ERRORI DI TRADUZIONE?
E’ noto che, in materia letteraria, qualche piccolo tradimento dell’originale è pratica corrente. Non per nulla si dice infatti che una traduzione non può essere bella senza essere anche un po’ infedele.
Ben diversi criteri valgono invece nel campo delle relazioni internazionali dove la regola di una piena ed assoluta corrispondenza dovrebbe sempre prevalere anche a scapito dell’eleganza della traduzione.
Considerata l’importanza delle questioni cui si riferiscono i documenti diplomatici non c’è dubbio che la loro traduzione sia di regola affidata ad esperti particolarmente qualificati e sottoposta a rigorosi controlli.
Ciononostante, la storia ci fornisce, anche in questo campo, numerosi esempi di traduzioni infedeli.
Come si spiegano queste discordanze?
Usualmente se ne attribuisce la colpa alla fretta, alla negligenza o all’incompetenza dei traduttori.
Vorrei tuttavia analizzare alcuni interessanti casi di presunti errori di traduzione per accertare se la responsabilità possa realmente esserne imputata ai discepoli di San Girolamo.
Cominciamo il nostro viaggio immaginario trasferendoci sulle coste della Cina.
Corre l’anno di grazia 1793. Un vascello inglese è ancorato presso l’estuario del fiume Báihé 白 河. L’inviato del governo inglese, Lord Macartney, attende l’arrivo delle giunche , messe a sua disposizione dal governo cinese, che trasporteranno lui e il suo seguito a Pechino.
Qualche giorno prima ha presentato alle autorità locali la traduzione in cinese delle lettere patenti che lo accreditano come ambasciatore del re d’Inghilterra presso il Celeste Impero affinché fosse trasmessa all’imperatore Qiánlóng 乾 隆.
La traduzione di questo documento non è stata facile. Il Padre Lĭ, un ecclesiastico di origine tartara imbarcato a Batavia per fungere da interprete e traduttore, conosce solo il latino. Lord Macartney ha dunque dovuto preparare un testo latino che è poi stato tradotto in mandarino dal Padre Lĭ. Il termine “ambasciatore” è stato reso in latino con “missus dominicus” che è diventato in cinese 欽 差 “ Qīn Chāi”, vale a dire l’ ”inviato del sovrano”.
Arrivano le giunche, sui cui ponti garriscono al vento bandiere variopinte ornate di ideogrammi che annunceranno ai
curiosi ammassati sulle rive del fiume il passaggio del 貢 史 “Gòng Shĭ” dell’Inghilterra.
Che cosa è successo? Forse le conoscenze linguistiche del povero Padre Lĭ erano carenti, ed un traduttore più esperto ha dovuto rivedere la traduzione?
Niente di tutto questo. Il termine scelto era linguisticamente ineccepibile, ma purtroppo era anche assolutamente
inaccettabile dal punto di vista politico.
Gli Inglesi infatti ignorano che l’unico sovrano , in tutto il mondo ( 天 下 "tiān xià"), è il Figlio del Cielo ( 天 子 " tiān zĭ"), colui che regna per mandato del Cielo ( 天 命 "tiān mìng") sull’Impero del Centro ( 中 國 "zhōng guó"), il faro della civiltà, l’unico Stato degno di questo nome, ai cui lontani confini brulicano masse confuse di popoli barbari che possono essere
oggetto di un’unica distinzione, quella fra barbari cotti ( 熟 番 "shú fān" ) e barbari crudi ( 生 番 "shēng fān ")﹐vale a dire fra coloro che sono pronti a riconoscere spontaneamente l’immensa superiorità della cultura cinese e coloro le cui intemperanze vanno domate con le armi.
Di conseguenza, l’ambasciatore del Re d’Inghilterra non potrà mai ambire al prestigioso titolo di Qīn Chāi, ma dovrà accontentarsi di quello, molto meno brillante, di Gòng Shĭ, “portatore di tributi”.
Considerata la divergenza totale dei punti di vista delle parti, già adombrata in questa controversia terminologica iniziale, la missione di Lord Macartney, che intendeva giungere all’instaurazione di rapporti diplomatici permanenti ed alla
conclusione di accordi di libero commercio, si concluse con un nulla di fatto.
Al momento della sua partenza da Pechino , Lord Macartney ricevette un messaggio dell’Imperatore Qiánlóng per il re Giorgio III.
Sfortunatamente – o, come vedremo più tardi, fortunatamente – questo messaggio non fu consegnato in originale, poiché non vi era a quei tempi in Inghilterra nessuno che fosse in grado di leggere il cinese, né vi era in Cina alcun mandarino a cui fosse mai venuto in mente che lo studio della lingua inglese potesse presentare il minimo interesse di natura politica, economica o culturale.
Fu dunque tradotto in latino dai Padri Gesuiti Nicolas Raux and Louis de Poirot che svolgevano, presso la Corte Imperiale, le funzioni di astronomi e matematici – funzioni riservate ai Gesuiti fin dai tempi del famoso Padre Matteo Ricci – e fu successivamente tradotto in inglese da Lord Macartney al suo ritorno in Gran Bretagna.
Alain Peyrefitte, che ha dedicato al tema del primo approccio diplomatico fra il Regno Unito ed il Celeste Impero, un intero
libro, intitolato, l’ ”Empire immobile” è riuscito a ritrovare, negli archivi della "Città Proibita”, il testo originale del messaggio, redatto in forma di editto imperiale.
Una traduzione fedele del messaggio, che esprimeva con assoluta sincerità il punto di vista dell’imperatore, suona pressappoco come segue:
“ Noi, Imperatore per la grazia del Cielo, ordiniamo al Re d’Inghilterra di prendere nota della nostra volontà.
