Giovanni Gallo
ASSASSINIO AL BERLAYMONT
(Tentativo semiserio di romanzo poliziesco vagamente ambientato presso la Commissione delle Comunità europee.
Il testo non è stato sottoposto ad una revisione definitiva e può quindi presentare qualche incongruenza)
Capitolo I
Un fine settimana assolutamente ordinario
Jean Casimir Lopaczynski girò accuratamente la chiave nella serratura, facendole compiere due rotazioni complete, e spinse con il palmo della mano la porta per controllare che fosse ben chiusa. Si guardò intorno a lungo, con circospezione, poi, apparentemente soddisfatto, cominciò a scendere le scale del condominio in cui abitava. Arrivato nell’androne, voltò verso destra e, tirato di nuovo fuori di tasca il mazzo delle chiavi, si mise a cercare quella che apriva la cassetta della posta. Socchiuso con precauzione lo sportellino, estrasse dalla cassetta un mucchietto variopinto di lettere, depliant pubblicitari e giornali che infilò ordinatamente nella sua cartella. Una rapida scorsa alle buste gli aveva permesso di constatare che non vi era, almeno a prima vista, alcuna comunicazione importante, salvo i normali estratti conto, le abituali fatture da pagare ed una o due delle solite lettere che offrivano servizi di giardinaggio, di baby-sitting, di accompagnamento dei cani o che notificavano lasciti miliardari nel Burkina Faso, invitando il fortunato erede ad anticipare subito, su un certo conto bancario, le spese delle pratiche di successione.
Jean Casimir non aveva bambini né cani e per di più, abitando in un condominio, non doveva neppure preoccuparsi della gestione delle magre aiuole che ne fiancheggiavano la facciata e ne rallegravano il cortile, salvo recriminare ogni anno per le somme spropositate che l’amministratore - degno rappresentante della sua specie – faceva pagare ai condomini a titolo di “manutenzione degli spazi verdi” e “taglio delle siepi”. Inoltre, essendo di carattere sospettoso e fondamentalmente pessimista, dubitava molto dell’esistenza di miliardari nel Burkina Faso, ed occorre aggiungere che, anche se gli avessero provato al di là di ogni dubbio che tale paese rigurgitava di ricchissimi finanzieri, avrebbe continuato a ritenere che questi signori a tutto potessero pensare meno che a beneficarlo nel doloroso momento del loro trapasso.
Ciononostante, Jean Casimir non gettava mai via la corrispondenza, neppure quella che sembrava assolutamente priva di interesse, ma, dopo averla letta con la dovuta attenzione e con una certa curiosità, poiché riteneva, non del tutto arbitrariamente, che da qualsiasi pezzo di carta ci fosse sempre qualcosa da imparare, la classificava e la archiviava secondo precisi e rigorosi criteri, convinto come era - anche qui non senza qualche valida ragione – che qualsiasi informazione potesse un giorno tornare utile. La stessa convinzione lo spingeva a conservare tutti i quotidiani che riceveva in abbonamento, “Le Monde” , le “Soir” e l’”Herald Tribune”, ed i giornaletti gratuiti di cui faceva incetta nel suo percorso tra la casa e l’ufficio.
Non c’era perciò da stupirsi se, nei numerosi anni in cui aveva lavorato a Bruxelles, il suo appartamento da scapolo si era a poco a poco riempito di pile di giornali, di riviste, di Gazzette ufficiali delle Comunità europee (che egli aveva razziato in ufficio, quando, in seguito al trasferimento di tutti i documenti ufficiali su computer, l’amministrazione aveva deciso di mandare al macero gli esemplari cartacei ormai superflui), di montagne di lettere, di opuscoli, di depliant, che, dopo aver riempito fin quasi al soffitto il salotto, avevano successivamente invaso il corridoio, la camera da letto e la cucina, lasciando liberi soltanto una serie di stretti camminamenti che ricordavano molto da vicino le trincee della prima guerra mondiale.
A questo punto, Jean Casimir, che aveva –sia detto a suo onore – una granitica certezza delle proprie convinzioni ed un’assoluta perseveranza nelle proprie abitudini , aveva cominciato ad impilare sistematicamente giornali, riviste e corrispondenza nel suo ufficio del Palazzo Berlaymont, la cui spaziosa superficie si era progressivamente ridotta di fronte alla silenziosa invasione. La situazione non era ancora così disperata come nell’appartamento del condominio, perché un certo numero di armadi e di scansie avevano potuto per qualche tempo raccogliere questo materiale, ma le montagne di carta erano ormai giunte anche qui all’altezza di un uomo di media statura. Aprendo la porta dell’ufficio il visitatore si trovava di fronte ad un muro cartaceo apparentemente impenetrabile, ma un esame più attento gli permetteva di scoprire accanto alla parete di destra un piccolo varco da cui uno stretto sentiero conduceva ad un modesto spiazzo, affiancato alla finestra, dove erano collocati la scrivania ed il PC. Da qui, volendo, avrebbe potuto proseguire lungo la finestra fino ad un punto in cui il muro si interrompeva lasciando libero uno spazio, ancora sufficiente ad ospitare un tavolino e due poltroncine, che appariva però chiaramente minacciato da mucchi di giornali, di varia altezza, in lenta ma inesorabile avanzata. Nessuno tuttavia sentiva mai il desiderio di avventurarsi oltre la scrivania e le stesse donne delle pulizie, col tacito assenso del responsabile della manutenzione dei locali, avevano preso l’abitudine di trascurare l’ufficio di Jean Casimir.
Era una mattina di sabato e Jean Casimir, che era rientrato molto tardi la sera prima da una missione di tre giorni in Lussemburgo, dove aveva fatto parte di una commissione d’esami per un concorso d’assunzione di traduttori dal polacco (era infatti figlio di un emigrato della Slesia occidentale ed aveva perciò una discreta conoscenza della lingua polacca, pur essendo belga di nascita e francese di lingua), non aveva potuto ritirare la posta né i quotidiani dei giorni precedenti, pur avendo acquistato, durante la trasferta, per scrupolo di informazione, il “Luxemburger Wort”, di cui aveva ripiegato le copie nella sua cartella, riproponendosi di depositarle scrupolosamente sulla pila riservata ai “quotidiani dei paesi minori, acquistati in occasione di missioni o di vacanze”.
Jean Casimir era molto coscienzioso nel suo lavoro e, spesso, per terminare in tempo una traduzione o per ricercare la documentazione necessaria a risolvere particolari difficoltà linguistiche, si recava in ufficio anche il sabato e la domenica, sebbene alcuni colleghi malevoli sostenessero che non ci andava per lavorare, ma per cercare , senza alcun successo, di mettere un po’ d’ordine nella sua sterminata foresta di carta, che gli stava inesorabilmente sfuggendo di mano.
Le carrozze del metrò erano quasi vuote e pochi erano anche i viaggiatori che si aggiravano nella stazione Schuman.
Jean Casimir uscì dalla stazione e si diresse a passi rapidi verso il Berlaymont, pregustando il piacere di poter finalmente lavorare in pace, senza essere interrotto ogni quarto d’ora da segretarie petulanti o da colleghi importuni. Lo spaventava soprattutto un collega spagnolo, grande erudito, che, conosciute le origini del nostro amico, tentava periodicamente di coinvolgerlo in lunghe discussioni su personaggi ed episodi più o meno noti della storia polacca.
Jean Casimir, che non aveva la minima idea dell’albero genealogico di Stanislao Leszczynski né del numero esatto di Cavalieri Teutonici caduti nella battaglia di Grünwald, soffriva sempre le pene dell’inferno e, disperato, aveva acquistato un ponderoso volume sulla storia della Spagna, che stava leggendo con grande attenzione nella speranza di trovarvi citato qualche aneddoto, assolutamente sconosciuto, con cui tentare di confondere, almeno una volta, il suo tormentatore.
Grazie al cielo, il sabato mattina anche gli spagnoli si godevano il week-end e la giornata si annunciava estremamente tranquilla.
Jean Casimir traversò il piazzale del Berlaymont, entrò nella bussola girevole che dava accesso all’immenso edificio e si diresse verso il punto di controllo, dove gli incaricati della sorveglianza esaminavano i documenti di chi voleva entrare. Consegnò il badge che attestava la sua qualità di funzionario della Commissione ai sorveglianti, che glielo avrebbero restituito al momento dell’uscita, e si avviò verso gli ascensori. Vide, con la coda dell’occhio, che il sorvegliante cui aveva consegnato il badge lo depositava sul tavolo accanto ad una ventina di altri tesserini. Il grande orologio piazzato sul muro indicava le ore 8 e 36 minuti. Chiamò un ascensore e salì al 13° piano, in cui si trovavano gli uffici della divisione francese di traduzione.
Gli ampi corridoi erano vuoti ed illuminati soltanto dalle luci di sicurezza, ma Jean Casimir avrebbe potuto compiere il percorso anche ad occhi chiusi.
Giunse alla porta del suo ufficio, girò la maniglia ed entrò, premette l’interruttore accanto alla porta per accendere la luce, poi svoltò a destra, piegò di nuovo a sinistra ed arrivò davanti alla scrivania. Premette il bottone accanto alla finestra per tirare su gli avvolgibili automatici, che aveva chiuso lasciando l’ufficio tre giorni prima, come era sua abitudine. Si sedette, sbottonò la giacca, accese il computer, digitò il password. Poi aprì la cartella, ne trasse fuori i giornali, che depositò con cura sulla scrivania, mise accanto i depliant, prese le buste delle lettere e cominciò ad aprirle.
Una delle buste recava l’indirizzo della banca presso la quale aveva il suo conto corrente stipendio. La aprì e vide con sorpresa che l’estratto conto mostrava un saldo negativo. Poiché gli sembrava di ricordare che, quando aveva effettuato l’operazione più recente, aveva controllato che la somma a disposizione gli consentisse di farlo senza andare in rosso, se ne stupì alquanto.
Jean Casimir non si fidava a tenere in casa i libretti bancari e gli estratti conto, perché il condominio in cui abitava era privo di portineria e lui non aveva mai ritenuto opportuno spendere cifre rilevanti per installare nel proprio appartamento un sistema d’allarme. Conservava quindi tutti i suoi documenti in un cassetto di un armadio dell’ufficio, sicuro che, grazie al perfetto servizio di sorveglianza degli edifici della Commissione, questa fosse la migliore soluzione che si potesse trovare. Per doverosa prudenza, portava comunque con sé la chiave del cassetto ogni volta che si assentava dalla sua stanza.
Si alzò dunque dalla scrivania e, costeggiando la finestra, si diresse verso l’armadio, che era addossato alla parete sinistra dell’ufficio, accanto al tavolino ed alle due poltroncine.
Quando si trovò sulla soglia del salottino una strana sensazione lo colpì all’ improvviso prima ancora che i suoi occhi potessero focalizzare un’immagine.
Poi vide qualcosa che gli sembrò completamente incongruo. Una ragazza vestita solo della biancheria intima era allungata su una delle poltroncine e lo fissava con sfrontatezza. Arrossendo dalla testa ai piedi, Jean Casimir volle alzare la voce, protestare per l’inaudita impertinenza, ma le parole gli morirono in gola.
La ragazza era immobile; gli occhi sbarrati; il volto livido; il collo segnato da una sottile linea bluastra. Era stata strangolata.
Capitolo II
VIOLONCELLO O CONTRABBASSO ?
Vera Zadonskaya aprì la porta dell’appartamento che condivideva da circa un anno con altre tre ragazze.
La Commissione aveva organizzato due anni prima una serie di concorsi per formare gli organici delle nuove divisioni linguistiche create in seguito all’adesione di numerosi paesi dell’Europa centrale ed orientale, e Vera, che abitava a Riga, aveva partecipato alle prove svoltesi nella sua città per traduttori di lingua lettone.
Aveva affrontato gli esami, consistenti in traduzioni nella propria lingua nazionale da almeno altre due lingue comunitarie, senza molte illusioni, visto il gran numero di candidati ed il divieto di consultare qualsiasi vocabolario, ma, con sua grande sorpresa, era stata selezionata ed invitata a sostenere un colloquio a Bruxelles. Doveva aver fatto una buona impressione sugli esaminatori, perché qualche tempo dopo era stata invitata a prendere servizio a Bruxelles come traduttrice in prova.
