CAPITOLO XIII
1. A Zĭ Lù , che voleva sapere come si potesse governare bene, il Maestro rispose: “Dimostrando solerzia ed impegno”.(1)
“ E poi?”gli domandò ancora Zĭ Lù.
“Non stancandosi mai di dare il buon esempio”concluse il Maestro.
2. Discutendo dell’arte del governo con Zhòng Gōng, quando questi fungeva da intendente della famiglia Jì, il Maestro spiegò:” Chi è a capo di un’amministrazione (2) deve essere indulgente con le piccole mancanze e promuovere gli uomini di talento”.
“Per promuovere gli uomini di talento, dovrei prima sapere chi sono.”obiettò Zhòng Gōng.
“Se tu non conosci personalmente un uomo di talento “ gli rispose il Maestro” non ritieni che altri te lo segnaleranno affinché tu possa promuoverlo?”. (3)
3. Zĭ Lù domandò: "Maestro, se il duca di Wèi vi chiedesse consiglio sul governo dello Stato, da che cosa comincereste?".
Il Maestro rispose: "Dall’esattezza della terminologia".
Zĭ Lù si stupì: "Davvero? È una cosa talmente importante?".
Il Maestro gli spiegò: " Sei proprio un sempliciotto, Zĭ Lù. I funzionari tendono a non eseguire gli ordini che non capiscono. Quindi, se il linguaggio degli ordini è nebuloso, gli ordini non vengono eseguiti. Se gli ordini non vengono eseguiti, l'amministrazione non funziona. Se l'amministrazione non funziona, i procedimenti non sono portati a termine. Se i
procedimenti non sono portati a termine, i reati non vengono puniti. Se i reati non vengono puniti, il popolo è confuso e il paese cade nel disordine. Perciò occorre che la terminologia sia corretta affinché ciò che viene ordinato possa essere eseguito. Il linguaggio dell'amministrazione deve essere preciso ed esatto". (4)
4. Fán Chí pregò il Maestro di insegnarli i fondamenti dell’agricoltura.
“Un vecchio contadino saprebbe insegnarteli meglio di me” si schermì Confucio.
Allora Fán Chí gli chiese di insegnargli le regole dell’orticultura, ma il Maestro gli rispose: “Un vecchio ortolano potrebbe insegnartele meglio di me”.
Quando Fán Chí si fu allontanato, il Maestro osservò: “ Questo ragazzo è davvero un po’ ottuso. Se chi comanda segue i princìpi della buona condotta, la gente non ardirà mancargli di rispetto. Se chi comanda è giusto, la gente non
oserà non obbedirgli. Se chi comanda è sincero, la gente non potrà non avere buoni sentimenti. Se chi comanda si comporterà così, la gente accorrerà a lui da ogni angolo del paese, portandosi i bambini sulle spalle. Che bisogno c’è di
imparare i precetti dell’agricoltura?” (5)
5. Il Maestro osservò : “ Colui al quale sono assegnate funzioni pubbliche, potrà anche saper recitare tutto il Libro delle Odi, ma se non è capace di prendere una decisione, o di risolvere autonomamente una difficoltà quando è inviato in missione, tutta la sua scienza gli sarà di poco aiuto”. (6)
6.Il sovrano giusto non ha bisogno di emanare ordini per essere obbedito. Il sovrano ingiusto potrà dare tutti gli ordini che vuole, ma nessuno gli presterà ascolto.
7. Il Maestro si domandò: “ Non è vero che, per il modo in cui sono governati, Lŭ e Wèi sembrano fratelli?” (7)
8. Il Maestro lodò il principe Jīng (8), membro della casa ducale di Wèi, perché era sempre stato contento della propria dimora.
“Quando ebbe la sua prima casa” raccontava” esclamò: ‘ Non vi pare una bella residenza?’. Quando l’ampliò e la ingrandì, osservò: ‘Ora va proprio bene’. Quando, infine , l’abbellì e la ornò ulteriormente,domandò: ‘ Non vi pare che sia veramente splendida?’.
9. Quando il Maestro si recò in visita a Wèi, Răn Yóu guidava la sua carrozza.
“Non ti sembra un paese molto popoloso?” esclamò ad un certo punto il Maestro.
“Se è già un paese ben popolato, che cosa si potrebbe fare per migliorarne ancora le condizioni?” gli domandò Răn Yóu.
“Assicurare la prosperità ai suoi abitanti” gli rispose il Maestro.
“E, raggiunto questo traguardo, che cosa resterebbe da fare?” insistette Răn Yóu.