Pur vivendo in un paese remoto, tu aspiri, o Re, alla civiltà. Ci hai dunque mandato un tuo messaggero che, prostratosi nove volte dinanzi a noi, ci ha presentato le felicitazioni per l’anniversario della nostra ascesa al trono e ci ha offerto prodotti della tua terra.
Egli ha così reso testimonianza della tua lealtà nei nostri confronti.
Abbiamo letto il tuo messaggio, i cui termini palesano il tuo zelo e mettono in luce la tua umiltà e la tua sincera obbedienza nei nostri riguardi.
Abbiamo trattato con favore il tuo inviato ed il suo seguito che sono venuti da così lontano ed abbiamo mostrato loro la nostra benevolenza.
Tu ci preghi, o Re, di autorizzare un tuo suddito a risiedere in permanenza nella nostra capitale per sovrintendere al commercio del tuo paese. Egli dovrebbe poter vivere alla maniera del suo paese, essere libero di spostarsi ove gli piaccia nel nostro impero e mantenere una regolare corrispondenza.
Questo non è possibile. Gli stranieri sono autorizzati a risiedere nella nostra capitale solo se entrano al nostro servizio. Gli inviati degli Stati vassalli che giungono alla nostra capitale sono sottoposti, senza alcuna eccezione, a precise regole di trattamento e non godono della libertà di comportamento e di circolazione che tu chiedi per il tuo inviato.
Non c’è bisogno, o Re, di un tuo rappresentante permanente che vegli sul commercio tra il nostro impero ed il tuo paese.Le
autorità cinesi hanno sempre garantito la disciplina e la giustizia nell’esercizio di tale commercio.
Anche se tu ammiri il nostro impero, non è necessario che un tuo rappresentante venga qui a studiare le nostre leggi e i nostri riti. Non sostituirai infatti certamente le nostre leggi e i nostri riti alle consuetudini del tuo paese.
L’imperatore, signore della terra e del mare, si consacra esclusivamente alle cure del buon governo. Gli oggetti rari e costosi non ci interessano. Tuttavia, poiché i prodotti che tu ci hai offerto testimoniano della tua lealtà, abbiamo ordinato espressamente alla Commissione per i tributi degli Stati vassalli di accettarli e di aggiungerli agli innumerevoli oggetti preziosi che ci sono stati offerti da coloro che sono venuti a prestarci omaggio.
Non vediamo però l’utilità di meccanismi ingegnosi né abbiamo alcun bisogno dei prodotti delle tue manifatture.
Abbiamo quindi congedato i tuoi inviati, portatori di tributi.
E’ sufficiente, o Re, che tu ti conformi ai nostri desideri, ribadendo la tua fedeltà nei nostri confronti e giurandoci perpetua
obbedienza per poter così godere dei benefici della pace.
Ricevi con rispetto ,o Re, i preziosi doni che ti inviamo e giudica da essi la nostra benevolenza verso di te”.
Non occorre essere un esperto di sfumature del linguaggio per comprendere che una simile lettera esprimeva una visione del mondo in cui l’Inghilterra era ritenuta occuparvi un posto assolutamente insignificante ed una gerarchia di valori in cui le idee inglesi erano ritenute del tutto irrilevanti.
E chiaro che , se i concetti in essa espressi fossero giunti tali e quali ai destinatari, non sarebbero stati accolti con rispetto ed
obbedienza, ma con delusione ed ostilità.
I Padri Gesuiti – intermediari tra due mondi così diversi – si resero conto dell’impossibilità di una traduzione fedele e fecero il
possibile, come essi stessi dichiararono in seguito nella loro corrispondenza privata, per eliminare dalla lettera “qualsiasi aspetto offensivo”.
Ottennero questo risultato grazie ad un abile gioco di piccole omissioni ed imprecisioni di traduzione che permisero loro di rendere più diplomatica la lettera senza alterarne sostanzialmente il contenuto.
Ad esempio, essi dimenticarono l’esordio della lettera e passarono direttamente al secondo periodo, che tradotto in latino, dava più o meno il risultato seguente:
“Tu, o Re, che abiti al di là dell’Oceano, mosso dalla tua naturale sensibilità, mi hai inviato un messaggero , il quale mi ha
presentato i tuoi rispettosi saluti in occasione dell’anniversario della mia ascesa al trono. Lo hai provvisto di lettere patenti e gli hai ordinato di venire da me e di offrirmi, in segno del tuo sincero affetto per me, doni e prodotti del vostro paese. Così egli ha fatto”.
In seguito, omisero l’inopportuno accenno alla Commissione dei tributi ed operarono alcuni altri interventi cosmetici.
Malgrado questo addolcimento, Lord Macartney si guardò bene dal diffondere il testo latino che gli era stato consegnato e lo tenne nascosto fra le sue carte fino alla morte, limitandosi a far pervenire al Ministero una relazione della sua ambasciata in cui inserì non già una traduzione in extenso della lettera di Qiánlóng, bensì un semplice riassunto
della stessa. Ciò gli permise, pur senza nascondere il sostanziale fallimento della missione, di omettere o di attenuare quanto più possibile le affermazioni lesive dell’onore britannico.
Si deve dunque concludere che le diverse traduzioni del documento contenevano gravi errori? A mio parere, si dovrebbe piuttosto considerare che gli “errori di traduzione” furono, in questo caso, l’unico strumento di cui poterono servirsi
persone di buona volontà per mascherare in qualche modo l’assoluta incompatibilità di vedute politiche, sociali, economiche e culturali che avrebbe portato nel giro di pochi decenni ad una serie di sanguinosi conflitti fra il Celeste Impero e le potenze occidentali.