Sebbene lo stipendio non fosse da disprezzare, Vera, prudente ed abituata a fare economie, aveva preferito, almeno durante il periodo di prova, cercare una sistemazione che le consentisse di non spendere troppo e di non trovarsi del tutto sola in una città sconosciuta. Aveva quindi accolto con entusiasmo l’offerta di una collega ungherese, che aveva conosciuto alla mensa del Berlaymont, di occupare una stanza dell’appartamento che quest’ultima e due sue amiche avevano appena preso in affitto in Rue des Sablons.
Le quattro ragazze convivevano senza troppi problemi nell’appartamento ed avevano imparato a rispettare ciascuna la sfera di privacy delle altre.
Rientrando a casa la mattina del sabato, Vera sapeva dunque che nessuna delle colocatarie le avrebbe rivolto domande indiscrete.
Ma Vera si sentiva inquieta e a disagio. Ciò che l’aveva turbata era stato il comportamento di Alistair nella notte che avevano appena trascorso insieme. Nulla da ridire sul piano fisico e tecnico, che era stato, come al solito, più che soddisfacente.
Eppure Alistair le era apparso un po’ stanco e stranamente distratto, come preoccupato da qualche pensiero che non aveva voluto confidarle e che sembrava estraniarlo, renderlo mentalmente lontano ed assente.
Vera si ricordava bene come lo aveva conosciuto alcuni mesi prima. Essendo nata in una famiglia appassionata di musica ed avendo da bambina studiato il violino, anche se solo a livello amatoriale, aveva subito apprezzato a Bruxelles la vasta offerta di avvenimenti artistici e non mancava di assistere, quando poteva, a tutti i concerti che potessero offrirle emozioni musicali di buon livello.
Una sera aveva comprato un biglietto per un’esibizione al Théâtre de la Monnaye del Quintetto d’Archi di Berlino, che aveva in programma, fra l’altro, il Quintetto per archi in Do maggiore ed il Quintetto per archi e pianoforte in La maggiore “La Trota” di Schubert. Lo spettacolo era cominciato con l’esecuzione del Quintetto in Do maggiore, che Vera aveva notevolmente apprezzato.
Durante l’intervallo, mentre stava sorseggiando un succo di mela nel foyer, si era sentita interpellare in russo da un distinto signore sui quarantacinque anni , in doppiopetto azzurro, cravatta regimental, camicia di taglio perfetto ( Savile Row, se Vera fosse stata in grado di valutare questo dettaglio) che le si era parato improvvisamente dinanzi: “Zdrastvuitie. Kak nravilsia vas konzert? Ja Alistair Stevenson. Mui buili znakomui v ustinuih ekzamenih dlia latuiskih perevodcikih...“.
Vera si ricordò allora che la persona che le stava di fronte era uno dei membri della commissione esaminatrice che l’avevano giudicata all’orale del concorso e che proprio lui, dopo aver saputo che la candidata, pur avendo la nazionalità lettone, faceva parte della minoranza di lingua russa, aveva intavolato con lei una breve conversazione in russo, sebbene non si trattasse di una delle lingue richieste per il concorso.
Poiché, durante gli esami, Vera lo aveva sentito esprimersi in inglese con gli altri membri della commissione, cercò, per cortesia, di rispondergli in inglese, ma il suo interlocutore la bloccò subito: “Mi scusi, signorina, ma mi dispiace che la mia lingua, che è anche quella di Shakespeare, di Milton e di Keats, sia ignobilmente massacrata come succede quasi ogni volta che la parla uno straniero…o un americano.. Mi faccia piuttosto sentire la bella lingua russa che ascolto con piacere e che credo di parlare in modo più che decoroso”.
La conversazione continuò dunque in russo e Vera, per quanto all’inizio fosse rimasta alquanto perplessa, dovette ammettere che il suo interlocutore maneggiava il russo con una precisione ed un’eleganza molto maggiori di quelle che lei poteva vantare per il suo inglese.
Cominciarono così una discussione sul concerto della serata ed il suo nuovo conoscente le spiegò che, come suonatore dilettante ma appassionato di violoncello e come cultore di musica, non poteva approvare che il Quintetto d’Archi di Berlino avesse eseguito il Quintetto per archi in Do maggiore in una partitura per violoncello e contrabbasso, anziché in una partitura per due violoncelli, come previsto dallo stesso Schubert e che trovava ridicolo giustificare questa bravata spiegando, come faceva il programma distribuito agli spettatori, che occorreva correggere gli inevitabili stacchi ed i numerosi passaggi all’unisono, derivanti dall’impiego di due violoncelli. Come era possibile che un paio di musicanti presuntuosi osassero mettere in discussione le scelte del grande compositore viennese e ritoccare le sue partiture?
Vera non era stata in grado di contribuire alla conversazione con argomenti tecnici di pari livello, ma aveva grandemente ammirato l’erudizione musicale da cui scaturivano queste osservazioni.
Aveva così conosciuto, in queste curiose circostanze, Alistair Robert Stevenson, M.Phil.( Oxon.), sottotenente dei Blues and Royals (in congedo), socio ordinario del Boodle’s, del Cavalry and Guards Club e dell’Oxford and Cambridge Club, nonché, incidentalmente, capo della divisione inglese della traduzione presso la Commissione delle Comunità europee.
La conoscenza avviata nel foyer del teatro, aveva poi avuto modo di approfondirsi nel corso di un raffinato e costante, ma non insistente corteggiamento, che aveva permesso a Vera di apprezzare sempre di più le eccellenti e molteplici qualità del suo nuovo amico, sebbene, nella schiettezza del suo carattere slavo, avesse talora qualche difficoltà a comprendere i ragionamenti e lo humour tutti britannici di Alistair Robert Stevenson, M.Phil.
Alla fine, i rapporti di Vera con quello che ella chiamava ormai, romanticamente, “il mio ufficiale e gentiluomo” erano diventati sempre più intimi e non era raro che, uscendo da una rappresentazione teatrale o da un ristorante che per Alistair doveva essere rigorosamente “stellato”( per questo egli aveva già invitato Vera a trascorrere un paio di piacevoli weekend a Parigi, dove era più facile, a suo avviso, “mangiare correttamente”), finissero col trascorrere la notte insieme.
Anche il giorno precedente, avendo ciascuno dei due impegni differenti per la serata, avevano convenuto che si sarebbero ritrovati alle undici e mezzo di sera da Alistair, nel suo alloggio di Square Ambiorix.
In realtà, quando era scesa dal taxi in Square Ambiorix a mezzanotte meno dieci, Vera aveva suonato invano ripetutamente al citofono e si era ritrovata ad aspettare, sola, dinanzi al portone dell’elegante condominio, in una piazza deserta. Pur sentendosi in preda ad una spiacevole sensazione di insicurezza e di disagio, si era fatta forza ed aveva deciso di attendere ancora qualche minuto prima di telefonare alla centrale dei taxi perché le mandassero qualcuno per riportarla a casa. A mezzanotte in punto aveva visto giungere un taxi dal quale era sceso Alistair che sembrava profondamente immerso nei suoi pensieri e che, vedendola d’improvviso accanto alla porta, non era riuscito a reprimere un moto di sorpresa.
Vera gli aveva ricordato, con un’ironia un po’ forzata, che le sembrava che avessero un appuntamento, ed Alistair aveva biascicato in fretta qualche scusa sull’impossibilità di trovare rapidamente un taxi a tarda sera. L’aveva fatta salire e si era comportato, come sempre, da “ufficiale e gentiluomo”, ma a Vera non era sfuggito che “le coeur était ailleurs”.
Ora , mentre rientrava a casa, si domandava che cosa avesse potuto far ritardare ad un appuntamento un uomo come Alistair , il quale, quando i suoi amici mediterranei arrivavano al ristorante con l’abituale mezz’ora di ritardo, non mancava mai di osservare, impassibile ed inflessibile, che “la puntualità è la cortesia dei re”.
Capitolo III
LA TIGRE DI BUDAPEST
Mentre si stava preparando un caffè in cucina, Vera sentì girare la chiave nella toppa ed affacciatasi sul corridoio vide entrare, con una borsa in mano, Irina Lupescu.
Irina portava un paio di jeans sgualciti, un pullover grigio ed un paio di scarpe da ginnastica. Da tutto il suo abbigliamento traspariva un totale disinteresse per qualsiasi civetteria. Di media statura, carnagione scura, capelli corvini , quasi magra, non era brutta, ma era senza altro poco appariscente. Tuttavia gli occhi neri, mobilissimi dietro gli occhiali di montatura un po’antiquata, denotavano una viva intelligenza, confermata dal brillante curriculum vitae: studi di diritto a Bucarest, Collège d’Europe a Bruges, e, subito dopo, ottimo piazzamento nel concorso per un posto di amministratore nel servizio giuridico della Commissione e conseguente offerta di assunzione, che Irina aveva prontamente accettato.
Putroppo il suo fisico un po’acerbo non l’aiutava a far colpo sui ragazzi e le sue doti intellettuali, che Irina non si sforzava di nascondere, sembravano, per chissà quale paradosso, scoraggiare anche quelli che sarebbero stati disposti ad approfondire una prima superficiale conoscenza.
“Ciao” disse Irina, scorgendo Vera che si affacciava alla porta della cucina” Sono uscita a comprare latte, biscotti e yogurt, perché non c’era più niente per colazione.”
“Hai visto che la “tigre” è partita per Londra?” le domandò Vera, che aveva appena notato, sopra la tavola della cucina, un foglietto sul quale una mano nervosa aveva scarabocchiato: “Non ne posso più... vado a passare una settimana a Londra… da sola... Monika”.
“Ah...sì… sì, sì, lo prevedevo” osservò Irina “ M’ero accorta che non ce la faceva più a rimanere qui”.
“Il “povero Joaquín” deve aver passato veramente un brutto quarto d’ora ieri ” osservò fra di sé Vera, alla quale Monika aveva confidato ancora qualche giorno prima che contava di restare a Bruxelles durante il fine settimana con il suo quasi fidanzato.
“La tigre” era il soprannome affibiato dalle amiche a Monika Szegedy a causa delle scenate sempre più furiose che scoppiavano ogniqualvolta il “povero Joaquín” menzionava la “cara mammina”.
La “cara mammina” era l’unico difetto – ma grave – di Joaquín Ibarra Gonzalez, amministratore principale alla Direzione generale dell’Agricoltura, un quasi quarantenne bello, elegante, colto, raffinato, sensibile, per il quale Monika aveva perso la testa fin dal primo momento che lo aveva visto.
Monika aveva però dovuto rendersi conto assai presto che Joaquín, figlio unico, era telecomandato da una madre autoritaria, possessiva ed iperprotettiva, la quale, pur abitando a qualche migliaio di chilometri di distanza, sembrava dirigere sin nei minimi dettagli la vita del suo rampollo.
I prudenti tentativi di Monika per limitare questa ingombrante presenza erano naufragati contro un vero muro di gomma. Senza mai alzare la voce, con amabilità e comprensione, Joaquín le spiegava ogni volta che non avrebbe mai potuto rinunciare all’affetto incomparabile, alle amorose cure ed ai preziosi consigli di quell’essere straordinario che era la sua mamma. La pazienza di Monika si era presto esaurita e da tempo ormai, ogni nuova interferenza dell’ineffabile, lontana signora le faceva immediatamente perdere le staffe, con contorno di epiche scenate, che il “povero Joaquín” sopportava da vero stoico.
Recentemente, Vera aveva sentito dire che la “cara mammina” era addirittura venuta a trascorrere qualche giorno a Bruxelles per poter valutare di persona le scelte del suo figliuolo e ciò avrebbe potuto spiegare l’esasperazione di Monika e la sua “fuga” a Londra.
Irina raggiunse Vera in cucina, tirò fuori dalla borsa i suoi acquisti e si preparò una tazza di caffelatte.