“Diffondere la cultura tra la gente” concluse il Maestro. (9)
10. Il Maestro osservò: “ Se qualche sovrano ricorresse ai miei servizi, in un anno potrei già mostrargli i primi risultati del mio lavoro, in tre anni sarei in grado di completare la riforma del suo Stato”.
11. “ Cent’anni di buon governo basterebbero a sradicare la crudeltà ed a sopprimere ogni violenza”.
“Come è vera questa massima!” commentò il Maestro.
12. Il Maestro osservò: “Se ascendesse al trono un vero re, basterebbe una generazione per far trionfare la virtù”.(10)
13. Il Maestro osservò: “Chi sa dirigere sé stesso non avrà difficoltà nel governare lo Stato. Chi invece non sa dirigere sé stesso, come farà a dirigere gli altri?”.(11)
14. Ritornando a casa dalla Corte, Răn Yóu incontrò per strada il Maestro, che gli domandò perché rientrasse così tardi.
“C’erano affari di Stato da sbrigare” gli rispose Răn Yóu.
“Dovevano piuttosto essere affari di famiglia.”sorrise Confucio” Se si fosse trattato di affari di Stato, ne avrei sentito parlare, anche se non ricopro più incarichi ufficiali”. (12)
15. Il duca Dìng di Lŭ (13) domandò al Maestro se esistesse una regola la cui osservanza potesse far prosperare un paese.
“Non esiste una singola regola che sia in grado di produrre un tale effetto “ gli rispose Confucio” Tuttavia c’è una massima che recita: “ Regnare è difficile e governare non è facile”(14). Se questa massima fa sì che un sovrano sia cosciente della difficoltà del suo compito, perché non si dovrebbe dire che essa procura la prosperità di uno Stato?”.
“Per converso,” gli chiese ancora il Duca” c’è una regola che possa rovinare un paese?”.
“Non esiste una singola regola che sia in grado di produrre un tale effetto” gli rispose Confucio” Tuttavia conosco una massima del seguente tenore:” L’unico piacere che si prova nel governare è che nessuno può opporsi ai nostri voleri”. Ora, se il principe governa bene e nessuno lo contesta, tutto è in ordine, ma, se il principe governa male e nessuno può contraddirlo, non si dovrebbe dire che questa massima è in grado, da sola, di rovinare uno Stato?”.
16. Al duca di Yè (15), che lo consultava sul tema del governo, il Maestro spiegò: “ Il buon governo è quello che soddisfa i cittadini ed attrae i forestieri”.
17. A Zĭ Xià che, mentre amministrava la città di Jŭfù (16), gli domandò come dovesse governare, il Maestro rispose: “Non aver fretta. Non smarrirti nei dettagli. Chi ha fretta non va lontano. Chi si lascia invischiare nelle piccole cose perde di vista le grandi”.
18. Il duca di Yè disse al Maestro: “ Nel mio paese c’è gente onesta. Una volta, un padre ha rubato una pecora ed il figlio è venuto a denunciarlo”.
“Nel mio paese” gli rispose Confucio” abbiamo un’idea un po’ differente dell’onestà. I padri non tradiscono i figli ed i figli non tradiscono i padri. Ecco come noi concepiamo la rettitudine”. (17)
19. Fán Chí domandò a Confucio come si potesse conseguire la virtù. Il Maestro gli rispose: “ In casa sii rispettoso, nell’esercizio delle tue funzioni sii diligente, nei rapporti sociali sii sincero. Queste sono qualità alle quali non dovresti rinunciare nemmeno se vivessi in mezzo ai barbari”.
20. A Zĭ Gòng, che lo interrogava sulle qualità che caratterizzano il perfetto gentiluomo, il Maestro spiegò: “Merita di essere definito tale chi si comporta con dignità ed è capace, se inviato in missione in altri paesi, di rappresentare con decoro il proprio sovrano”.
“Potrei sapere” continuò Zĭ Gòng” chi va classificato subito dopo il perfetto gentiluomo?”.
“Colui che la famiglia loda per la sua pietà filiale ed i concittadini stimano per il suo amore fraterno”.
“Chi potremmo collocare al terzo posto in questa classifica?” insistette Zĭ Gòng.
“Potremmo classificare al terzo posto chi è sincero nel parlare e risoluto nell’agire, anche se è di carattere ostinato e di mentalità ristretta”.
“E quelli che ci governano adesso?” domandò ancora Zĭ Gòng “Come dovremmo classificarli?”.