Passiamo ora ad un “errore di traduzione” che riguarda direttamente la storia italiana.
Come racconta Indro Montanelli nel suo libro “L’Italia dei Notabili”, il 2 maggio 1889 il Negus Neghesti Menelik accolse nel suo accampamento di Uccialli il diplomatico italiano Antonelli e firmò un accordo il cui testo era stato stilato dal governo
italiano e di cui erano state preparate secondo gli usi diplomatici due versioni autentiche, una in lingua italiana ed una in lingua amarica.
Successivamente, una delegazione abissina guidata dal cugino di Menelik, Ras Makonnen, si recò a Roma , dove, il 2 dicembre 1889, le due versioni linguistiche dell’accordo furono firmate dalle competenti autorità italiane.
Apparentemente, nessuna delle parti contraenti aveva notato che la disposizione più importante di quello che fu poi chiamato il Trattato di Uccialli non aveva lo stesso significato in entrambe le versioni linguistiche.
Infatti, nel testo italiano, l’art.17 del Trattato disponeva quanto segue:” Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi
del governo di Sua maestà il Re d’Italia per tutte le trattative d’affari che avesse con altre Potenze o governi”, mentre il testo amarico, dichiarava:"የኢትዮጵያ ንጉሰ ነገስት ከኣውሮፓ ነገስታት ለሚፈልጉት ጉዳይ ሁሉ በኢጣሊያ መንግስት አጋዥነት መላላክ ይቻላቸዋል" ( ye’ītiyop’iya niguse negesiti ke’awiropa negesitati le mīfeliguti gudayi hulu be’īt’alīya menigisiti āgazhineti melalaki yichalachewali), che significava:” Il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con i Regni d’Europa mediante l’aiuto del governo del Regno d’Italia”. Ai termini italiani "consente di servirsi" , che indicano un impegno, corrisponde il termine amarico ይቻላቸዋል ("yichalachewali"), che si traduce con "può" e che implica, di conseguenza, una semplice facoltà.
La differenza non era di poco conto perché, secondo la formulazione italiana, il Trattato di Uccialli istituiva un vero e proprio
protettorato dell’Italia sull’Etiopia, mentre , secondo la formulazione amarica, consentiva semplicemente al Negus di utilizzare, quando lo ritenesse più conveniente, i canali diplomatici italiani.
Nel febbraio del 1890 , alcune Potenze europee, con cui Menelik aveva cercato di instaurare rapporti diplomatici diretti, chiesero all’Italia di precisare quale fosse la sua posizione rispetto all’Etiopia. Il governo italiano domandò allora chiarimenti al Negus, il quale dichiarò di sentirsi vincolato unicamente dalla versione amarica del Trattato e con una nota
ufficiale indirizzata ai governi inglese e tedesco respinse l’idea stessa dell’esistenza di un protettorato italiano sull’Etiopia.
Come fu possibile giungere ad una situazione di questo tipo?
La mia impressione è che si sia trattato, come dicono i francesi, di un “marché de dupes”.
E ‘infatti difficile immaginare che la traduzione di un testo di tale importanza fosse stata affidata ad una persona talmente incompetente e sprovveduta da fraintendere nel modo più completo la portata della disposizione più rilevante del Trattato, ed è ancor più impensabile che nessuno abbia provveduto, come è sempre stata prassi diplomatica abituale, ad una
collazione dei testi, da cui non avrebbe potuto non emergere un errore così plateale.
Se si escludono gravissime negligenze da parte di uno o di entrambi i contraenti nella conduzione dei negoziati, la spiegazione più probabile, per quanto la cosa possa sembrare inverosimile, è che le parti abbiano firmato in piena coscienza due versioni linguistiche divergenti dello stesso accordo.
Chi rappresentava il governo italiano aveva infatti interesse ad accettare la disponibilità di Menelik a firmare il testo italiano
dell’accordo, anche se il testo amarico firmato contemporaneamente era con esso incompatibile, nella convinzione
che i rapporti di forza tra l’Italia e l’Etiopia avrebbero a poco a poco costretto il Negus ad accettare come vincolante la versione italiana del Trattato.
Quanto a Menelik, la firma del Trattato gli permetteva nell’immediato di godere di importanti sovvenzioni e forniture militari da parte dell’Italia nonché dell’appoggio di quest’ultima nei confronti dei ras recalcitranti a riconoscere la sua autorità, mentre la versione amarica dell’art. 17 lo avrebbe autorizzato in futuro a negare di aver mai consentito ad
un protettorato italiano.
Si trattava di agire con diplomazia ed astuzia e di sperare nella fortuna.
Gli avvenimenti successivi dimostrarono che aveva calcolato giusto.
L’opinione pubblica italiana si chiese invece probabilmente come un errore così rilevante avesse potuto avesse potuto
infiltrarsi in un importante trattato internazionale senza che nessuno se ne accorgesse.
Se un presunto errore di traduzione portò alla disastrosa battaglia di Adua, un altro errore di traduzione avrebbe causato, secondo alcuni autori, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, un evento ancora più catastrofico: il lancio della bomba atomica sulle città di Hiroshima e Nagasaki.
