Questo breve articolo di Lăo Shĕ 老 舍 (1899-1966) tratta del concetto di “humour”. Le considerazioni in esso svolte sono equilibrate e ragionevoli. Si potrebbe tuttavia discutere il postulato secondo cui la letteratura deve sempre avere un intento pedagogico o di denuncia sociale, cioè deve sempre essere “impegnata”. Questo postulato, applicato con grande rigore per molti anni in numerosi paesi, ha portato al “realismo socialista”, i cui risultati non appaiono particolarmente esaltanti.
Che cos’è lo “humour”?
Il termine “yōumò” (幽 默) (1), usato per rendere in cinese il concetto di “humour”, è la trascrizione fonetica di una parola straniera, proprio come “mótuō”(摩 托 “motore”) e “démókèlāxī” (德 谟 克 拉 西 ”democrazia”), che sono anch’essi trascrizioni fonetiche di parole straniere.(2)
Perché si è preferito ricorrere ad una trascrizione fonetica piuttosto che ad una traduzione?
Perché una traduzione non è facile. Non si trova agevolmente un termine appropriato che renda appieno il concetto originario.
Se si volesse davvero tradurre la parola “humour”, solo il termine “huájī” 滑 稽 (“comico”,”ridicolo”) si avvicinerebbe , grosso modo, alla portata di tale parola. Il significato di “huájī" non corrisponde però perfettamente al significato di “humour”. “Humour” ha infatti una portata più ampia di “huájī” e un senso molto più complesso. “Huájī” è semplicemente “qualcosa che fa ridere”, mentre “humour” è qualcosa di assai più profondo. Se tutto si riduce a farsi quattro risate, e nulla più, allora “huájī” va benissimo. Il termine “humour” implica invece riflessione ed arte.
Questo termine di origine straniera ha in effetti molti significati differenti, che non è necessario spiegare qui. Mi limiterò quindi a dire una parola su come lo utilizziamo noi. (3)
Grandi autori come l’inglese Dickens, l’americano Mark Twain, il russo Gogol, etc., sono considerati scrittori ricchi di “humour”. Le loro opere fustigano l’ipocrisia, l’inganno e i differenti vizi e simpatizzano con i deboli, con gli oppressi e con i sofferenti , non diversamente da come avviene in altri capolavori, ma esprimono tale affetto e tale repulsione usando uno stile umoristico, vale a dire, contengono descrizioni che fanno ridere, sono divertenti e spiritose.
I nostri dialoghi comici (相 声 “xiāngshēng”) (4) rappresentano una sorta di testi umoristici. Sono testi satirici, ma la satira è inseparabile dallo “humour”. Infatti il senso della satira va perduto nel discorso serio e grave che intende ammaestrare la gente. Grazie allo “humour” questi dialoghi riescono a coglierci di sorpresa, a farci prima ridere e poi riflettere, e quasi vergognarci.
Prima della Liberazione (5) i dialoghi comici in voga erano spesso soltanto amenità inconsistenti destinate a far ridere. Erano piuttosto volgari e assolutamente privi di contenuto. Il loro unico scopo era strappare una risata agli spettatori. Non avevano alcun intento educativo né alcun gusto artistico.
Dopo la Liberazione i testi dei “xiāngshēng” sono cambiati. Il loro linguaggio sottintendeva qualcosa, i loro contenuti assumevano la responsabilità di una satira più o meno sgradita. La gente che li ascoltava rideva, ma si poneva anche delle domande.
È così che si può spiegare, a grandi linee, la differenza tra “comicità” e “humour”.
Un testo umoristico non è un testo banale. (6) Esso ricorre all’intelligenza, alla perspicacia e fa uso di tutta una serie di tecniche per stimolare il riso. Quando l’hai letto ti fa ridere e, al tempo stesso, ti lascia stupito, incerto se ridere o piangere, e ti insegna qualcosa. Lo si può capire quando si leggono le opere di Dickens, di Mark Twain, di Gogol e lo si può capire altrettanto bene quando si ascolta qualche buon “xiānshēng”.
Gli scrittori umoristici non possono non essere degli autori che possiedono un’estrema padronanza del linguaggio. Devono infatti avere spirito, mordente e acutezza. Devono inoltre dimostrare forte capacità di osservazione ed essere dotati di vigorosa fantasia. Una capacità d’osservazione molto forte permette loro di cogliere i dettagli ridicoli e gli aspetti paradossali dell’esistenza e di renderli visibili per poi descriverli e criticarli concretamente, mentre una fantasia vigorosa consente loro di aggiungere alla realtà osservata quel tocco di esagerazione che non solo fa ridere la gente, ma si imprime anche in modo durevole nella memoria.
Non occorre essere scrittori per avere il senso dello “humour”. Ciò che definiamo senso dello “humour” consiste infatti semplicemente nel saper cogliere il ridicolo di una situazione e nel saperlo esprimere con parole che facciano ridere o anche nel saper usare lo “humour” per uscire da un “impasse”.