“Puh!”sbottò il Maestro” Individui mediocri ed insignificanti, che non vale neppure la pena di prendere in considerazione”.(18)
21. Il Maestro si lamentò: “Poiché non riesco a trovare allievi che sappiano praticare la giusta misura, devo accontentarmi degli impetuosi o dei timidi. I primi si lanciano avanti per afferrare la verità, (senza riflettere e col rischio di sbagliare); i secondi si astengono per prudenza dall’agire (e quindi, non sbagliano, ma neppure fanno).”.(19)
22. Il Maestro osservò: “Nel Sud c’è un proverbio che dice:’ Una persona di carattere incostante non può fare né lo stregone né il medico’. Come è vero! (Si legge nel Libro dei Mutamenti: )’Chi non sa perseverare nella Virtù si coprirà di vergogna’ (20) In questi casi, è inutile chiedere predizioni o diagnosi.”
23. Il Maestro osservò: “ Il gentiluomo è cortese ed affabile senza bisogno di imitare gli altri. L’uomo dappoco scimiotta gli altri senza saperne raggiungere la cortesia e l’affabilità”.
24. Zī Gòng domandò a Confucio come dovesse essere considerato qualcuno che fosse amato da tutti i suoi concittadini.
“Questo non è un criterio decisivo di valutazione” gli rispose il Maestro.
“Che cosa si deve dire allora” insistette Zĭ Gòng” di qualcuno che sia odiato da tutti i suoi concittadini?”
“Neppure questo è un criterio decisivo” replicò il Maestro. “ L’uomo dabbene deve essere stimato dai buoni e disprezzato dai
malvagi”.(21)
25. Il Maestro osservò: “È facile servire un galantuomo, ma è difficile entrare nelle sue grazie. Chi cerca di piacergli con mezzi disonesti perde il proprio tempo. Infatti, nei suoi sottoposti egli valuta le capacità.
L’uomo dappoco, invece, è difficile da servire, ma facile da compiacere. Si può entrare nelle sue grazie anche con mezzi poco lodevoli, ma dai suoi sottoposti pretende sempre il massimo.”(22)
26. Il Maestro disse: “Nell’uomo di valore riscontriamo dignità senza arroganza. Nell’uomo mediocre riscontriamo arroganza senza dignità”.
27. “Fermezza, perseveranza, semplicità, prudenza: ecco gli indizi che annunciano la Virtù” disse il Maestro.
28. A Zĭ Lù che lo pregava di indicargli le qualità che uno doveva possedere per essere considerato un galantuomo, il Maestro spiegò: “Si può definire galantuomo colui che è al tempo stesso serio, sollecito ed affabile. Serio e sollecito nel rapporto con gli amici, affabile nel rapporto con i familiari”. (23)
29. Il Maestro osservò: “ Dopo aver ascoltato per sette anni l’insegnamento di un uomo di valore, il popolo potrà anche fornire degli ottimi soldati.” (24)
30.Il Maestro disse: “ Portare in guerra gente impreparata (25) è condurla alla rovina”.
NOTE
1) Nel testo originale si legge 先 之 勞 之 (xiān zhī láo zhī) cioè “precedere e lavorare” o “precedere e far lavorare”, che i più interpretano come “sii per il popolo un modello di laboriosità”.
2) L’espressione 先 有 司 (xiān yŏu sī ), che figura nel testo originale appare molto vaga a causa della sua concisione ed è stata interpretata da numerosi traduttori nei più vari modi: “impiega anzitutto i servizi dei funzionari” (Legge), “sii di
esempio ai tuoi sottoposti” (Lau), “porta avanti i tuoi dipendenti”(Couvreur). Mi sembra perciò difendibile un’ulteriore traduzione: “quando precedi dei funzionari”, cioè “quando dirigi un’amministrazione”.
3) Il problema che si pone in questo dialogo è quello, sempre attuale, dell’accertamento dei meriti. In una burocrazia già notevolmente sviluppata, come appariva quella cinese durante il periodo degli Stati Combattenti, era impossibile che i ministri potessero conoscere “de visu” ciascun funzionario.Confucio suggerisce un metodo pragmatico di giudizio: per i funzionari che non potranno essere valutati in base alla conoscenza personale del loro operato si farà ricorso alla reputazione di cui essi godono presso i colleghi ed il pubblico. Non si può immaginare -osserva il Maestro- che una
persona competente e capace non venga segnalata alle autorità da chi ha avuto modo di apprezzarne le doti.