Nel giugno del 1945, gli Americani, dopo aver cacciato le truppe nemiche dalle Filippine, si apprestavano a sbarcare sullo stesso territorio giapponese. Il governo giapponese, cosciente della piega inesorabile presa dall’andamento della guerra, aveva tentato di ottenere la mediazione dell’Unione Sovietica, con cui il Giappone aveva concluso nel 1941 un patto di neutralità, per sondare le possibilità di un armistizio con gli Stati Uniti. Dalle istruzioni inviate per messaggi radio cifrati
all’ambasciatore giapponese a Mosca, emergeva che il governo giapponese, pur desiderando intavolare un negoziato , sarebbe stato disposto, se nessuna altra soluzione fosse stata possibile, ad accettare la resa incondizionata, purché fossero
garantiti il rispetto della persona dell’Imperatore ed il mantenimento dell’istituto imperiale, che veniva identificato con l’essenza stessa dello Stato.
Il 26 luglio 1945 i capi delle Potenze Alleate, riuniti a Potsdam, emisero una dichiarazione che esigeva la resa incondizionata dei Giapponesi.
Venuto a conoscenza della dichiarazione di Potsdam, il primo ministro giapponese affermò, in una conferenza stampa, che non era possibile prenderla in considerazione in quanto essa non faceva che ripetere l’esigenza della resa incondizionata già formulata nella precedente dichiarazione emessa dagli Alleati al Cairo nel 1943.
Il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica fu sganciata sulla città di Hiroshima.
L’ 8 agosto l’Unione Sovietica denunciò il patto di neutralità firmato con il Giappone ed invase la Manciuria. Il 9 agosto una
seconda bomba atomica fu lanciata sulla città di Nagasaki.
Un termine usato dal primo ministro giapponese nella sua conferenza stampa fu oggetto , in quei giorni, di grandi discussioni, in quanto dalla sua interpretazione sembrava dipendere l’esatto significato della presa di posizione del governo giapponese.
Il termine in questione era il verbo “mokusatsu” 黙 殺, di uso abbastanza raro, composto dalle voci “moku” 黙 (silenzio) e “satsu” 殺 (uccidere), letteralmente “uccidere con il silenzio”.
Era evidente che si trattava di un rifiuto in quanto il governo giapponese, ancora mosso da una fievole speranza di negoziare le condizioni di resa , non avrebbe potuto accettare immediatamente e pubblicamente la dichiarazione di Potsdam che escludeva a priori qualsiasi trattativa.
Il nocciolo della questione era in realtà un altro: occorreva stabilire, apparentemente sulla sola base della dichiarazione del
primo ministro giapponese, se il termine “mokusatsu” indicasse la determinazione a resistere ad oltranza oppure un rigetto delle condizioni su cui si sarebbe potuti ritornare entro un tempo più o meno breve.
I dizionari giapponesi riportavano in proposito una serie di sfumature di significato che andavano da “trascurare” a “respingere con sdegno”. Ciascuna sfumatura di significato avrebbe ovviamente fornito un’impressione diversa del grado di ostinazione dei Giapponesi nel proseguire la lotta.
La scelta di un termine ambiguo fu probabilmente intenzionale in quanto il governo giapponese si rivolgeva contemporaneamente a pubblici diversi, ai quali intendeva far giungere messaggi diversi: sul piano interno, esso non poteva mostrare intempestivamente segni di cedimento che avrebbero disorientato la popolazione e spinto l’ala oltranzista dell’esercito ad iniziative disperate, che sarebbero potute giungere sino ad un colpo di stato; sul piano internazionale, esso doveva mostrare la disponibilità ad un accordo senza perdere la faccia e cercando, se possibile, di salvaguardare qualche possibilità di negoziato.
Alcuni conoscitori della mentalità orientale hanno sottolineato che un atteggiamento come quello adottato dal primo ministro giapponese corrispondeva inoltre ad un’attitudine tipica degli Asiatici: un’ingiunzione che lede gravemente l’onore o la dignità non può essere accettata immediatamente, ma deve in primo luogo essere respinta; solo dopo un più o meno breve periodo di pausa e di meditazione, la persona cui tale ingiunzione è rivolta, dopo aver fatto constatare che non ci sono altre vie d’uscita, può sottomettersi alla dura realtà senza perdere la faccia.
L’intenzione del governo giapponese era quindi, a mio parere, che i due diversi pubblici a cui lo stesso messaggio era indirizzato l’interpretassero in modo differente, scegliendo diverse sfumature di significato.
All’interno del Giappone, ciò avvenne. I traduttori dell’agenzia di stampa Domei, incaricati di tradurre la notizia in inglese per diffonderla a livello internazionale, reagirono infatti , come avrebbe reagito qualunque Giapponese abituato da cinque anni a sentirsi ripetere che il paese non avrebbe mai ceduto, e tradussero “mokusatsu” con “reject”. Il governo respingeva puramente e semplicemente la proposta di resa senza condizioni.
Per quanto riguarda il governo americano, sarebbe tuttavia semplicistico pensare che esso abbia fondato le proprie decisioni unicamente sulla traduzione fornita dalla Domei. Non si può infatti immaginare che esso non si rendesse conto che tutte le prese di posizione ufficiali del governo giapponese dovevano necessariamente tenere conto del fronte interno e che, perciò, era indispensabile leggere tra le righe.
Occorreva quindi valutare, in base ad un’interpretazione autonoma del testo, la disponibilità dei Giapponesi a deporre le armi. Qualora infatti i Giapponesi fossero stati decisi a combattere ad oltranza, gli Stati Uniti avrebbero dovuto scegliere tra il sacrificio di centinaia di migliaia di soldati che sarebbero probabilmente periti nel corso dell’invasione del territorio giapponese e l’uso di nuove terribili armi di sterminio che avrebbero potuto risolvere la guerra in pochi giorni. Il Presidente Truman chiese quindi ad alcuni esperti di lingua giapponese un’analisi approfondita dei termini figuranti nella dichiarazione del primo ministro giapponese ed in particolare del termine che esprimeva il rifiuto della resa incondizionata.