Mentre stava sorseggiandolo, il suo portatile si mise a squillare. Irina lo portò all’orecchio e sentì la voce. Era quella di Nikos Papageorgios, un giovane avvocato greco, di statuaria bellezza (“è bello come il discobolo di Mirone”, diceva Irina, la più colta delle quattro ragazze), che era anche lui addetto al servizio giuridico della Commissione, e che Irina, dopo averlo conosciuto in ufficio ed aver preso con lui un paio di caffè al bar della Commissione, aveva avuto la malaugurata idea di invitare, qualche tempo prima, ad un pranzo amichevole in Rue des Sablons, nella speranza che le amiche le reggessero la candela.
“Yía su, Irina” fece Nikos, con voce concitata “ Per favore, dimmi dov`è? Non posso più vivere senza di lei…L’ho vista un attimo di lontano, in fondo al corridoio, ieri sera al Berlaymont, ma è scappata via in gran fretta. Avevo già cercato di parlarle al telefono, ma non aveva voluto sentirmi Dimmi dov’è? Non dirmi che è con lui… Se li trovo insieme, l’ammazzo…li ammazzo tutti i due”
“Vergognati, Nikos “ sibilò Irina “ Smettila di dire enormità. Se tu fossi un uomo come si deve non sbaveresti dietro ad una che ti ha sempre preso in giro solo perché ha un bel paio di tette e mostra le gambe a tutti. Non so dov`è e non mi interessa e ti faccio sapere che è inutile che tu mi importuni ancora, perché d’ora in poi non ti risponderò più”.
La mattinata non si annunciava però per nulla tranquilla, perché Irina aveva appena messo via il portatile quando suonò il citofono.
Questa volta fu Vera ad alzarsi, a sollevare la cornetta ed a domandare”: Chi è?”.
“ Ciao, Vera. Sono Giandomenico ” le rispose una voce chiara e squillante, che arrotondava il francese con un largo accento romagnolo. “ Potresti chiamarmi Malgorzata? Ci eravamo messi d’accordo ieri pomeriggio che sarei passato a prenderla stamattina per fare un po’ di jogging al Bois de la Cambre”.
“ Non l’ho vista stamattina” fece Vera “ Forse sta ancora dormendo. Aspetta che vado ad avvisarla”.
Si diresse verso la porta di una stanza e bussò prima delicatamente, poi più forte.
Nessuno rispose. Accostò l’orecchio alla porta e cercò di sentire se qualcuno si muovesse all’interno della stanza, ma non sentì alcun rumore. Provò a far girare la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Per puro scrupolo di coscienza diede un’occhiata al salotto, alle altre stanze, al bagno, ma non c’era nessuno.
Allora ritornò al citofono e disse a Giandomenico Scannabue che doveva cercare altrove.
Malgorzata Dombrowska non era in casa.
Capitolo IV
I VECCHIETTI ITALIANI
Il fragoroso applauso che seguì le ultime parole del conferenziere mostrò che il pubblico aveva compreso ed apprezzato la dotta dissertazione dell’illustre professore Raffaele Tremiterra, dell’Università di Napoli, sul tema: “Dalle stelle alle stalle. L’influenza del marinismo sulla poesia italiana del primo Seicento con particolare riferimento alle sue manifestazioni regionali”.
I presenti cominciarono ad alzarsi dalle sedie. Eleuterio Aragón Quiroga, si diresse sorridente verso un gruppetto di colleghi italiani, declamando con voce sonora “Sudate, o fochi, a preparar metalli”, ma, di fronte agli sguardi vaghi ed inespressivi che gli risposero, dubitò improvvisamente della possibilità di instaurare una feconda discussione sulla filiazione poetica dell’Achillini dal Cavalier Marino e fece un rapido dietro-front, continuando a recitare, ma in tono molto più dimesso, “ e voi, ferri vitali, itene pronti…”.
Aimone Belli Vicini superò, con passo elastico, il breve spazio che separava la terza fila di sedie dalla prima e si felicitò, in rapida successione, con l’ambasciatore Buttafuoco e gentile signora, con il console Tricerri e con l’addetta culturale, dott.ssa Roberta Piave, organizzatrice delle Giornate della cultura italiana a Bruxelles, non dimenticando di invitarli cordialmente tutti quanti alla riunione conviviale dell’Unione Nazionale Ufficiali in Congedo.
In pensione da un paio d’anni, Aimone Belli Vicini era stato eletto, l’autunno precedente, presidente della sezione locale del benemerito sodalizio e si sforzava abilmente di ritessere la trama dei rapporti con le autorità diplomatiche e consolari che erano stati per decenni a dir poco trascurati dal suo predecessore.
Stefano Branciforte di Lampugnano, membro della squadra italiana di fioretto alle olimpiadi di Berlino, combattente della seconda guerra mondiale, prigioniero in Russia, successivamente funzionario dell’ONU ed infine funzionario delle Comunità Europee a Bruxelles, aveva infatti coltivato la” fâcheuse habitude” di depositare ogni anno, il 3 novembre, di fronte alle tombe dei volontari italiani caduti sul fronte belga durante la prima guerra mondiale, un cuscinetto di fiori che recava al centro, in bella evidenza, una bandiera italiana ornata dello stemma sabaudo, mettendo così ogni volta in serio imbarazzo le autorità diplomatiche italiane che il giorno dopo si recavano sul luogo per portarvi l’omaggio ufficiale della Repubblica. Come se ciò non bastasse, aveva inoltre pubblicato, a proprie spese, un discutibilissimo libro di memorie in cui sosteneva, fra l’altro, di aver visto con i propri occhi Hitler salutare con un cenno della mano Jessie Owens dopo la famosa gara dei cento metri piani.
Ma tutto questo era acqua passata ed il lavoro di ritessitura stava procedendo a gonfie vele.
Soddisfatto di se stesso, Aimone Belli Vicini si avviò verso l’uscita della sala dove lo attendevano il generale a riposo Fernando Lucidi, già liaison officer presso la Nato, Elio de Gubernatis, consigliere giuridico principale nel Servizio giuridico della Commissione, ed Enrico Lo Cascio, direttore della sede di Bruxelles del Banco di Santo Spirito.
I quattro amici decisero di andarsi a bere una birra alla Chaloupe d’Or, sulla vicina Grand-Place.
“Pensate che cosa mi è successo” esordì Aimone Belli Vicini, quando furono entrati e si furono seduti ad un tavolo “ Sapete che con il qui presente Fernando, Vittorio Simone e Carlo Abati abbiamo l’abitudine di mangiare una volta la settimana alla pizzeria “Il Fuoco del Vesuvio”, dove fanno quella pizza così sottile e croccante che è una meraviglia. Ora, immaginatevi che, mercoledì scorso, sono arrivato all’appuntamento con qualche minuto di ritardo e, mentre entravo mi sono trovato alle spalle di due camerieri. Ebbene, indovinate che cosa l’uno stava dicendo all’altro : “Non dimenticarti di andare a prendere l’ordinazione di quei vecchietti italiani che vengono qui una volta la settimana”. Screanzati! Manigoldi!”.
“ Vecchietti, ma belli e lucidi” ridacchiò Lo Cascio, che aveva un’idea tutta personale delle battute di spirito.
Belli Vicini, che si teneva in forma con la pratica quotidiana del golf, prese la cosa come un complimento e sorrise compiaciuto. Il generale borbottò, sospettoso.
“È vero che la vecchiaia può rendere un po’confusi anche gli spiriti più brillanti. A questo proposito” intervenne de Gubernatis, che amava ricordare, ad ogni piè sospinto, episodi della sua ormai lunga e gloriosa carriera comunitaria “mi viene in mente che, quando tanti anni fa fui distaccato alla Corte di Giustizia di Lussemburgo, ebbi occasione di accompagnare la Corte in una visita ufficiale a Roma. Fummo ricevuti dal Presidente della Repubblica che ci manifestò il suo grande piacere nel rivedere i membri di quella Corte ‘che aveva visitato appena l’anno prima a Strasburgo’. Di fronte all’espressione un po’ perplessa degli ospiti, si rivolse allora al giudice italiano, che era stato senatore con lui in non so più quale legislatura, e gli domandò:” Non è così, caro collega? Ci siamo visti l’anno scorso a Strasburgo, non è vero?”.
“Mi sembra che fosse già un po’ confuso molto tempo prima, quando minacciò di accoppare con le proprie mani il povero Umberto .” borbottò Belli Vicini, nella cui mente si ridestava di tanto in tanto la fiamma dell’antica fede monarchica.
“Eccessi della passione politica” sorrise comprensivo de Gubernatis e proseguì “Ritornando in argomento, c’era un Commissario italiano qualche anno fa? come diavolo si chiamava? uno col “petit ‘de’”, come dicono i francesi.....”.
“Embé? Che ce ne importa? Erano pellucide le camicette della moglie, la quale era una gran bella donna, del resto” interloquì Lo Cascio, senz’altro motivo che quello di mostrare la sua conoscenza di un termine raro e ricercato. Belli Vicini sospettava che consultasse ogni giorno l’Oli-Devoto a caccia di parole inusitate.
Il generale cominciava a trovare un po’ irritanti queste variazioni sul tema della lucidità e tentò un diversivo.“A proposito di belle donne” osservò, rivolgendosi a de Gubernatis” ti ho visto da lontano, qualche sera fa, in Avenue Louise, verso l’ora di cena, in un compagnia di uno splendido esemplare… perfetta carrozzeria…tutti i dettagli al posto giusto, un po’ troppo giovane forse per la tua età non più verdissima, e lasciando da parte il fatto che tu mi risulti da lungo tempo felicemente sposato. Sembrava una svedese o una norvegese… ma no, le svedesi sono passate di moda…oggi vanno molto di più le bellezze dell’est, poteva essere una russa, una polacca . Le polacche hanno fama di grandi seduttrici dai tempi di Maria Walewska…”.
Elio de Gubernatis si fece andare di traverso il sorso di birra che stava bevendo, tossì affannosamente un paio di volte per riprendere fiato, poi disse, secco secco, al generale: “Ti sbagli, caro Lucidi. È tutta la settimana che mi trattengo fino a tardi in ufficio per terminare un lavoro urgente di estrema importanza e non potevo certamente trovarmi dove tu affermi di avermi scorto. Non dovevi davvero essere particolarmente lucido quando mi hai visto passeggiare in Avenue Louise.” ed il generale capì subito che quella non era una battuta di spirito.
Capitolo V
VENEZ SOUPER A SANS-SOUCI
Hans-Heinrich graf von Waldenburg accarezzò amorevolmente la fulva criniera del purosangue da cui era appena smontato, porse le redini allo stalliere e si avviò verso il bordo del maneggio, dove, appoggiata alla staccionata, lo attendeva una bella ragazza bionda.
“Il signor conte ha fatto una bella cavalcata? Il signor conte gradirebbe una leggera colazione?” gli domandò la ragazza, simulando un atteggiamento di esagerata deferenza.
Hans-Heinrich le sorrise amabilmente, pur provando nel suo intimo una leggera irritazione. Era vero – e lo ammetteva lui stesso senza la minima difficoltà - che l’Ancien Régime era finito da oltre due secoli in Francia (un po’ più tardi in Germania), e che i privilegi nobiliari erano stati aboliti dappertutto, ma ciò non impediva affatto che uno potesse sentirsi orgoglioso di discendere da un’antica e gloriosa famiglia, senza che ciò autorizzasse gli altri a prenderlo più o meno delicatamente per i fondelli.
Purtroppo questo sottile distinguo sembrava sfuggire completamente all’allegra natura di Ursula Schönhofen.
Hans-Heinrich ed Ursula si erano conosciuti alla Rappresentanza permanente della Repubblica federale presso le Comunità Europee, dove Hans-Heinrich era stato inviato dal Ministero degli Esteri in qualità di primo consigliere, mentre Ursula vi lavorava come segretaria.
