di persona, insisteva a dirmi che era inutile, ed io gli dicevo...”.
“Signor Zhào...”esclamò tutto d’un fiato Ā Q, tentando un sorriso, mentre si fermava dinanzi alla casa, sotto lo spiovente del tetto.
“Ā Q ...abbiamo sentito dire che, lontano di qui, sei diventato ricco.” lo salutò il signor Zhào, andandogli incontro con lentezza e squadrandolo fisso da capo a piedi “ Molto bene...davvero molto bene!...ed ora...abbiamo saputo che hai alcune cianfrusaglie da vendere. Potresti prenderle e portarcele tutte qui... per farci dare un’occhiata.
Non per altro, in realtà vorremmo solo...”.
“Non ho più niente. L’ho già detto alla signora Zōu”.