Imaginiamo, per esempio, che un bambino veda un signore dotato dalla natura di un naso piuttosto importante. I bambini- si sa- sono impertinenti ed il nostro si mette subito a gridare: “Guardate! Che grosso naso!” Se il signore in questione non ha il senso dello “humour”, sarà probabilmente seccato da questa osservazione e il padre del bambino si troverà verosimilmente nell’imbarazzo. Se, invece, questo signore ha il senso dello “humour”, sorriderà e dirà al piccolo: “Chiamami pure Zio Nasone!”.(7) Tutti si metteranno a ridere e il problema sarà risolto.
È naturale che gli scrittori umoristici abbiano il senso dello “humour”. Ciò non significa tuttavia che essi abbiano l’abitudine di mettere sempre in ridicolo qualsiasi cosa. Non è così. Essi hanno piuttosto un forte senso della giustizia e non intendono risparmiare i malvagi né perdonare il male. Essi denunciano anche, semplicemente, la ristrettezza di idee che esiste nella società, e se ne adirano sempre.
Perciò, il senso dello “humour” di uno scrittore umoristico, impedendogli di essere indulgente verso i malvagi e di passare sopra alle cattive azioni, ne rende al tempo stesso il carattere più magnanimo e più puro, nonché più comprensivo. Se ha, lui stesso, delle debolezze, potrà parlarne con “humour”, evitando di autoincensarsi.
I talenti umani sono molto diversi. C’è gente che ha il senso dello “humour” e c’è gente che non ce l’ha. Chi non ce l’ ha, non dovrebbe sentirsi obbligato a fare dello “humour” né sforzarsi di scrivere testi umoristici. La bontà di un testo non dipende dallo “humour”: anche testi che non ricorrono allo “humour” possono essere eccellenti, mentre, invece, giocare maldestramente con le parole nell’intento di provocare il riso può risolversi in una brutta figura.
Infine, attenzione! Si può ridere di un cattivo carattere o di una cattiva azione, ma non si può assolutamente ironizzare su alcuni difetti fisici di cui si dovrebbe avere compassione. I ciechi, i sordi e i muti vanno trattati con grande rispetto e non è assolutamente consentito di prenderli in giro.
Pubblicato sulla rivista ”Lettere ed Arti a Pechino”, numero di marzo del 1956.
NOTE
1) Il termine “yōumò” (幽 默) è un neologismo, creato nel 1924 da un amico di Lăo Shĕ 老 舍 , lo scrittore Lín Yŭtáng 林语堂, che intendeva trapiantare in Cina lo “humour” occidentale presentandolo , in conformità alla tradizione cinese, come una “ironia tollerante”, simile allo sguardo ironico e distaccato con cui i Taoisti guardano il mondo.
2) L’articolo di Lăo Shĕ fu pubblicato nel marzo del 1956 sulla rivista ”Lettere ed Arti a Pechino”. (北 京 文 艺 “bĕijīng wényì”)
Poiché si fa generalmente ricorso alla trascrizione fonetica di una parola straniera quando la lingua in cui si scrive ignora il concetto definito da questa parola, si potrebbe pensare, con qualche fondamento, che i concetti di “humour”, “motore” e “democrazia” fossero stati, almeno fino a poco tempo prima, totalmente estranei alla realtà cinese.
Oggi esistono traduzioni cinesi anche per il “motore” (发 动 机 “fādòngjī” e 电 动 机 “diàndòngjī”, basati sul termine动 机 “dòngjī” che significa “congegno per il movimento”) e per la “democrazia” (民 主 “mínzhŭ” che significa “sovranità del popolo”). L’esistenza di una traduzione, se attesta l’accettazione di un concetto in una lingua, non ne garantisce però di per sé l’accettazione nella realtà politica e sociale corrispondente a tale lingua.
3) Lăo Shĕ intende ovviamente limitarsi ad esaminare il significato del termine “humour” nell’ambito letterario.
4) Lo “xiāngshēng” 相 声 è un dialogo comico tradizionale (più raramente un monologo), ricco di giochi di parole e di allusioni divertenti.
Corrisponde, grosso modo, a ciò che noi chiamiamo “scenetta comica” o “sketch”.
Lo stesso Lăo Shĕ, nel 1938, aveva scritto dei “xiāngshēng”.
5) Per “Liberazione” (“jiĕfàng” 解 放 ) l’autore intende la vittoria dei rivoluzionari comunisti e la caduta del governo del Guómíntáng 国 民 堂 agli inizi del 1949.
6) Lăo Shĕ usa qui l’aggettivo 老 老 实 实 (“lăolăoshíshí”), cioè “onesto”,”sincero”,”leale”, “che non inganna”, ma ne deforma leggermente il significato. Egli intende infatti dire che un testo umoristico non è un testo facile e comprensibile a prima vista, bensì un testo che richiede intelligenza e riflessione sia da parte dell’autore sia da parte del lettore.
7) Il termine 叔 叔 (“shūshu”) cioè “zio” (a stretto rigore “ il fratello minore del padre”) è correntemente usato dai bambini cinesi per rivolgersi agli adulti.