Il carattere spontaneo ed estroverso della ragazza, la sua fresca bellezza avevano insensibilmente attratto Hans-Heinrich e, dopo qualche tempo, i due avevano cominciato ad uscire insieme. Certo, già la prima volta che l’aveva invitata a cena – ovviamente in un ristorante di un certo livello – Hans-Heinrich aveva notato che la ragazza si era presentata in tenuta casual, che scoppiava a ridere fragorosamente senza motivo e che si muoveva in continuazione . Aveva cercato con tatto e delicatezza di correggere questi difetti, ma Ursula si era messa a ridere e gli aveva risposto senza turbarsi affatto: “Se il signor conte non mi considera abbastanza distinta per uscire in sua compagnia, si ritenga autorizzato a darmi congedo”.
Hans-Heinrich, che continuava a trovarla particolarmente attraente, nonostante le sue evidenti manchevolezze in tema di galateo, aveva abbozzato e non era più ritornato sull’argomento.
I due si presero sottobraccio e si avviarono verso il caffè-ristorante adiacente al maneggio. Si sedettero ad uno dei tavoli, in stile falso rustico, ed ordinarono un’abbondante prima colazione.
“Per fortuna che so che tu sei un uomo ordinato e metodico e che non manchi mai la tua cavalcata mattutina “ esordì Ursula “ Altrimenti, non so come avrei fatto a trovarti. Ti ho cercato questa mattina telefonando al tuo appartamento e nessuno rispondeva. Ho provato con il tuo portatile, ma suonava a vuoto. Anche ieri sera, t’avrò telefonato dieci volte. Sono passata da te. Niente. Avevi intenzione di sparire durante il weekend?”
“ Sai bene che stacco il portatile quando non devo essere disturbato e che posso avere- se tu lo permetti- anche degli impegni di cui non posso informare chiunque” rispose Hans Heinrich in tono alquanto sostenuto.
“Posso chiedere umilmente al signor conte di Waldenburg, signore di Schweidnitz…” cominciò Ursula, riprendendo quel tono falsamente ossequioso che dava estremamente sui nervi ad Hans-Heinrich. Ursula aveva visto una volta l’albero genealogico della illustre e celebrata famiglia dei conti di Waldenburg, signori di Schweidnitz, baroni di Landeshut, cavalieri di Hirschberg e di Neurode, etc., che Hans-Heinrich aveva appeso alla parete del living nel suo appartamento del Quartier du Cinquantenaire e ne aveva preso lo spunto per frequenti scherzi, che Hans-Heinrich apprezzava molto moderatamente.
“Smettila con queste stupidaggini” la interruppe, visibilmente seccato “Te l’ho già detto che non mi piacciono”.
“Posso allora chiederti” riprese Ursula, questa volta con un tono di voce completamente diverso “ dov’eri e che cosa facevi ieri sera, mascalzone, farabutto, bugiardo e traditore ?”.
L’inaspettata violenza dell’attacco ed il repentino passaggio ad un ben diverso genere di titoli scombussolarono completamente il povero Hans-Heinrich che rimase per una decina di secondi senza parola.
“ Io..io…non so…non credo…non mi pare……e poi mi sembra che forse potrei anch’io domandarti dove…qualche volta ”.
“Io sono una donna libera e moderna, che non deve rendere conto a te di come passa il suo tempo.” lo interruppe brutalmente Ursula “ E poi, sono io che ho dei forti sospetti e che ho il diritto di esigere che tu ti giustifichi”.
Hans Heinrich si domandò, nel suo foro interno, se questi argomenti non si contraddicessero a vicenda, ma stimò conveniente non sollevare obiezioni.
Scelse una linea di difesa più blanda e domandò, con la candida voce di un innocente ingiustamente sospettato: “ Che ragioni hai di credere che io possa averti tradito ? Hai un minimo indizio, un qualsiasi elemento che possa farti pensare una cosa del genere?”.
“ Non credere che non mi sia accorta di quella ragazza che da qualche settimana ha cominciato a frequentare gli uffici della rappresentanza. Agli inizi veniva una volta ogni quindici giorni, ma negli ultimi tempi le visite sono diventate più frequenti, una volta ogni tre o quattro giorni. La vedevo passare per il corridoio, a fianco del mio ufficio – sai che le porte della segretaria sono sempre aperte – e mi chiedevo dove andasse. Qualche giorno fa , per curiosità, sono uscita subito dopo che era passata ed ho visto che alla fine del corridoio svoltava a destra. Dal lato destro ci sono solo tre uffici: quello di Ulrich, quello di Annelore ed il tuo. Avevo da portare un documento ad Ulrich. Ci sono andata subito. Stava lavorando al computer. Sono andata da Annelore per invitarla a prendere insieme un caffè, come faccio spesso: si è alzata ed è venuta con me. Che cosa dovevo dedurne?
Ieri pomeriggio, quando m’hai detto che la sera, dopo l’orario di lavoro, saresti andato nell’ufficio che le Comunità mettono a nostra disposizione al Berlaymont perché dovevi parlare con un paio di alti funzionari, mi è venuto un sospetto ed ho deciso di seguirti discretamente. Tu non ti sei accorto di me, ma io t’ho visto incontrare quella ragazza al Berlaymont. Poi, siete spariti tutti e due e non sono più riuscita a ritrovarvi. Ho provato a telefonarti. Non rispondevi. Ho riprovato per più d’un ora, senza risultato. Sono corsa a casa tua ed ho bussato. Nessuno mi ha aperto. Spiegami tu dov’eri e che cosa stavi facendo”.
“Che ne diresti di andare a pranzare al Sans-Souci? La selle de chevreuil au coulis d’airelles che si mangia là è veramente deliziosa. Ma…certo... ma certo, se preferisci andare a far compere nelle boutique dell’Avenue Louise, sarò felice… molto felice di accompagnarti . Al Sans-Souci potremo andare per cena questa sera. “Venez souper à Sans-Souci”, come diceva il vecchio Fritz .” propose, con un magro sorriso, Hans-Heinrich, che non aveva trovato altre vie di scampo.
Capitolo VI
SVOLGE CON ZELO TUTTI I COMPITI CHE GLI SONO AFFIDATI
Adalberto Lopez Garrido sollevò lo sguardo dai fascicoli ammucchiati sulla scrivania e, alzatosi dalla sedia, fece qualche passo verso le ampie finestre che davano sul giardino della sua bella villa di Tervuren.
Aveva un gran bisogno di sgranchirsi le gambe e di riposare un attimo la testa.
Il suo primo comandamento era sempre stato quello di non portarsi mai il lavoro a casa.
Riteneva infatti, con piena ragione, che la necessità di rimanere in ufficio oltre l’orario di servizio o peggio ancora di smaltire una parte del lavoro a casa propria potesse derivare da due sole cause: incapacità del funzionario di organizzare razionalmente il proprio lavoro o incapacità dei superiori di pianificare correttamente l’attività del loro ufficio. Grazie al cielo, era sempre stato capace di gestire ottimamente il proprio tempo, e, quanto al resto, aveva sempre pensato che non toccasse a lui sopperire, con il proprio sacrificio, alle carenze ed alla stupidità degli altri. Aveva quindi accuratamente evitato, fin dall’inizio della sua carriera presso le Comunità, di fare degli straordinari o di rinunciare ad una parte delle ferie per concludere in fretta lavori cosiddetti urgenti ed aveva constatato, con soddisfazione, che ben presto nessuno aveva più tentato di affibbiargli noiose ed inutili corvées con il pretesto dell’urgenza o con altre fantasiose motivazioni.
Neppure la nomina a Direttore della traduzione, ottenuta qualche anno prima, lo aveva fatto deflettere da questa ben meditata linea di condotta. I suoi capidivisione si contendevano con accanimento l’onore di essere designati a rimpiazzarlo durante il periodo delle vacanze, che egli sfruttava fino all’ultimo giorno utile, ed al suo ritorno egli poteva sempre osservare che, come era prevedibile, durante le vacanze, non era successo assolutamente nulla.
Lo stesso valeva per gli straordinari, che, fra l’altro, per i funzionari del quadro direttivo non erano neppure retribuiti. La lunga esperienza di Adalberto gli aveva dimostrato che, almeno nel settore della traduzione ( per giusta prudenza egli non voleva avventurarsi, in altri settori che non conosceva bene, a formulare giudizi che potessero risultare avventati) non c’era mai nessun problema così grave da non poter aspettare dalle sei di sera alle nove del mattino successivo o anche dal venerdì sera al lunedì mattina.
Ed adesso, alla Commissione, avevano avuto quell’infelicissima idea di rendere annuale la compilazione dei rapporti informativi che, fino a quattro anni prima, dovevano essere redatti ogni due anni. È vero che contemporaneamente i direttori erano stati esonerati dalle funzioni di secondi notatori dei funzionari della loro direzione e si limitavano ormai a pronunciarsi, in appello, sui reclami presentati contro le valutazioni formulate dai capidivisione, ma un direttore doveva comunque redigere direttamente i rapporti concernenti i suoi capidivisione ed il personale del suo segretariato, e, nel caso della traduzione, la presenza di una divisione per ogni lingua ufficiale, significava la necessità di redigere almeno una quarantina di rapporti. E l’amministrazione, per motivi incomprensibili, aveva fissato un termine perentorio per la compilazione e la consegna dei rapporti.
Adalberto spostò la tendina di una delle finestre e guardò in basso i bambini che giocavano sul prato all’inglese. Poi si voltò e percorse attentamente le stampe che ornavano le pareti. Era stato, fin da giovane, un appassionato delle stampe giapponesi, che lo affascinavano per l’eleganza delle linee, la vivacità dei colori, l’audacia della composizione. Aveva cominciato, molti anni prima, a fare qualche piccolo acquisto, con modesti “bids” inviati per posta alle aste di Sotheby’s e di Christie’s e, poi, col progredire della carriera e la maggiore disponibilità di mezzi, si era permesso acquisizioni un po’più importanti nelle boutiques specializzate del Quai Voltaire e di Kensington, pur mantenendosi nel limite di cifre ampiamente ragionevoli.
D’altra parte, la moderazione era assolutamente necessaria, se si considerava che la famosa “Grande Onda” di Hokusai veniva battuta, quando per miracolo un esemplare autentico ed in ottimo stato di conservazione compariva sul mercato (di falsi ottenuti con le più diverse tecniche ce n’erano a bizzeffe, ma questo era un altro discorso), a prezzi non troppo lontani da quello che egli aveva dovuto sborsare per la sua magnifica villa di Tervuren.
Ammirò, con legittimo piacere, un “oban” di Harunobu, in cui una leggiadra fanciulla dai lineamenti delicati sedeva dinanzi ad una cascata. Purtroppo la stampa era stata sbiadita dal tempo e dei colori un tempo vivacissimi rimaneva solo qualche traccia.
Spostò poi gli occhi su alcune vedute della serie “Le sessanta e più province” di Hiroshige: montagne, baie, fiumi, boschi, villaggi, a fianco dei quali, al di sopra, al di sotto, in prossimità, in lontananza, compariva sempre, come un marchio di fabbrica, l’inconfondibile sagoma del Fuji. Accanto alla porta, sul lato destro, faceva bella mostra di sé un”hashira-e” di Utamaro. Sul lungo rettangolo di carta, che un tempo i Giapponesi appendevano alle colonnine delle loro minuscole stanze, il maestro aveva raffigurato, con arte suprema, i due infelici amanti che avevano trovato nel comune suicidio l’unico modo di perpetuare il loro amore. Più in là, due piccole stampe di Toshikata, carine, anche se di poco valore. Adalberto era orgoglioso di averle scoperte rovistando su una bancarella al mercato del Sablon e di essere riuscito ad identificarle da solo. Lo stile delle stampe gli aveva infatti ricordato la mano di un allievo di Kuniyoshi, Yoshitoshi , del quale aveva ammirato qualche mese prima al “Salon de l’Estampe”, che si era tenuto al Grand Palais di Parigi, la serie intitolata” I cento volti della luna”. Cercando su Google tutte le voci che facevano riferimento a Yoshitoshi, era infine capitato su un sito che menzionava alcuni allievi di quest'ultimo e le loro opere, tra cui figuravano anche le stampe della serie “ Selezione di trentasei bellezze “ disegnate da Toshikata tra il 1886 ed il 1900.