4) Il commentatore Zhū Xī interpreta questo dialogo con riferimento alla situazione concreta del ducato di Wèi, i cui sovrani si erano dimostrati insensibili alla pietà filiale ed apparivano dunque indegni del loro titolo e delle loro funzioni. A suo parere, Confucio afferma che, se gli fosse chiesto di riformare lo Stato, egli si sforzerebbe innanzitutto di ristabilire la legittimità del potere, favorendo l’ascesa al trono di un principe fedele ai valori morali propugnati dalla tradizione. Mi pare, tuttavia, che, in questo modo, il Maestro manifesti l’intenzione di restaurare una piena corrispondenza tra il linguaggio politico e la realtà, riportando effettivamente in auge quei valori morali a cui i principi di Wèi rendono ormai un omaggio puramente formale. Ritengo perciò che il dialogo possa essere inteso, in senso molto più generale, come un’esortazione a lottare contro la vacuità, l’ambiguità e la confusione di quel tipo di linguaggio che noi oggi chiamiamo “politichese”. Il buon governo- ci spiega il Maestro- esige idee chiare espresse con parole precise. L’incapacità di esprimersi con chiarezza o, peggio ancora, il deliberato travisamento del significato delle parole non possono che condurre al disordine, all’inefficienza ed al collasso dell’apparato statale.
5) Troviamo qui un pensiero espresso anche in altri passi dei Dialoghi (cfr. ad es. il dialogo n.17 di questo stesso capitolo). I governanti non devono perdersi nei dettagli dell’amministrazione, preoccupandosi, come fa in questo caso Fán Chí, di acquisire competenze in ogni singolo settore di attività. Ciò che è determinante per governare con saggezza è l’adesione chiara, leale e consapevole ad alcuni valori fondamentali. Se esiste questo presupposto, il buon governo non ne sarà che una necessaria conseguenza.
6) Confucio ci mostra qui il suo senso pratico. Se non è accompagnata da risolutezza e spirito di iniziativa, anche la migliore formazione accademica non è di alcun aiuto nell’esercizio delle pubbliche funzioni.
7) Confucio sottolinea, con questa battuta, che i ducati di Lŭ 魯 國 e di Wèi 衛 國 , già ”fratelli” per origine storica,
trovano un ulteriore elemento comune nel malgoverno dei loro sovrani. L’uso del termine “fratelli” è , come ci spiega Zhū Xī, un riferimento erudito all’origine dei due Stati, i cui fondatori furono due fratelli, entrambi figli del re Wén dei Zhōu 周 文 王 . Il primo duca di Lŭ fu infatti Jī Dàn 姬 旦 , il famoso Duca di Zhōu 周 公, mentre il primo duca di Wèi fu suo fratello Kāng Shū Fēng 康 叔 封.
8) Il principe Jīng di Wèi 衛 公 子 荊 era figlio del duca Xiàn di Wèi 衛 獻 公 , che regnò a due riprese dal 576 a.C. al 559 a.C. e, successivamente, dal 546 a.C. al 544 a.C. Confucio ne loda il carattere tranquillo e sereno, che lo portava ad essere contento di ciò che possedeva anziché smaniare per sempre nuove ricchezze.
9) Questo dialogo ci mostra in che modo Confucio concepisca il progresso di uno Stato. Wèi ha già compiuto il primo passo in questa direzione perché possiede una popolazione stabile e numerosa, il che prova che esso poggia ormai su basi solide. Il passo successivo, nella visione del Maestro, che non manca di senso pratico (“primum vivere, deinde philosophari”) dovrà essere il raggiungimento della prosperità ( ricchezza e sviluppo economico).Tuttavia, una volta assicurato il progresso economico, non potrà mancare, a coronamento dell’intera evoluzione, il progresso intellettuale rappresentato dalla
diffusione della cultura e del sapere.
10) Questa affermazione di Confucio condivide l’ottimismo della precedente (dialogo n.11), prevedendo, nell’ipotesi di buon governo, il trionfo della virtù in un periodo ancor più breve. Mi sembra quindi un po’ stonato interpretare, come fanno alcuni, il termine 必 (“bì”) come “è necessario”, “occorre”, traducendo 必 世 (“bì shì”) con “occorrerebbe almeno una generazione”, quando, interpretandolo come“è certo”,”è sicuro”, si può tradurre “basterebbe una generazione”, espressione che mi sembra più conforme all’entusiasmo manifestato dal Maestro.