Gli esperti di lingua giapponese consultati dal presidente Truman avrebbero risposto che il termine “mokusatsu” andava
interpretato nel contesto come avente il significato di “respingere fermamente” ed indicava pertanto una ostinata determinazione a resistere che avrebbe potuto essere piegata solo con il ricorso a strumenti eccezionali. Non si sa se essi
abbiano accennato o meno al fattore metalinguistico che induce gli Asiatici ad assumere quando si tratta di esprimere consenso o dissenso posizioni assai meno nette di quelle a cui sono abituati gli Europei e gli Americani, ricorrendo non
di rado ad espressioni ed atteggiamenti difficili da decifrare.
Gli esperti linguistici effettuarono qui una scelta che corrispondeva ai dati di fatto in loro possesso e che li portò ad
interpretare il termine alla luce di un determinato contesto. Essi ignoravano ovviamente che i servizi segreti americani avevano scoperto da tempo la chiave dei cifrari giapponesi e che il governo americano era quindi al corrente dei
messaggi secreti scambiati tra il governo giapponese ed il suo ambasciatore a Mosca, dai quali traspariva comunque l’idea di accettare la resa, purché fossero fatte salve la persona dell' Imperatore e l’istituzione imperiale. Se fossero stati a
conoscenza di questi elementi, avrebbero probabilmente dato al termine in questione un’interpretazione più blanda.
Ma se il governo americano era a conoscenza di questi elementi, ci si può domandare perché accettò un’interpretazione sulla cui esattezza, alla luce delle informazioni in suo possesso, avrebbe potuto nutrire qualche ragionevole dubbio?
Una spiegazione può essere ricercata nel fatto che il governo degli Stati Uniti era probabilmente anche al corrente dell’intenzione dell’Unione Sovietica di denunciare il patto di neutralità con il Giappone e di invadere dal Nord il territorio giapponese. Solo una conclusione immediata della guerra avrebbe potuto impedire ai Sovietici di occupare larga parte del
territorio giapponese e di far valere il loro tardivo intervento a fianco degli Alleati nello scacchiere orientale come un ulteriore credito nell’ambito della successiva determinazione delle rispettive sfere di influenza tanto in Europa quanto in Asia.
Ufficialmente, il governo americano ha sempre dichiarato che risultava dagli elementi di giudizio in suo possesso che il governo giapponese era intenzionato a continuare la lotta fino allo stremo delle forze e che solo il ricorso ad un’arma eccezionale come la bomba atomica aveva evitato molti mesi di ulteriori battaglie e di ulteriori stragi.
Tuttavia lo scandalo politico che qualche tempo fa costrinse alle dimissioni il Ministro della Difesa del Giappone, il quale aveva affermato che i Giapponesi dovevano essere riconoscenti agli Americani perché il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki aveva impedito un’occupazione sovietica del Giappone, lascia pensare che l’ipotesi di cui ho appena fatto cenno non sia del tutto campata in aria.
Per rimanere in Giappone, è interessante osservare che errori di comprensione degli ideogrammi, paragonabili a veri e propri errori di traduzione, possono essere compiuti dagli stessi Giapponesi.
Gli ideogrammi furono infatti importati dalla Cina nel VI° secolo d.C., attraverso la Corea, e furono dapprima utilizzati per la
descrizione dei semplici oggetti e concetti della natura e della vita quotidiana e fatti corrispondere a vocaboli giapponesi autoctoni.
In seguito all’evoluzione politica e sociale determinata in larga misura dall’intensificarsi dei rapporti con la Cina sorse tutta una serie di nuovi concetti della vita politica, sociale, religiosa, artistica ed economica che i Cinesi esprimevano mediante parole composte formate da più ideogrammi.
Vi furono, nel corso del tempo, diversi periodi nei quali l’influenza cinese fu particolarmente sentita ed in ciascuno di questi periodi vennero introdotti vocaboli cinesi pronunciati secondo l’uso dell’epoca. Gli ideogrammi stessi venivano poi ad assumere a seconda del contesto in cui si trovavano o degli ideogrammi che li accompagnavano diversi significati o
sfumature di significato.
La diversa lettura di un ideogramma può quindi, in un contesto non particolarmente chiaro, condurre ad una comprensione errata del suo significato.
Un caso di questo genere si produsse nel 1614 con conseguenze di estrema rilevanza politica e personale per tutti i protagonisti anche se non risulta chiaro nemmeno oggi in quale misura ciascuno di essi fosse in buona fede o in
mala fede.
Nella primavera del 1614 la dama di Yodo, vedova di Toyotomi Hideyoshi, fece fondere una enorme campana di bronzo,
recante l’iscrizione in ideogrammi “Kokka Ankō”, 国 家 安 康 vale a dire “ Pace e Sicurezza per la Nazione”, che intendeva donare con una solenne cerimonia al tempio Hokoji di Kyoto, e ne informò l’anziano generale Tokugawa Ieyasu 徳 川 家 康
che risiedeva in Edo, la futura Tokyo.
Hideyoshi aveva governato il Giappone dal 1582 al 1598, ma alla sua morte, il figlio Hideyori era ancora troppo giovane per occuparne la posizione ed aveva dovuto accontentarsi di mantenere il controllo del suo feudo di Osaka, sebbene ambisse ad esercitare un giorno la stessa autorità del padre a livello nazionale.
Ieyasu, che aveva raccolto la successione di Hideyoshi, dopo aver sbaragliato i suoi più importanti rivali nella battaglia di
Sekigahara, cercava da parte sua di concentrare tutto il potere nelle mani della famiglia Tokugawa e, già avanti negli anni, aveva nominato Shogun, cioè comandante supremo delle forze armate, il figlio Hidetada.