Il pensiero del lavoro da svolgere ridestò Adalberto dalle sue fantasticherie. Se almeno avesse potuto cavarsela con la faccia tosta con cui aveva risolto il problema il suo predecessore, un anziano svedese, che era stato chiamato dal settore privato, in fine carriera, per apportare al settore pubblico le indispensabili conoscenze manageriali, di cui era diventato di moda sentire crudelmente la mancanza. Bisognava riconoscere che lo svedese era stato aiutato dal fatto che a quell’epoca i rapporti informativi erano ancora biennali. Quando, qualche mese dopo il suo arrivo, gli era stato chiesto di compilare i rapporti informativi aveva convocato i capidivisione ed aveva detto loro che non si sentiva in grado, dopo un così breve periodo di osservazione, di formulare giudizi motivati ed obiettivi sui suoi collaboratori. Si sarebbe quindi limitato, se i colleghi erano d’accordo, a confermare i giudizi del direttore precedente, che aveva avuto modo, durante numerosi anni, di conoscere a fondo i pregi ed i difetti dei propri collaboratori.
Trascorsi due anni, aveva riconvocato i capidivisione ed aveva fatto loro presente che, se avesse dovuto compilare dei nuovi rapporti informativi, avrebbe certamente dovuto rivedere al ribasso i giudizi formulati su molti di loro. Forse, la cosa più vantaggiosa per tutti sarebbe stata che lui si limitasse a ricopiare i rapporti già esistenti. Quelli che avevano la coda di paglia avevano trovato la soluzione molto conveniente, quelli i cui rapporti erano già migliori della media non avevano ritenuto utile irritare il direttore.
Trascorsi ancora altri due anni, lo svedese si era ammalato qualche mese prima di compiere i fatidici 65 anni ed era passato tranquillamente dalla malattia alla pensione senza avere bisogno di compilare i rapporti informativi dei suoi collaboratori.
Adalberto sospirò e pensò che a lui, invece, toccava non solo di compilare i rapporti ogni anno, ma anche di dover meditare a lungo su ogni singolo rapporto. I colleghi si ostinavano infatti ad esigere giudizi ampiamente e dettagliatamente motivati, pronti a contestare aspramente ogni dettaglio che ritenessero insoddisfacente.
Adalberto aveva provato vanamente ad affrontare il problema con il capodivisione portoghese Eusebio Soares Figueiredo, con cui era particolarmente in confidenza, poiché erano entrati entrambi al servizio della Commissione nello stesso periodo ed avevano compiuto insieme le prime esperienze di lavoro.
“Perché vi ostinate ad esigere valutazioni analitiche e dettagliate e spaccate il capello in quattro per ogni singola parola” gli aveva domandato” quando sapete benissimo che i rapporti informativi non servono a nulla, e meno che mai agli avanzamenti di carriera? Non sarebbe tanto di guadagnato per me e per voi, se ce la cavassimo con due parole ed avessimo maggior tempo da dedicare alle cose veramente utili ?”.
“Lo so benissimo, caro Adalberto, che i rapporti informativi non servono a nulla” gli aveva risposto Eusebio che, nonostante il suo carattere mansueto, non aveva dimenticato come, pochi anni prima, Adalberto lo avesse brillantemente “outmaneuvered” nella campagna per la nomina a direttore, nel corso della quale più che i rapporti informativi avevano certamente contato le pubbliche relazioni e le affinità politiche. “ O più esattamente, non servono per ottenere una promozione, ma, come tu ben sai, possono servire perfettamente per non fartela avere. Se qualcuno non ti vuole bene, basta che tiri fuori il tuo rapporto informativo e che ne estragga una piccola frase anodina, che, ben interpretata, può diventare micidiale. E`per questo che siamo costretti a lottare su ogni singola parola. Prendi, per esempio, una frase come questa: “Cura moltissimo lo stile e l’eleganza delle traduzioni”. Uno sprovveduto potrebbe pensare che si tratti di un elogio, quando noi tutti sappiamo bene che ciò significa che il lavoro è carente nel merito. “Si concentra nel suo lavoro”: tipo introverso, scorbutico, negato per le relazioni sociali, inadatto a svolgere compiti di responsabilità. “Allegro, socievole, estremamente interessato alle relazioni con i colleghi”: superficiale, dispersivo, incapace di impegnarsi seriamente nella sua attività. “Svolge con zelo tutti i compiti che gli sono affidati”: ottuso burocrate privo di qualsiasi spirito di iniziativa, incapace di raccogliere una biro da terra se non riceve un preciso ordine, assolutamente negato per una funzione direttiva.”.
Adalberto non aveva potuto che convenire ed aveva capito che, anche questa volta, i rapporti informativi gli avrebbero fatto sudar sangue.
Grazie al cielo, aveva ormai terminato la parte più dura del lavoro, la redazione dei rapporti concernenti i capidivisione ed il personale del segretariato, e gli rimaneva soltanto da esaminare, in qualità di notatore d’appello, una decina di reclami presentati da traduttori contro le valutazioni dei rispettivi capidivisione.
Si risedette, con un sospiro, alla scrivania ma, quando estrasse dalla apposita cartelletta, il primo fascicolo, non potè fare a meno di sorridere.”Ah, il nostro caro Eleuterio. Riuscirà mai a capire come funziona la vita?”
Diede prima una rapida scorsa al rapporto del capodivisione che si concludeva con una sintesi di tacitiana concisione: “Erudizione enciclopedica fine a se stessa”, poi sfogliò ancor più rapidamente una pagina o due del voluminoso reclamo in cui Eleuterio Aragón Quiroga spaziava dalla Bibbia al Quinto Emendamento, senza dimenticare né la Magna Charta né l’Habeas Corpus, né Grozio né Triboniano, né Socrate né Bacone di Verulamio, per dimostrare di aver subito un torto che andava contro ogni giustizia umana e divina. Riprese in mano il rapporto e scrisse, senza esitazioni, nell’apposita casella: “Confermo il giudizio”.
Prese in mano un secondo reclamo ed assunse immediatamente un’espressione accigliata. Il reclamo proveniva dalla divisione polacca.
CAPITOLO VII
LA BOBONNE
Era evidente che René Paleron, Direttore generale delle infrastrutture e della traduzione, aveva passato una nottataccia. Chi lo avesse visto alle otto di quel sabato mattina nello studio del suo spazioso ed elegante appartamento della Avenue Louise avrebbe stentato a riconoscere in quell’uomo dallo sguardo agitato, che fumava freneticamente una sigaretta dopo l’altra, “le beau René”, famoso tra i suoi colleghi per la sua ricercatezza parigina e per la sua fama di “tombeur de femmes”.
Gli occhi cerchiati, i capelli in disordine, i piedi infilati a metà nelle pantofole, la vestaglia dalla quale sporgeva incongruamente il colletto del pigiama, i fogli pieni di cancellature sparsi sulla scrivania, il portacenere pieno di lunghi mozziconi dimostravano, al di là di ogni dubbio, che René Paleron aveva dormito ben poco quella notte.
Per sua fortuna – se fortuna poteva chiamarsi – lui e “Bobonne” facevano da tempo camere separate ed avevano regolato minuziosamente tutti i dettagli della “vita da estranei” che conducevano nell’enorme appartamento, riservandosi ciascuno un certo numero di stanze e riducendo al minimo necessario le occasioni di contatto, e di scontro. Questa soluzione era stata evidentemente agevolata dal fatto che l’appartamento disponeva di doppi servizi e dalla circostanza che “le beau René” aveva raramente occasione di servirsi della cucina, occupato com’era dalle colazioni di lavoro a mezzogiorno e, la sera, dalle cenette romantiche a cui aveva ormai partecipato quasi tutto il personale femminile della sua Direzione - e delle altre - al di sotto dell’età canonica.
Del resto, “Bobonne” era partita per il weekend senza nemmeno dirgli dove andasse.
A René era comunque perfettamente indifferente che fosse andata a trovare l’anziana mamma, a fare una gita con un paio di amiche o addirittura a spassarsela con un uomo, sebbene René fosse sinceramente portato ad escludere che qualsiasi uomo sano di corpo e di mente potesse sopportare per più di dieci minuti il carattere viperino della sua dolce metà.
Si raddrizzò sulla sedia e prese con mano esitante un foglio coperto di una fitta scrittura con rare cancellature – evidentemente l’ultima versione di una lettera, di cui una decina di bozze abortite coprivano la scrivania -, inforcò gli occhiali – che si guardava bene dal portare in pubblico – e cominciò a leggere a bassa voce, come se fosse poco convinto che questa potesse essere veramente la versione definitiva:
“Signor Pavo Pekkonen,
Commissario alle infrastrutture ed al personale
Palazzo Berlaymont”
Va bene così...con questi nordici è meglio evitare titoli e salamelecchi che rischiano di infastidirli. Continuiamo con semplicità….
“Signor Commissario,
Mi permetto, anche se non è mia abitudine, di disturbarLa per iscritto…….”
Non sarebbe stato meglio chiedergli un colloquio? Una telefonata, no. Cose di questo genere non si possono affrontare per telefono, sarebbe una follia, Ma anche un colloquio potrebbe essere rischioso. Il suo capo di gabinetto è un amico di quell’altro e, se si son messi d’accordo, farà di tutto per mettermi in cattiva luce prima ancora che io sia riuscito a parlare con Pekkonen. No, la cosa più prudente è scrivergli dall’esterno, una lettera personale…non riusciranno ad intercettarla ed almeno potrà leggere per prima cosa la mia versione dei fatti.
“...per sottoporLe un caso molto delicato che mi riguarda personalmente e di cui, per comprensibili ragioni, desidero che Lei solo venga per ora a conoscenza…”
Così gli spiego per quali ragioni non gli ho telefonato o chiesto ufficialmente un colloquio. Vediamo come vado avanti.
“…L’urgenza della questione, di cui anche Lei non potrà che convenire dopo essere stato informato dei fatti, mi obbliga a compiere questo passo non pienamente conforme alle procedure consolidate…”
Ecco, adesso devo venire subito al sodo. Il preambolo è già troppo sbrodolato. Questi politici si stancano subito di leggere e non prestano attenzione che alle prime righe, giusto per farsi un’idea. Se un testo non dice tutto nelle prime tre o quattro frasi, lo passano agli assistenti perché gliene facciano un riassunto di dieci righe. Ma se non legge la mia lettera, sono fregato.
Chissà che riassunto gli faranno. Incomprensibile nel migliore dei casi, se non deliberatamente stravolto, proprio per farmi fuori. Devo essere sintetico… sintetico, conciso, essenziale… altrimenti sono fritto
“…Ero rimasto venerdì sera fino a tarda ora nel mio ufficio per completare una pratica urgente…”
Non posso dilungarmi, altrimenti perde la pazienza. Speriamo che basti.
“…quando la porta del mio ufficio si aprì di scatto ed entrò una persona che non conoscevo, una donna…”
Non posso mettermi a spiegare che era certamente una funzionaria, perché solo i funzionari possono avere accesso agli uffici, su presentazione del badge, anche dopo l’orario di lavoro – dovrebbe capirlo da solo – e non posso neanche dire che era una ragazza giovane ed appariscente, perché, con la mia fama, gli sembrerebbe subito impossibile che non la conoscessi.
“…Questa persona cominciò a dirmi, in tono alterato, che doveva rivolgersi a me per ottenere riparazione di un gravissimo torto che le stavano facendo i suoi superiori.
Le risposi seccamente che non era né il luogo né il momento per un reclamo e la pregai di uscire subito…”
Fin qui sono riuscito a dare una rappresentazione il più possibile neutra dei fatti, cerchiamo di continuare su questa linea…
“... La donna cominciò ad urlare, si scompigliò i capelli con le mani e fece per sbottonarsi il primo bottone della camicetta. Capii subito dove stava andando a parare, la afferrai per un braccio e la spinsi verso la porta, intenzionato a chiamare subito l’ascensore, che si ferma proprio davanti al mio ufficio, e ad accompagnarla immediatamente dagli uscieri. Nel momento stesso, in cui aprivo la porta, mi trovai di fronte, nel corridoio, il Direttore della traduzione, signor Adalberto Lopez Garrido.