11) Ritorna qui il riferimento implicito all’etimologia dei due termini 正 (“zhèng” “”correggere”) e 政 (“zhèng” “governare”) che, mettendo in evidenza la loro comune derivazione da un unico significato originario ( “dritto”, “retto”,“giusto”), permette a Confucio di domandarsi scherzosamente come possano “raddrizzare lo Stato” coloro che non sono neppure capaci
di“raddrizzare sé stessi”.
12) Confucio negava, come ben sappiamo, la qualità di atti di governo alle attività svolte dalla famiglia Jì per esercitare le prerogative sovrane da essa usurpate ( amministrazione di talune città, riscossione delle imposte in talune regioni, mantenimento di proprie forze armate). Abbiamo già sentito, in un precedente dialogo, che Răn Yóu collaborava invece con i Jì nel ruolo di esattore fiscale e si era meritato per questo la riprovazione del Maestro.
13) Il duca Dìng di Lŭ 魯 定 公 regnò dal 509 a.C. al 495 a.C.
14) La formulazione del proverbio nel testo originale è la seguente: 為 君 難 為 臣 不 易 (“wéi jūn nán wéi chén bú yì) cioè “fare il sovrano è difficile, fare il ministro non è facile”.
15) La città di Yè 葉 sorgeva nel territorio dell’attuale contea di Yè 叶 县, situata nella provincia di Hénán 河 南 . Essa era stata data in feudo dal re di Chŭ 楚 国 al generale Shĕn Zhūliáng 沈 諸 粱 ,che era perciò conosciuto come “il duca di Yè” 葉 公 .
16) La città di Jŭfù 莒 父 sorgeva nel territorio dell’attuale contea di Jŭ 莒 县 , nella provincia di Shāndōng 山 东 .
17) Non si può certamente scorgere in questo dialogo una giustificazione del furto e dell’omertà che risulterebbe in pieno contrasto con tutto l’insegnamento di Confucio. Ci troviamo piuttosto di fronte ad un “conflitto di valori”. Il rispetto della legge imporrebbe infatti un obbligo di denuncia che si tradurrebbe inevitabilmente in una lesione del dovere della
pietà filiale. Il Maestro risolve il conflitto dando la prevalenza alla pietà filiale, valore fondamentale su cui poggia la famiglia, nucleo essenziale dell’esistenza umana, nei confronti della norma giuridica, che regola i rapporti esterni e rende così possibile la vita sociale. La posizione opposta, vale a dire l’esigenza del rispetto incondizionato della legge, quali che siano le
circostanze, è ben rappresentata dalla massima latina “fiat justitia, pereat mundus”.
L’approccio di Confucio è condiviso dalle legislazioni di molti Stati che non prevedono un obbligo di denuncia o di testimonianza a carico dei propri familiari in materia penale. Il secondo approccio trova invece significativamente sostegno nei sistemi politici totalitari. Nei primi anni del regime sovietico in Russia fu, ad esempio, ufficialmente lodato come modello di virtù civili un ragazzo, figlio di un contadino, che aveva denunciato alle autorità il padre, reo di aver nascosto una certa quantità di prodotti agricoli per sottrarli alle requisizioni ordinate dal governo.
18) I termini usati nel testo originale sono 斗 (“dŏu”, “mestolo”) e 筲 (“shāo”, “cesto”) che indicano piccole misure di volume. Essi vengono spesso usati anche per designare persone mediocri e prive di importanza.
19) Il concetto qui espresso da Confucio corrisponde ad un’idea largamente diffusa anche nella cultura greca e latina, che fu sintetizzata da Orazio nell’espressione “aurea mediocritas”.Colui che sa trovare nel proprio pensiero e nella propria azione la giusta misura, evitando qualsiasi eccesso, è infatti colui che più si avvicina all’ideale di vita del saggio.
20) Confucio loda qui la dote della costanza, requisito essenziale per svolgere funzioni di responsabilità come quelle dello sciamano o stregone ( che era tenuto a quei tempi in grande considerazione) e del medico.Egli cita, a questo riguardo , ciò che il Libro dei Mutamenti 易 經 (Yì Jīng) dichiara nella terza linea della spiegazione del trentaduesimo esagramma ䷟ 恆 ( “héng”, cioè “perseveranza”, “costanza”,”durata” ): “Chi non persevera nella sua virtù, si coprirà di vergogna ”不 恆 其 得 或 承 之 羞 “bú héng qí dé huò chéng zhī xiū”. Nello stesso capitolo del Yī Jīng figurano un’affermazione analoga: “L’uomo di valore è saldo e non cambia il proprio modo di agire” 君 子 以 立 不 易 其 方 “jūnzĭ yĭ lì bú yì qí fāng”, mentre lo Xiàng Zhuàn象 傳 afferma “Chi non persevera nella sua virtù, non troverà rifugio in alcun luogo ”不 恆 其 得 无 所 容 也 “bù héng qí dé wú suŏ róng yĕ”.