I rapporti tra le due famiglie erano di concorrenza spietata, ma sempre improntati alla massima correttezza formale.
Contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati, Ieyasu non rispose alla partecipazione con una cortese lettera di felicitazioni, ma con un messaggio furibondo in cui ingiungeva ai Toyotomi di annullare la cerimonia e di consegnarli la loro più importante piazzaforte, il castello di Osaka.
Il rifiuto di Hideyori diede origine ad un conflitto armato che doveva concludersi nel giro di pochi anni con lo sterminio
dell’intero clan Toyotomi.
Ciò che aveva scatenato la furia di Yeyasu era l’iscrizione riportata sulla campana, ma che cosa ci poteva essere di così
terribile in un pio auspicio di pace e di sicurezza per tutti?
L’iscrizione era composta di quattro ideogrammi , che indicavano rispettivamente i suoni kok(u) 国 , ka 家 , an 安 , kō 康, raggruppati a coppie in due parole distinte: “kokka” 国 家 e “ankō” 安 康.
Ora il secondo ideogramma 家 ed il quarto ideogramma 康 potevano anche essere letti “ie” e “yasu”, proprio come la combinazione di ideogrammi 家 康. che formava il nome Ieyasu. Ancora una volta possiamo domandarci che cosa ci fosse di abnorme nel fatto che anche una diversa serie di ideogrammi potesse essere letta come Ieyasu” pur avendo manifestamente un significato diverso da quello del suddetto nome proprio.
Per avere una risposta, basterà citare una strofa dalla poesia "El Golem" di Jorge Luis Borges:
“Si como diz el griego en el Cratilo
el nombre es arquetipo de la cosa
en el nombre de rosa està la rosa
y todo el Nilo en la palabra Nilo”.
che si riferisce a credenze largamente diffuse in tutte le epoche ed in tutti i paesi del mondo.
Se l’essenza di una persona risiede nel suo nome, si può tentare di ucciderla spezzandone il nome, proprio come aveva fatto chi aveva inserito in distinti vocaboli due ideogrammi che potevano essere pronunciati in modo da formare il nome Ieyasu.
In altre parole, siamo in piena magia nera.
Tale interpretazione, secondo i Tokugawa, risultava ulteriormente rafforzata dal fatto che tra i due ideogrammi che
formavano il nome odiato dai Toyotomi fosse stato inserito il carattere “an” 安, vale a dire “pace”, quasi a voler significare che la tranquillità dell’intero paese potesse nascere soltanto dallo smembramento e dalla dissoluzione di Ieyasu.
Tuttavia, non sapremo mai se la dama di Yodo desiderasse semplicemente esprimere un sincero desiderio di pace , se intendesse invece invocare la morte di Ieyasu o se volesse mescolare insieme, in un groviglio imperscrutabile, auguri e maledizioni, così come non sapremo mai se Ieyasu abbia veramente creduto al malocchio o se abbia solamente approfittato del pretesto fornito da una diversa lettura degli ideogrammi per regolare definitivamente i conti con i Toyotomi.
Non saremo quindi mai in grado di dire se, in questo caso, ci sia stato o meno un errore di “traduzione”.
A titolo di pura curiosità, nell’ambito degli errori di traduzione che avrebbero avuto gravissime conseguenze in tempo di guerra, possiamo ricordarne uno che avrebbe contribuito a causare il terribile bombardamento aereo dell’Abbazia di Montecassino avvenuto il 15 febbraio 1944.
Il bombardamento di un edificio sacro, il cui altissimo valore religioso, storico, artistico e culturale era stato più volte
espressamente ricordato alle autorità alleate tanto dalla Santa Sede quanto dal Governo italiano (allora presieduto dal maresciallo Badoglio) provocò enorme emozione in tutto il mondo.
In seguito alle energiche proteste della Santa Sede e di fronte allo sgomento di molti cattolici , il governo americano promise che avrebbe fornito entro breve tempo le prove inconfutabili che il bombardamento era stato il frutto di un’”assoluta necessità militare” in quanto l’Abbazia sarebbe stata occupata da forze combattenti tedesche, la cui presenza entro le sue mura avrebbe potuto influenzare in modo decisivo l’esito della battaglia ingaggiata dagli Alleati per sfondare la linea Gustav.
Ora, tra il materiale raccolto a tale scopo ( che però non fu mai trasmesso al Vaticano né presentato all’opinione pubblica), figurava la testimonianza del capitano David Hunt, aiutante di campo del feldmaresciallo Harold Alexander, comandante supremo delle forze alleate in Italia, il quale ricordava di aver letto, quando ormai il bombardamento era stato ordinato, la traduzione di una conversazione radio fra due ufficiali tedeschi intercettata nei pressi di Cassino dallo spionaggio alleato.
La traduzione riportava fra l’altro,le due seguenti, frasi:
Interlocutore A: “La compagnia si trova ancora nell’Abbazia ?”.
Interlocutore B: “Sì”.
Incuriosito, egli avrebbe controllato l’originale ( a questo riguardo non è ben chiaro se con ciò si intendesse la registrazione della conversazione o la sua trascrizione) ed avrebbe trovato le seguenti espressioni:
Interlocutore A : “Ist der Abt noch im Münster?“
Interlocutore B : „Ja, mit den Mönchen“,
la cui traduzione corretta è manifestamente quella che segue:
Interlocutore A: “L’abate è ancora nel monastero?
Interlocutore B : “Sì, con i monaci”.