“Che cosa fa Lei qui?” gli chiesi stupito…”
Forse qui, potrei aggiungere che la mia domanda era giustificata dal fatto ben noto che il signor Lopez non fa mai gli straordinari e che la sua presenza a quell’ora, in quel luogo, non poteva assolutamente essere casuale. Ma, se sottolineo questo punto, qualcuno potrebbe domandarsi se anch’io ho veramente l’abitudine di rimanere in ufficio tutte le sere fino a tarda ora. Meglio non insistere.
“...”Che cosa sta facendo Lei?” replicò lui ed aggiunse: “Venga, signorina, che La accompagno subito dagli uscieri”. Solo mentre si allontanavano, mi resi conto che la donna era quella bionda vistosa che, nel pomeriggio, avevo intravisto di lontano alla “caffetteria”, mentre, seduta ad un tavolino, parlava fitto fitto proprio con il signor Lopez Garrido e capii subito tutto…”
Ecco, non ho bisogno di spiegarglielo, se è una persona sveglia, e come politico non può non esserlo, è stato sindacalista, deputato e deputato europeo prima di essere nominato membro della Commissione, non avrà dubbi su che cosa intendo dire.
Ed ora una conclusione rapida ed essenziale, che lo predisponga favorevolmente nei miei confronti.
“…È per questo motivo che Le scrivo Signor Commissario, perché, quando Le sarà presentata, come certamente avverrà, una denuncia con cui sarò accusato delle peggiori nefandezze, Lei sappia già qual è la semplice, disadorna realtà.
Voglia gradire , Signor Commissario, i sensi della mia più profonda considerazione.
Suo dev.mo
René Paleron”.
Era sudato quando finì di leggere la lettera, ma gli sembrò che meglio di così non avrebbe potuto fare, anche se si fosse ancora arrabattato tutta la mattinata a cercare di perfezionarla, di risultare più convincente, di mettere più efficacemente in luce la perfidia dell’altro, di quell’altro che si era allontanato con la donna e che la conosceva bene…non c’erano dubbi al riguardo.
Era questo il punto cruciale…convincere chi sarebbe stato chiamato a pronunciarsi sulla vicenda che i due si conoscevano bene… molto bene e che se ne erano andati insieme
Se ci fosse riuscito, poteva sperare di uscirne fuori.
Capitolo VIII
SUL FONDO TUTTO VA BENE
Il commissario capo Damien Van Kampenhout si svegliò e si sentì subito invadere da una indefinibile sensazione: un cocktail di insoddisfazione, di frustrazione, di irritazione e di amarezza. A tutta prima, ancora un po’ assonnato, non riuscì a capire di che cosa trattasse, ma, ben presto, mentre la mente si faceva più lucida, percepì chiaramente che questa sensazione era collegata allo strano episodio che gli era accaduto il giorno prima al ricevimento nella “cantine” di Palazzo Berlaymont.
Il commissario Van Kampenhout era uno dei responsabili del commissariato del Quartier Léopold, competente per il mantenimento dell’ordine nella zona dove sorgevano gli edifici delle istituzioni comunitarie, ed in tale qualità aveva spesso occasione di incontrarsi con i responsabili della sicurezza del Berlaymont. Uno di costoro, con cui era stato a lungo in contatto, aveva festeggiato proprio il venerdì pomeriggio il suo prossimo pensionamento, invitando i colleghi del servizio, gli amici ed alcuni conoscenti, fra cui un paio di funzionari del commissariato di polizia, ad un rinfresco nei locali della “cantine”.
Van Kampenout aveva accettato volentieri, nello spirito del mantenimento di buoni rapporti con persone che era portato spesso a frequentare, e si era ritrovato in mezzo ad una folla di funzionari comunitari, di cui alcuni gli erano più o meno noti, ma i più gli erano del tutto sconosciuti.
Ad un certo punto, senza sapere come, era stato presentato ad una signora , che aveva subito cominciato a raccontargli , con abbondanza di particolari, tutti gli avvenimenti della sua vita. Il conoscente che aveva fatto le presentazioni, senza precisare né la nazionalità né la professione di colui che si trovava insieme a lui, era poi stato chiamato in disparte da un altro amico ed aveva lasciato il povero Van Kampenout in compagnia della scatenata signora che gli aveva spiegato, in un profluvio ininterrotto di parole, di essere danese, di aver sposato un diplomatico italiano, di aver avuto parecchi figli, di aver accompagnato il marito prima negli Stati Uniti, dove aveva risieduto per alcuni anni per ragioni di lavoro, e poi in Germania, di essersi infine stabilita a Bruxelles, dove il marito era stato assegnato alla Rappresentanza permanente dell'Italia presso le Comunità.
Purtroppo il francese della signora che, a causa delle sue vicende familiari e dei suoi numerosi spostamenti in paesi diversi si era abituata a praticare molte lingue, senza mai avere la possibilità di approfondirne a dovere nessuna, era una strana lingua franca, che del francese aveva l’apparenza, ma non ne aveva, se non in misura abbastanza limitata, il lessico e la struttura grammaticale, nei quali si avvertiva pesantemente l’influenza delle più svariate favelle. Il suo modo di parlare aveva fatto ricordare a Van Kampenout un libretto che gli era stato mostrato qualche tempo prima da un amico della Commissione, opera di un certo Diego Marani, il quale s’era divertito a scrivere un sedicente romanzetto poliziesco, ambientato negli uffici della Commissione, i cui personaggi parlavano una lingua di questo tipo, portata all’eccesso con spettacolari effetti di comicità.
Nel caso di specie, l’effetto era piuttosto quello di rendere difficile la comprensione di quello che la signora stava dicendo ed il commissario Van Kampenout, dopo aver ascoltato per qualche minuto con un notevole sforzo d’attenzione, s’era inconsapevolmente distratto ed aveva cominciato a seguire il corso dei propri pensieri, dimenticando per un attimo la complicata storia che stava faticosamente ascoltando.
Per sua disgrazia, la signora si era presto accorta dall’espressione un po’assente del suo volto che Van Kampenout non sembrava seguire perfettamente la conversazione.
Van Kampenout aveva visto un’ombra di dubbio passare sul viso della donna ed un attimo dopo si era sentito rivolgere una domanda inaspettata: “Mi scusi, signore, ma lei è belga ?”.
Colto assolutamente di sorpresa ed un po’ sconcertato, non era stato in grado di decidere istantaneamente se la domanda fosse innocente o non lo fosse affatto, e, per risolvere la questione sullo scherzoso, facendo però capire alla signora che avrebbe dovuto prestare un po’ più d’attenzione al proprio modo di esprimersi, le aveva risposto sorridendo: “Sì, signora, sono belga, ma mi sto curando”.
La signora aveva assunto l’aria dispiaciuta di chi si accorge improvvisamente di aver fatto una gaffe ed aveva mormorato: “Non se la prenda, signore, sul fondo i belgi non sono poi così sempliciotti come molti dicono”.
Van Kampenout ne era rimasto raggelato. A questo punto gli era ormai impossibile stabilire se la donna fosse semplicemente vittima di sei lingue parlate tutte insieme e tutte con qualche incertezza o se gli stesse invece rifilando, con falso candore e sottile perfidia, l’odiosa barzelletta sui belgi ed il fondo delle piscine. Non aveva più saputo che cosa fare.
Una scenata in una circostanza come quella era qualcosa che elementari ragioni di diplomazia sconsigliavano nel modo più assoluto. Aveva cominciato a domandarsi freneticamente come avesse potuto cacciarsi in una situazione simile. Era lui che aveva frainteso il senso della prima domanda e che aveva provocato la donna con una risposta fuori luogo, inducendola a replicare con una malvagità? Oppure, era la donna, che aveva deciso fin dall’inizio di prenderlo in giro, come questi snob internazionali si divertivano spesso a fare con “quei provincialotti” dei belgi? Oppure, ancora, anche se la cosa gli sembrava un po’inverosimile, la donna aveva agito nella più perfetta buona fede infilando due gaffe madornali, l’una dopo l’altra, in piena innocenza?
Il commissario, che sentiva crescere rapidamente dentro di sé il disagio e l’irritazione, si era reso conto che qualsiasi tentativo di chiarire la questione avrebbe rischiato di farlo cadere nel ridicolo ed avanzando il pretesto di un urgente impegno di lavoro, aveva salutato la signora e si era allontanato in gran fretta.
Adesso, ripensando al fatto, se ne sentiva ancora avvilito ed amareggiato, pur rendendosi conto che non avrebbe comunque potuto comportarsi in modo diverso, e considerava quanto fosse difficile riuscire a mantenere un atteggiamento corretto ed obiettivo nei rapporti con interlocutori imprevedibili come erano spesso i comunitari.
Entrò in bagno ed avvicinatosi al lavandino bagnò il pennello nell’acqua del rubinetto, vi spruzzò sopra la schiuma da barba ed incominciò a cospargersi il volto di schiuma.
Era tutto concentrato in questa operazione, quando sentì suonare il telefono e si ricordò che, nell’ambito dei turni stabiliti fra i colleghi, per coprire i weekend, il sabato era il suo giorno di disponibilità.
Infatti, era l’agente Durand che lo pregava di andare subito in commissariato perché avevano trovato una ragazza morta in un ufficio del Berlaymont.
Van Kampenhout capì che i comunitari gli avrebbero rovinato non soltanto il venerdì, ma anche il sabato. Si preparò in fretta, uscì, prese la macchina e si recò in commissariato, dove l’agente Durand gli diede le prime notizie. Qualche minuto dopo si recò al Berlaymont, dove lo aspettava, in grande agitazione, il responsabile della sicurezza interna.
“Allora, come la mettiamo con l’immunità?”gli chiese scherzando Van Kampenout, per sdrammatizzare un po’.
“Nessun problema, nessun problema, signor commissario “ rispose con voce affannata il responsabile della sicurezza “ `È da un’ora che stiamo telefonando da tutte le parti. Lei lo sa bene, il sabato è un miracolo se si riesce a contattare qualcuno. Per un vero colpo di fortuna una decina di minuti fa siamo riusciti a parlare con il Direttore del Personale, il quale, grazie al cielo, ha il numero di cellulare del Commissario al personale. Ci ha appena telefonato per dirci che il Commissario autorizza la polizia belga ad entrare nel Berlaymont, ad interrogare i funzionari ed a chiedere che le siano presentati tutti i documenti che riterrà opportuno. Per facilitare le cose a tutti, mette a sua disposizione un ufficio nel quale lei potrà installarsi e raccogliere le eventuali testimonianze, senza bisogno che gli interessati si rechino in commissariato.
Naturalmente, appena scoperto la ragazza morta, abbiamo messo un paio di sorveglianti davanti alla porta dell’ufficio in cui è stato rinvenuto il cadavere, per impedire a chiunque di entrare e di toccare qualcosa, ed abbiamo fatto restare qui, a disposizione degli inquirenti, il signor Lopaczyinski, che è quello che ha trovato la ragazza, pochi minuti dopo essere entrato in ufficio. Ma è estremamente agitato, parla da solo e mormora frasi incoerenti. Che cosa dobbiamo fare?”.
“Tratteniamolo finché il medico legale non si sarà pronunciato sull’ora della morte della vittima. Certo, se risultasse che la ragazza è stata assassinata un’ora fa, la sua posizione diventerebbe difficile. In caso contrario, credo che potrò benissimo raccogliere la sua testimonianza lunedì mattina, quando si sarà ripreso dallo shock e sarà in grado di raccontarmi con un po’più di lucidità ciò che ha visto: A proposito, è già arrivato il medico legale?”.
“Non ancora” rispose il responsabile della sicurezza.
“Allora attendiamolo insieme prima di fare qualsiasi altra cosa. L’accertamento dell’ora della morte è il primo passo di qualsiasi indagine in materia di omicidio”.
Capitolo IX
COME SI SENTE SIGNOR LOPACZYNSKI?
Qualche minuto dopo arrivò il medico legale, che Van Kampenhout conosceva. Il commissario lo salutò con moderata cordialità e chiese al responsabile della sicurezza di accompagnarli nell’ufficio dove era stato trovato il corpo della ragazza.