21) In questo dialogo Confucio osserva con acutezza che la popolarità di cui gode una persona non è un indizio da cui si debba necessariamente desumere che si tratta di una persona per bene. Come si constata molto spesso anche ai nostri giorni, alcuni diventano gli idoli delle folle proprio perché sanno assecondarne le debolezze e rappresentarne alla perfezione i vizi ed i difetti. Un galantuomo non è dunque chi è benvoluto dalla gente, ma chi è stimato dalle persone per bene.
21) Troviamo in questo dialogo una fine analisi del diverso atteggiamento psicologico dell’uomo di valore e dell’uomo dappoco nel ruolo di datori di lavoro o di superiori gerarchici.
L’uomo di valore non esige prestazioni eccezionali, ore straordinarie, rinunce alle vacanze ed al giusto riposo. Si accontenta che i suoi sottoposti svolgano correttamente e coscienziosamente il proprio lavoro, ma sa apprezzarne le vere capacità, senza lasciarsi trarre in inganno dall’adulazione o dal servilismo.
L’uomo dappoco, invece, non è mai contento dei servizi che gli vengono resi e pretenderebbe sempre di più. Essendo convinto di essere lui stesso una persona estremamente capace, vorrebbe circondarsi soltanto di collaboratori eccellenti, ma non è in grado di giudicare obiettivamente le qualità dei suoi dipendenti e si lascia facilmente sedurre dalle false
apparenze.
22) Confucio distingue nettamente il comportamento che il gentiluomo può tenere in casa da quello che deve tenere con gli amici. Nell’intimità della propria casa, in mezzo ai familiari, è lecito assumere un atteggiamento spontaneo, rilassato, informale. Nei rapporti con gli amici, che si svolgono in una sfera diversa, non bisogna invece mai dimenticare la serietà,
la dignità ed il decoro. Il rapporto di amicizia è uno dei rapporti fondamentali della vita sociale e deve sempre mantenersi ad un alto livello, non solo sul piano intellettuale e morale, ma anche su quello del rispetto delle forme, senza mai essere degradato da volgarità ed intemperanze o anche solo da mancanze di riguardo dovute ad una malintesa familiarità.
23) Mi sembra di dover interpretare questa affermazione di Confucio nel senso che “il buon cittadino fa il buon soldato”, cioè nel senso che il cittadino formato all’esercizio della virtù ed al rispetto dei valori civili e religiosi sarà anche pronto a combattere consapevolmente e coraggiosamente per difendere la propria patria. Non ritengo, invece, che questo passo si riferisca in modo specifico ad una formazione di tipo militare, sia perché il termine 教 “jiāo” indica l’insegnamento in generale , ed altri termini più precisi vengono di solito usati quando si vuole indicare l’istruzione militare, sia perché l’uso della congiunzione 亦 “yì”(“anche”) lascia pensare che la combattività sia uno dei risultati indiretti dell’insegnamento, mentre se l’addestramento fosse puramente militare essa ne sarebbe l’unico frutto.
24) Ritorna qui lo stesso problema già affrontato nella nota precedente. Sembrerebbe infatti logico tradurre 不 教 民 (“bù jiāo mín”) con“gente non addestrata”, giacché si può pensare che solo chi è stato formato all’arte della della guerra possa essere un buon combattente. Ma anche qui si può di nuovo osservare che, persone fornite di una certa cultura ed alle quali sia stata impartita una buona educazione civica, non solo risulteranno più motivate a combattere, perché meglio in grado di capire le ragioni di una guerra, ma saranno anche capaci di applicare con migliori risultati le tecniche belliche. Non è forse inutile ricordare come, dopo la sconfitta dei Francesi a Sédan nel 1870, un commentatore politico osservò che la guerra era in realtà stata vinta dai “maestri di scuola prussiani”, intendendo con ciò dire che il livello assai elevato dell’insegnamento scolastico in Prussia aveva permesso all’esercito prussiano di reclutare ottimi soldati. Ho quindi preferito tradurre 不 教 民con “gente impreparata”, termine che può adattarsi ad entrambe le letture.
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