La traduzione erronea, così gravida di conseguenze, sarebbe stata effettuata, come racconta Bradford Evans nel suo libro “The bombing of Monte Cassino” da un giovane ufficiale inesperto.
Come si può essere arrivati ad un simile errore?
Mi sembra anzitutto da escludere che l’intercettazione e la traduzione dei messaggi scambiati fra le unità tedesche potesse essere affidata a persone incapaci di comprendere perfettamente una conversazione svolta in lingua tedesca o di cogliere pienamente il significato di un testo scritto in tale lingua.
L’errore sarebbe potuto nascere più facilmente da una traduzione effettuata sulla trascrizione dell’intercettazione in quanto l’abbreviazione corrente di Abteilung (compagnia, sezione, reparto militare) è Abt. che può abbastanza facilmente essere confuso con Abt (Abate), a condizione però che si trascuri il puntino indicativo dell’abbreviazione, che il termine non sia accompagnato dall’articolo o che il traduttore sia incerto sul genere dei nomi in questione.
Più difficile invece pensare ad un errore nel caso di una traduzione effettuata direttamente dalla conversazione intercettata o dalla sua registrazione giacché nell’ambito di una conversazione il termine “Abteilung” sarebbe stato pronunciato per intero ed un’errata traduzione sarebbe potuta derivare soltanto da un ascolto così disturbato da rendere irriconoscibili alcune parole.
La risposta “Sì, con i monaci”, sarebbe stata ridotta al solo “Sì”, in quanto il traduttore avrebbe ritenuto che “monaci” fosse un vocabolo in codice per indicare i paracadutisti tedeschi anch’essi vestiti di grigio come i monaci benedettini.
La spiegazione più plausibile dell’errore può forse essere trovata in un articolo pubblicato nel 2004 da Roberto Rotondo, il quale osserva che il bombardamento fu effettuato dopo tre mesi di sanguinosissimi ed inutili attacchi lanciati dalle truppe
alleate contro lo schieramento tedesco, al centro del quale si trovava esattamente l’Abbazia di Montecassino. E’ vero che l’Abbazia era stata neutralizzata e che non ospitava nessun militare tedesco, ma le posizioni tedesche erano piazzate a pochi metri dalle sue mura e, col passare del tempo, essa finì per essere percepita, anche se inconsciamente, dai soldati e dai comandanti alleati come il simbolo della ostinata resistenza tedesca. La presenza di questo enorme edificio intatto in mezzo alle linee nemiche ricordava dolorosamente agli alleati la crudele sosta imposta alla loro avanzata. Da ciò a pensare che esso non potesse non essere utilizzato da un nemico infido e capace di qualsiasi bassezza il passo psicologico era
brevissimo.
Nelle settimane precedenti il bombardamento si moltiplicarono gli avvistamenti di “osservatori nemici” che spiavano dalle finestre del monastero, le constatazioni di tiri dell’artiglieri tedesca che, per la loro precisione, non potevano non essere stati orientati dalle informazioni di questi osservatori, le dichiarazioni di rifugiati italiani provenienti dall’Abbazia che avrebbero visto circolare al suo interno militari tedeschi, le scoperte di postazioni mimetizzate da parte di aerei da ricognizione che avevano sorvolato l’edificio.
Non ci fu quindi in realtà alcun errore di traduzione.
Il giovane ufficiale inglese sentì o lesse effettivamente “Abteilung” perché già sapeva, al di là di “ogni ragionevole dubbio”, che l’Abbazia “era occupata dai Tedeschi” e trovò assolutamente normale che un’ulteriore conferma di questo fatto venisse ad aggiungersi alla valanga di “prove inconfutabili” che gli Alleati erano convinti di possedere.
Quanto all’Abate ed ai monaci di Montecassino, essi continuarono a negare, anche dopo la fine della guerra, che un solo soldato tedesco si fosse mai installato all’interno dell’Abbazia durante tutto il periodo compreso fra l’inizio dei combattimenti ed il bombardamento.
Un’ ultima famosa “ traduzione inesatta” su cui vorrei soffermarmi è quello che riguarda la risoluzione 242 adottata dal
Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella sua riunione del 22 novembre 1967 in seguito alla guerra dei sei giorni tra Israele e gli Stati Arabi.
Le versioni di questa risoluzione nelle varie lingue ufficiali dell’organizzazione internazionale divergono infatti su un punto sostanziale.
Mentre il testo inglese afferma che una giusta e duratura pace in Medio Oriente dovrà basarsi sull ‘applicazione di due principi, il primo dei quali viene indicato come” withdrawal of Israel armed forces from territories occupied in the recent conflicts”, il testo francese, cui corrispondono sostanzialmente anche i testi nelle restanti lingue ufficiali, riporta tale principio come “retrait des forces armées israeliennes des territoires occupés au cours du recent conflit".
La differenza di formulazione divenne in breve tempo l’oggetto di un accanito dibattito politico e linguistico perché secondo Israele la risoluzione poneva come requisito per una pace giusta e duratura il ritiro di Israele solo da alcune delle zone occupate, che avrebbero potuto essere successivamente definite nell’ambito di un negoziato di pace, mentre, secondo gli Arabi, essa poneva come conditio sine qua non per qualsiasi sistemazione permanente il previo ritiro di Israele da tutti i territori occupati.
Occorre notare, a titolo preliminare, che delle sei lingue ufficiali dell’ONU ( francese, inglese, russo, cinese, arabo e spagnolo ), solo due, il francese e l’inglese, sono usate come lingue di lavoro dell’organizzazione.Nel caso di specie, la bozza di risoluzione che fu poi approvata dal Consiglio di Sicurezza, a preferenza di altre quattro bozze di risoluzione, era stata presentata dall’ambasciatore inglese presso le Nazioni Unite, Lord Caradon, ed era quindi redatta in inglese.