Il medico legale esaminò il cadavere con attenzione, poi disse in tono serio e grave: “ Povera ragazza. Con tutti i temporali improvvisi e gli sbalzi di temperatura che abbiamo avuto in questi giorni, si era presa un bel raffreddore, ma non è stato questo che l’ha uccisa”. Il commissario non diede alcun segno di aver apprezzato la battuta e continuò a fissare il medico, che si affrettò ad aggiungere:”La morte è dovuta a strangolamento e risale a circa 10-12 ore fa. Potrò essere più preciso in seguito, ma posso garantire fin d’ora con pressoché assoluta sicurezza che questa ragazza è stata uccisa ieri sera, tra le nove e la mezzanotte Deve essere stata uccisa in questo ufficio o nelle immediate vicinanze perché, almeno a prima vista, non vedo sul corpo segni che lascino pensare che il cadavere sia stato trascinato o trasportato per un lungo tratto”.
Diede disposizioni perché il cadavere fosse portato all’Istituto di medicina legale per ulteriori esami, strinse la mano a Van Kampenhout, gli augurò buona fortuna e se ne andò.
Gli esperti della scientifica, giunti nel frattempo, avevano già provveduto a fotografare il cadavere e la scena del delitto. Non avevano avuto altro da fare, perché, al di fuori di libri, giornali, riviste e depliant, non era stato trovato nell’ufficio assolutamente nulla che sembrasse non appartenere al sig. Lopaczynski. Per sicurezza avevano fatto il necessario per rilevare le impronte digitali, ma nulla sembrava essere stato toccato, tranne una pila di giornali che si era rovesciata, forse urtata dall’assassino nel sistemare o nello spogliare il corpo della vittima .
Van Kampenout non si faceva molte illusioni sui risultati che queste analisi avrebbero potuto dare. Prese anche lui, col suo apparecchio digitale, qualche foto, per poter cercare di identificare subito la vittima.
“ Conoscevate la ragazza che è stata uccisa?” chiese il commissario al responsabile della sicurezza ed ai sorveglianti che erano stati di guardia all’ufficio, dopo che gli esperti della scientifica se ne furono andati.
Tutti fecero cenno di no. “La vedevamo passare quando eravamo di servizio all’entrata del Berlaymont” rispose uno dei sorveglianti “Ma non ho la minima idea di chi fosse né di dove lavorasse. Vediamo entrare ogni giorno qualche migliaio di persone e ci accontentiamo di farci mostrare il badge di servizio, ma non facciamo quasi mai attenzione al nome. Sa, commissario? Conosciamo ormai a memoria come è fatto il badge e ci basta vedere che una persona ce l’ha. Se dovessimo controllarli uno per uno, ci sarebbero le file come alle biglietterie della stazione. Potrebbe però forse arrivare da uno dei nuovi Paesi, perché io sono in servizio da parecchi anni, e mi pare di aver cominciato a vederla solo di recente”.
“Non penso che ci saranno difficoltà per identificarla” intervenne il responsabile della sicurezza “L’accesso all’edificio è rigorosamente controllato e tutti coloro che vi entrano dopo l’orario d’ufficio devono farsi identificare e far iscrivere il loro nome in un apposito registro. Inoltre, tutti i funzionari sono fotografati dal Servizio del personale al momento dell’assunzione per poter loro rilasciare il badge munito di fotografia e gli originali vengono conservati dal Servizio. Ho già contattato il Servizio del personale e stanno dandosi da fare per trovare qualcuno che possa mostrarci la raccolta delle foto. Se avremo fortuna, dovremmo poter scoprire chi era in un paio d’ore.”
“Se Lei è d’accordo, propose Van Kampenhout al responsabile della sicurezza, farei venire immediatamente una squadra per perquisire tutti gli uffici. Gli abiti della vittima potrebbero essere stati nascosti nell’edificio.”
“È un’ottima idea”gli rispose il responsabile della sicurezza “Durante il weekend, non c’è nessuno negli uffici e la perquisizione potrà svolgersi con la massima tranquillità”.
“Andiamo ad ascoltare che cosa ha da raccontarci il signore che ha trovato il cadavere”, propose Van Kampenhout al responsabile della sicurezza, che lo guidava ora verso gli ascensori.
“ Ho dato un’occhiata ai registri delle entrate tenuti dai sorveglianti ed ho potuto constatare che il signor Lopaczyinski non era qui al Berlaymont ieri sera. Le farò avere subito i registri perché lei possa vedere chi si trovava nell’edificio al momento del delitto”rispose quest’ultimo..
“In genere c`è molta gente che rimane in ufficio fuori orario o che ci ripassa durante la serata ?” gli domandò l’ispettore.
“No” rispose il responsabile della sicurezza “ Salvo circostanze eccezionali, non sono mai più di una quindicina. Naturalmente, c’è parecchia gente che si trattiene più a lungo la sera per terminare un lavoro urgente o per recuperare un ritardo, ma tra le sette e mezzo e le nove pure questi vanno via. Oltre ai funzionari, bisogna tener conto delle donne delle pulizie, che passano tra le sette e le dieci a pulire i corridoi e gli uffici e che, viste le dimensioni dell’edificio, sono almeno un centinaio ed i sorveglianti posti all’entrata principale, all’entrata di servizio ed all’entrata del garage sotterraneo, nonché quelli incaricati del servizio di ronda, una ventina in tutto. Anche per le donne di servizio e per il personale di sorveglianza teniamo appositi registri di presenza, che le farò pervenire non appena si sarà sistemato nell’ufficio che le abbiamo riservato. Il Capo del personale mi ha invitato a metterle a disposizione un ufficio attualmente vuoto davanti agli ascensori, in uno dei corridoi che ospitano la Direzione della traduzione, al 13° piano, così darà meno nell’occhio. Avremmo avuto anche qualche locale disponibile qui nella hall d’entrata, ma sarebbe stato proprio nel punto di maggior passaggio ed abbiamo pensato che lei ha bisogno di tranquillità per svolgere la sua indagine ed interrogare eventuali testimoni…”
“ Avete fatto molto bene e vi ringrazio della vostra sollecitudine ” rispose Van Kampenhout , sebbene non molto convinto.
Nel frattempo erano arrivati al piano terra. Attraversarono l’immensa hall d’entrata e giunsero di fronte ad una saletta, ricavata in un angolo, dove un paio di sorveglianti stavano cercando di tranquillizzare un individuo che si muoveva in continuazione sulla sua sedia, scosso da continui sussulti e pallido come un cencio.
“Come va, signor Lopaczyinski?”gli domandò compassionevolmente il responsabile della sicurezza “Si sente un po’meglio?”.
“Come pensa che possa sentirmi, dopo quello che mi è successo?” rispose il poveretto, con gli occhi sbarrati “Mi sento da cane, mi manca il fiato, mi pare di svenire ad ogni momento. Ero già rientrato stanco da Lussemburgo, non ho dormito troppo bene questa notte e adesso…adesso m’hanno dato il colpo di grazia. Se non mi lasciate andare subito a casa…mi porterete all’ospedale…o al cimitero”.
Van Kampenhout pensò, fra di sé, che Lopaczynski doveva avere una certa tendenza naturale all’esagerazione, ma dovette comunque riconoscere, dopo averlo osservato un momento, che era piuttosto malmesso e che l’interrogatorio di una persona così turbata e sconvolta non avrebbe fornito risultati affidabili.
“Vada pure a casa, signor Lopaczyinski” gli disse cortesemente “ Non c’è fretta. Si riposi e la sentirò lunedì, quando sarà più tranquillo e sarà in grado di ricostruire a mente serena i fatti di questa mattina. Per ora, mi dica soltanto se conosceva la vittima”.
“Mai vista… mai vista… lo giuro “ borbottò Lopaczyinski stravolto “ Farmi a me… farmi a me una cosa simile…una sorpresa così…mi vogliono morto”.
“Non si agiti inutilmente , signor Lopaczynski. Ora vada a casa. Si riposi, mi raccomando. E ci rivedremo lunedì con calma e a mente serena” gli disse il commissario.
Lopaczyinski farfugliò qualcosa di incomprensibile, che doveva essere un ringraziamento, e si allontanò con passo incerto, ondeggiando come se fosse ubriaco.
Un sorvegliante lo sorresse con premura fino all’uscita e lo accompagnò, al di là del piazzale, fino alla fermata dei taxi, dove una macchina o due sostavano anche di sabato.
Van Kampenhout guardò l’orologio e vide che erano ormai quasi le undici e mezzo.
“Andiamo a sistemarci nel nostro ufficio” disse sorridente a Durand. Un sorvegliante li accompagnò di nuovo al tredicesimo piano, in un ufficio alla fine del corridoio riservato alla divisione francese, quasi di fronte all’angolo dove erano sistemati i distributori automatici di bibite e bevande calde. L’ufficio era del tipo previsto per le segretarie, abbastanza spazioso, con due tavoli posti uno di fronte all’altro perpendicolarmente alla finestra, equipaggiati ciascuno di un PC , di un telefono e di una sedia ergonomica, mentre, in un angolo, a fianco della porta, due poltroncine e un tavolino basso creavano una specie di salottino.
Salvo gli armadi vuoti ed i cestini della spazzatura, non v’era null’altro,
“Equipaggiamento sobrio ed essenziale, ma sufficiente ai nostri modesti bisogni, sperando che il nostro soggiorno qui non duri troppo a lungo” commentò divertito il commissario.
Qualche minuto dopo un sorvegliante venne a portare i registri delle entrate e delle presenze relativi alla notte precedente, che consegnò al commissario facendosi rilasciare la debita ricevuta, e lo avvertì che un funzionario della Divisione del personale era stato reperito ed era disponibile per il controllo delle fotografie.
“Va tu a vedere, Durand” disse il commissario al suo collaboratore, affidandogli la sua macchina fotografica con le fotografie che aveva preso poco prima sulla scena del delitto, mentre io controllo i registri d’entrata. Se ci va bene, potremo uscire prima dell’una per mangiare un boccone in qualche ristorantino dei dintorni”.
Andato via il poliziotto, Van Kampenout si mise ad esaminare i registri che gli erano stati portati e, dopo averli attentamente consultati, dovette concludere che tutte le persone di cui era stata registrata l’entrata il venerdì, dopo il termine dell’orario d’ufficio, risultavano regolarmente uscite nel corso della serata. Almeno ufficialmente, nessuno, salvo i sorveglianti, era rimasto nell’edificio dopo le ore 23 e 40 del venerdì. Ne derivava, come prima conseguenza, che la vittima doveva per forza di cose essere qualcuno che, ufficialmente, non si trovava nell’edificio la sera precedente dopo la scadenza dell’orario di lavoro. Per converso, il responsabile doveva presumibimente essere uno di coloro che risultavano presenti al Berlaymont la sera o la notte del venerdì, vista l’impossibilità di entrare e di uscire dall’edificio senza un controllo dell’identità.
“Un bel rompicapo” pensò il commissario. “Nessuno può entrare o uscire senza controllo, una volta terminato l’orario di lavoro, ed i controlli sono molto rigorosi. Potrebbe però trattarsi di una funzionaria entrata durante la giornata. Il responsabile della sicurezza mi ha detto, in effetti, che le entrate durante l’orario di lavoro sono controllate mediante presentazione del badge, ma non sono registrate, mentre le uscite al termine dell’orario di lavoro non sono controllate, in base al principio che l’identità di chi si trova all’interno dell’edificio è già stata necessariamente accertata. Un controllo viene effettuato, per ragioni di sicurezza, solo su chi esce molto più tardi della fine dell’orario di lavoro”.
Van Kampenhout riprese il registro che riportava le entrate e le uscite dei funzionari. Le entrate e le uscite erano registrate a partire dalle sette di sera. Il commissario prese nota di coloro che si trovavano all’interno dell’edificio nel periodo sospetto, e si ritrovò poco dopo in mano la seguente tabella:
Malgorzata Dombrowska Direzione della traduzione
19.45 22.35
Vera Zadonskaya Direzione della traduzione
19.45 21.59
Elio de Gubernatis Servizio giuridico
20.45 22.20
Nikos Papageorgios Servizio giuridico
20.30 22.37
Giandomenico Scannabue Pubbliche relazioni
20.50 22.37
Hans-Heinrich von Waldenburg Rappresentanza BRD
21.15 22.45
Ursula Schonhöfen Rappresentanza BRD
21.17 22.47
Adalberto Lopez Garrido Direttore della traduzione
------ 23.10
René Paleron Direttore generale
------- 23.16
Alistair Stevenson Direzione della traduzione
21.25 23.35
Irina Lupescu Servizio giuridico
------ 23.40
La mancata menzione dell’orario d’arrivo significava che gli interessati si trovavano già al Berlaymont fin dal pomeriggio e che vi erano quindi entrati senza registrazione, su semplice presentazione del badge personale.
Prese il portatile e chiamò Durand. Era ormai quasi mezzogiorno e mezzo.” Come sta andando da voi?”gli domandò.
“Abbiamo deciso di tentare una selezione” rispose Durand” Visto che la ragazza era giovane e che potrebbe essere originaria di un paese dell’Europa orientale, abbiamo selezionato automaticamente tutte le donne di età inferiore ai 35 anni originarie di uno dei nuovi Stati membri. Ne abbiamo già viste un bel po’. Se va bene, dovremmo trovarla entro mezz’ora al più tardi. In caso contrario, dovremo estendere la ricerca a tutti i Paesi membri e perderemo tutto il pomeriggio”.
“Buona fortuna” gli augurò Van Kampenhout, che sperava di poter ancora andare a mangiare qualcosa.
Nell’attesa, prese il giornale, che aveva comprato uscendo di casa, e si mise a leggere la cronaca cittadina, per ingannare il tempo.
Capitolo X
LA RONDA DI NOTTE
Una quindicina di minuti più tardi vide arrivare Durand che gli mostrò tutto contento una foto. “ L’abbiamo trovata “ disse “ Malgorzata Dombrowska, traduttrice polacca, al servizio della Commissione dalla fine dell’anno scorso.”.
“ Non c`è dubbio che è lei.”osservò Van Kampenhout dopo aver dato un’occhiata alla foto ed averla comparata con il volto della ragazza strangolata “ Però c’è un piccolo problema. Se, come risulta dai registri delle presenze che ho appena consultato, la signorina Malgorzata Dombrowska è uscita dal Berlaymont alle 22.35 di ieri sera, bisognerebbe riuscire a capire come è possibile che il suo cadavere sia stato ritrovato all’interno dell’edificio intorno alle 8.40 di questa mattina”.
“Semplice” replicò Durand “ Qualcuno potrebbe aver falsificato i registri”
“ O aver riportato dentro il cadavere”completò Van Kampenhout “ Mi sembra un po’ troppo plateale per essere vero. Ma, ora che ci penso, si sono delle telecamere piazzate nei punti strategici dell’edificio e ce n’è certamente una sistemata nella hall d’ingresso, dinanzi alla quale devono passare tutti coloro che vogliono accedere ai piani superiori dell’edificio. Ci basterà verificare che tutte le persone che risultano entrate siano anche effettivamente uscite. Chiediamo subito al responsabile del servizio di sicurezza se sono in grado di proiettarci le riprese effettuate dalla telecamera nella serata di ieri. Ho paura che oggi, per pranzo, dovremo accontentarci di mangiare un panino”.
Prese il telefono e chiamò la “réception”, chiedendo che gli passassero il responsabile della sicurezza. Fortunatamente quest’ultimo non era ancora andato via e gli disse che la cosa si sarebbe potuta arrangiare nel giro di una mezz’ora. Inoltre- aggiunse - poiché ogni fotogramma aveva incorporata la menzione al secondo del momento in cui era stato girato, non sarebbe stato necessario visionare due ore di pellicola, ma sarebbe bastato verificare i pochi fotogrammi che corrispondevano all’entrata ed all’uscita delle singole persone.
“Non è proprio esatto” replicò Van Kampenhout “ Non possiamo escludere a priori che qualcuno sia entrato od uscito approfittando di un attimo di disattenzione dei sorveglianti o di un momento in cui non ci fosse nessuno al bancone di controllo. Solo controllando con la telecamera tutto il periodo coperto dalle annotazioni nei registri saremo in grado di verificare con assoluta sicurezza che unicamente le persone menzionate nei registri sono entrate al Berlaymont o ne sono uscite nello spazio di tempo che ci interessa”.
“ Ha ragione, commissario. Non ci avevo pensato” ammise il responsabile della sicurezza “ Farò subito il necessario per recuperare le riprese. Ci vediamo fra un quarto d’ora nella saletta di proiezione al secondo piano. Mando un sorvegliante per accompagnarvi”.
Un quarto d’ora dopo Van Kampenhout, Durand ed il responsabile della sicurezza si ritrovarono nella saletta di proiezione.
Cominciarono a proiettare la pellicola partendo dalle 19.40. Alle 19.45 si vedevano due ragazze di statura più o meno uguale , ben protette da eleganti impermeabili con il bavero rialzato fin sul volto, in testa un cappello Borsalino a larga tesa che copriva loro gli occhi, guanti che risalivano oltre i polsi, lunghi stivali alla moda, labbra evidenziate dal rossetto, occhiali affumicati, apparire all’entrata, avvicinarsi rapidamente, scuotere con vigore i loro ombrelli violetti, depositare rapidamente sul tavolo i loro badge e passare oltre. Una delle due teneva un fazzoletto in mano e si soffiava il naso pressoché in continuazione.
“Queste due devono essere Malgorzata Dombrowska e Vera Zadonskaya”osservò Durand “ Guardate come sono conciate. Devono prendersi per delle dive del cinema, oh…”les femmes fatales”. Che mondo”. Il commissario non fece commenti.
Alle 20.30 si vedeva entrare Nikos Papageorgios. Il giovane greco, che doveva aver attraversato il piazzale ben coperto da un ombrello, era inappuntabile come sempre: in camicia, giacca e cravatta perfettamente stirati, i capelli perfettamente pettinati e curati, la barba perfettamente rasata.
Si vedeva che ci teneva moltissimo al suo aspetto.
Un quarto d’ora più tardi, compariva un signore abbastanza anziano, snello, vestito con eleganza, un viso abbronzato, dall’aspetto mediterraneo. Era senza dubbio il dr de Gubernatis.
Ben diversa , invece, la persona che era entrata alle 20.50: un ragazzone dai capelli riccioluti che grondavano acqua, in un pullover che sembrava essere appena stato estratto dalla lavatrice e jeans con enormi macchie di umido, come se li avessero bersagliati con bicchieri d’acqua.
“Questi giovani d’oggi non sanno più che cosa sia un ombrello o un impermeabile” osservò Durand che si sentiva tenuto a fornire il suo commento su tutto ciò che vedeva. Il commissario lo lasciò dire.
Hans-Heinrich von Waldenburg ed Ursula Schönhofen erano arrivati a pochissima distanza l’uno dall’altro. Il primo aveva addosso un normale impermeabile, l’altra un soprabito senza nulla di particolare. Da bravi tedeschi sembravano entrambi assolutamente insensibili alla furia degli elementi ed erano entrambi privi d’ombrello.
Alle 21.25 apparve sullo schermo un signore distinto, che avanzava con passo calmo e misurato, in un severo cappotto di tweed, l’ombrello sotto braccio. Non sembrava neppure averlo dovuto aprire, perché probabilmente s’era fatto depositare dal taxi direttamente di fronte all’entrata. “ Se questo non è l’inglese” esclamò Durand “ non so più chi son io…”.
Trascorse una mezz’ora di proiezione senza che l’attenzione degli spettatori fosse attirata da alcun dettaglio degno di nota e poi cominciarono le uscite.
La prima ad uscire, alle 21.50, fu una delle ragazze che erano entrate alle 19.45.
Alle 22.20 si presentò all’uscita l’anziano signore dall’aspetto mediterraneo.
Alle 22.35 comparve dinanzi al bancone dei sorveglianti la seconda delle due ragazze che erano entrate alle 19.45. Si teneva il fazzoletto premuto sul naso con la mano sinistra e starnutiva in continuazione. Nella destra portava un sacco da ginnastica. Si fermò dinanzi al bancone, aprì la bocca per dire qualcosa al sorvegliante che le si era fatto incontro, ma fu interrotta da un improvviso starnuto, parlò di nuovo continuando a tenere il fazzoletto premuto sul naso , depose a terra il sacco da ginnastica e prese con la destra il badge che il sorvegliante le porgeva. Si mise in tasca il badge e poi si diresse lentamente verso l’uscita.
“Quale delle due è questa?” si chiese perplesso Durand, che si era distratto un attimo e che non aveva grandi qualità di osservatore “ Erano imbacuccate allo stesso modo e vorrei sapere come possiamo distinguerle”.
“Non preoccuparti” gli rispose Van Kampenout “ Non vedi che questa è quella col raffreddore, cioè la vittima. Inoltre questa aveva il cappello con una fascia a differenza dell’altra che lo aveva senza fascia, una borsetta Vuitton mentre l’altra aveva una borsetta di cui non conosco la marca, i guanti neri, mentre l’altra li aveva grigi, gli stivali di cuoio marrone mentre l’altra li aveva argentati ed occhiali da sole leggermente più scuri di quelli dell’altra, sebbene si potessero appena intravedere a causa della tesa del cappello. Inoltre portava al collo un cordoncino di cuoio al quale era appesa una chiave, probabilmente la chiave di casa, che non voleva smarrire.”.
Durand tacque sbalordito e si chiese come il commissario avesse potuto registrare nella sua mente tanti particolari in quei pochi secondi in cui l’immagine delle due ragazze era apparsa sullo schermo.
Subito dopo l’uscita della ragazza, si vedevano comparire sullo schermo Giandomenico Scannabue e Nikos Papageorgios, che sembravano impegnati in un’animata discussione.
Meno di dieci minuti dopo era uscito Hans-Heinrich von Waldenburg, seguito, a brevissima distanza di tempo da Ursula
Schönhofen.
Van Kampenhout concentrò la sua attenzione sulle ultime uscite.
Il Direttore della traduzione Adalberto Lopez Garrido si era presentato dinanzi al tavolo dei sorveglianti senza mostrare alcun segno di agitazione.
Il Direttore generale René Paleron sembrava nervoso ed inquieto, ma Van Kampenhout non si sentì di escludere che ciò fosse dovuto allo stress legato ai compiti importanti che lo avevano costretto a rimanere in ufficio fino a così tarda ora.
Alistair Stevenson, M.Phil, era impeccabile e distaccato come sempre.
Irina Lupescu, che compariva sullo schermo alle 23.40, indossava una tuta da ginnastica senza pretese su cui aveva gettato un giaccone impermeabile. Usciva a capo scoperto, senza preoccuparsi più di tanto del probabile acquazzone che l’aspettava fuori e teneva in mano una grossa borsa da ginnastica dall’aspetto abbastanza logoro.
Il commento di Durand arrivò subito: “ Questa è un maschiaccio. Si vede da come è vestita e da come cammina. Dovrà diventare un po’meno trasandata ed uscire un po’più presto dall’ufficio se vuole trovare uno straccio di ragazzo”.
“Nessuno t’ha chiesto la tua opinione, Durand” lo rimbeccò il commissario, che cominciava a seccarsi “ Siamo in un paese libero e ciascuno può andare in giro vestito come vuole e rimanere in ufficio sino a tardi se lo desidera”.
Questo pensiero lo indusse per associazione di idee a dare un’occhiata all’orologio da polso. Erano circa le quattro del pomeriggio.
“Il pranzo è saltato disse a Durand, ma per oggi abbiamo terminato. Almeno siamo riusciti ad identificare la vittima. Questo pomeriggio non riusciremo più a procurarci altri documenti né a scovare altri testimoni e domani sarebbe insensato sperare di trovare qualcuno. Al colpevole penseremo lunedì. Auguriamoci che non approfitti del week-end per rifugiarsi a Cuba o in qualche altro paese dell’America Centrale, da cui sarebbe difficile ottenerne l’estradizione. Ho paura che non sarà facile trovarlo. Domani a casa, penserò alle prossime mosse. Adesso, andiamo almeno a berci una birra ed a mangiarci un panino, ce li siamo meritati”.
(segue)