Come risulta dalla personale testimonianza dell’autore della bozza, nel corso della discussione sulla bozza, egli respinse proposte di emendamenti che suggerivano di far precedere il termine “territories” dall’articolo determinativo “the” oppure
dall’aggettivo “all”. La bozza fu dunque approvata nella versione voluta dal suo estensore e non va dimenticato che una delle quattro bozze alternative accantonate dal Consiglio di Sicurezza riportava precisamente l’espressione “all territories”.
Vi fu in seguito certamente un controllo ed una collazione delle versioni nelle altre lingue ufficiali, tant’è vero che una prima traduzione spagnola che riportava l’espressione “todos los territorios” fu corretta con la soppressione dell’aggettivo “todos”.
Il membro francese del Consiglio di Sicurezza affermò poi, nel corso del dibattito successivo al voto, che l’espressione “retrait… des territoires occupés…” corrispondeva innegabilmente all’espressione “withdrawal from…territories occupied”…, senza che nessuno si prendesse la briga di contestare tale dichiarazione.
Ci troviamo dunque di fronte ad una strana situazione in cui i diversi firmatari di un documento dichiarano espressamente che due versioni linguistiche dello stesso documento hanno identico significato e che non c`è pertanto alcun errore di traduzione, senza che ciò impedisca a questi stessi firmatari di appoggiarsi ciascuno alla propria versione linguistica del documento per fornirne interpretazioni assolutamente incompatibili l’una con l’altra.
Ritengo inutile esaminare i raffinatissimi argomenti interpretativi che furono addotti dalle parti in causa e dai loro sponsor politici per difendere l’una o l’altra interpretazione, perché sono convinto che, anche in questo caso, la discordanza dei testi e l’ambiguità dell’interpretazione furono deliberatamente volute.
Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ,che appoggiavano Israele, ritenevano, come è stato messo in evidenza da varie testimonianze, che la linea di confine risultante dall’armistizio del 1948 tra Israele e i Paesi Arabi, la quale non corrispondeva alla proposta di spartizione della Palestina formulata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1947, ma piuttosto alle posizioni tenute dai diversi eserciti al momento della cessazione delle ostilità, delimitasse in taluni casi territori ( la Cisgiordania, Gaza, parte dell’altopiano del Golan) appartenuti prima all’Impero Ottomano, successivamente al Mandato britannico sulla Palestina, che non avevano mai fatto parte, de jure, di uno Stato arabo e che avrebbero potuto
costituire in parte oggetto di negoziato per garantire ad Israele frontiere più chiare e più sicure.
Questo approccio sarebbe potuto risultare assolutamente chiaro, se la bozza di risoluzione avesse posto dinanzi al termine “territories” l’aggettivo “some” o altro termine di valore equivalente, ma il realismo politico degli Stati Uniti e della Gran Bretagna aveva fatto loro capire che la soppressione dell’articolo “the” e la conseguente ambiguità del testo inglese era il punto più avanzato a cui potessero arrivare su questa strada senza pregiudicare l’approvazione della bozza di risoluzione.
Dal canto loro, le potenze più favorevoli alle tesi degli Stati Arabi, vale a dire la Francia, la Russia e la Cina, si erano rese perfettamente conto, nel corso della discussione, che qualsiasi tentativo d’inserire nel testo inglese un elemento tale da chiarire in modo incontrovertibile l’obbligo del ritiro da tutti i territori occupati sarebbe fallito per la decisa opposizione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna ed avevano capito che il miglior risultato che potessero conseguire era quello di far redigere versioni ufficiali della risoluzione nelle lingue diverse dall’inglese che cercassero di contrastare l’ambiguità del testo
inglese mantenendo l’articolo determinativo, ma senza spingersi fino all’inserimento di un aggettivo come “tutti” che avrebbe sottolineato in modo clamoroso la discordanza con il testo inglese e che non si sarebbe mai potuto attribuire, diplomaticamente, ad una svista dei traduttori.
Si riprodusse qui, a mio avviso, una situazione analoga a quella del Trattato di Uccialli, vale a dire i sostenitori di diversi approcci politici accettarono coscientemente di formulare in modo diverso le diverse versioni linguistiche di un documento, sperando ciascuno che i successivi sviluppi della politica mondiale gli avrebbero dato ragione ed avrebbero così confermato la sua specifica interpretazione.
E, ad onor del vero, bisogna riconoscere che, per quanto la diatriba sulla risoluzione n.242 si trascini ormai da decenni, nessuno degli innumerevoli politici, diplomatici, scrittori e linguisti intervenuti ha mai asserito che la “traduzione inesatta”
del passo controverso possa essere “un errore di traduzione”.
Questo rapido esame di alcuni casi particolarmente importanti di discordanze fra diverse versioni linguistiche di uno stesso testo ci porta quindi a negare nella maggior parte delle fattispecie che abbiamo esaminato l’esistenza di errori di traduzione, essendo chiaramente risultato od essendo pressoché sicuro che la traduzione inesatta fu deliberatamente voluta od accettata dalle superiori autorità.
Nei pochi casi in cui non è da escludere un errore di traduzione, si può tuttavia essere generosi con i traduttori che hanno sbagliato, giacché le gravi decisioni che furono adottate in determinate circostanze sembrano essere state prese sulla base di valutazioni politiche o militari alla cui formazione le traduzioni controverse hanno contribuito, a mio modesto parere, in maniera minima.
Giovanni Gallo
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