Chi era Turandot?
Perché la bella e crudele Turandot, la figlia dell’ Imperatore della Cina che il principe Calaf vuole conquistare a rischio della vita, porta un nome che non ha nulla di cinese? Chi era, in realtà, Turandot?
Se vogliamo saperlo, dobbiamo percorrere un lungo cammino a ritroso nel tempo.
Giacomo Puccini ebbe l’idea di comporre l’opera in seguito ad un incontro con i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni avvenuto a Milano nel marzo del 1920.
Il tema però non era nuovo ed era già stato trattato da molti scrittori, autori teatrali e compositori.
Poco tempo prima, Ferruccio Busoni (1866-1924) aveva ripreso e rielaborato per un’opera della quale aveva scritto lui stesso il libretto (in tedesco) la musica di scena che aveva composto nel 1905 per una rappresentazione della tragicommedia settecentesca “Turandot” di Carlo Gozzi. La prima della “Turandot” di Busoni aveva avuto luogo allo Stadttheater di Zurigo l’11 maggio 1917.
In precedenza, Antonio Bazzini (1818-1897), professore al Conservatorio di Milano, dove studiò Puccini, aveva composto, su libretto di Antonio Gazzoletti, un’opera intitolata la ”Turanda”, che era stata rappresentata alla Scala il 13 gennaio 1867. (1)
Nel 1801 Friedrich Schiller aveva tradotto in tedesco, con il titolo “Turandot, Prinzessin von China”, la già citata fiaba teatrale di Carlo Gozzi, che era poi stata rappresentata in teatro a Weimar nel 1802 con la regia di Johann Wolfgang Goethe. (2)
Come si vede, tutte le elaborazioni della storia di Turandot, a partire dal XIX° secolo, si rifanno alla tragicommedia di Carlo Gozzi (1720-1806) in cinque atti “Turandot”, in italiano e veneziano, rappresentata per la prima volta il 22 gennaio 1762, nella quale già ritroviamo i principali personaggi con i nomi che conservarono in seguito: Turandot, Calaf, Timur, Altoum. (3)
Gozzi aveva, da parte sua, trovato ispirazione in una raccolta di favole orientali intitolata “Les mille et un jours”, pubblicata in cinque volumi, tra il 1710 e il 1712, dall’orientalista francese François Pétis de la Croix (1653-1713), il quale asseriva di aver tratto il materiale da un libro persiano intitolato "Mille e un giorno" (“hazar u yek ruz”هزار و یک روز),vendutogli, a suo dire, da un derviscio di nome Mocles o Moklas ad Isfahan nel 1675.
Questo libro non fu mai trovato nelle carte del Pétis de la Croix e non si può quindi stabilire con certezza se le storie che figurano nell’opera di quest’ultimo siano state da lui semplicemente tradotte oppure rielaborate, se non addirittura, almeno in parte, inventate. (4)
È comunque indiscutibile che, anche se ideò lui stesso lo schema del libro, che riecheggia quello delle “Mille e una notte”, e scrisse lui stesso le storie che ne fanno parte, il Pétis de la Croix, che aveva una profonda conoscenza delle culture araba e persiana grazie ai suoi lunghi soggiorni nei paesi del Medio Oriente, trasse gli spunti originali delle sue storie da racconti diffusi in tali paesi.
Riprendendo l’idea che sta alla base delle “Mille e una notte”, il narratore immagina che, per indurre la principessa Farruknaz, figlia di Togrul Bey, re del Kashmir, ad abbandonare la sua diffidenza verso gli uomini, da lei ritenuti incostanti ed ingrati, la nutrice le narri una serie di storie che provano il contrario. (5) Tra queste figura la “Histoire du prince Calaf et de la Princesse de la Chine ».(6)
Per questo racconto è, d’altra parte, possibile trovare una fonte persiana del XII° secolo, che, se è la prima a narrarci la storia della Turandot, non può tuttavia, per evidenti ragioni cronologiche (7), essere collegata- mi si perdoni il gioco di parole - alla Turandot della storia.
Si tratta del poema “Le Sette Bellezze”, letteralmente “I Sette Ritratti” (“Haft Peykar” هفت پیکر ) di Nizāmī Ganjavī نظامی گنجوی (1141-1206), noto anche come “Il Libro di Bahram”(“Bahramnameh” بهرامنامه).
La cornice del poema è la seguente:
Il re sassanide Bahram Gur بهرام گور (8) fa costruire per le sue sette mogli, provenienti da paesi diversi, un palazzo in cui ciascuna di esse dispone di un appartamento con una cupola di colore differente. Ogni giorno il re visita una delle mogli, fa festa con lei ed ascolta una favola che ella gli racconta. Nella “Storia narrata il martedì dalla principessa russa nel padiglione rosso dedicato a Marte” troviamo, per la prima volta, la “trama” della “Turandot “, anche se i personaggi non hanno nome.
La protagonista della favola, bella e intelligente, è convinta che nessun uomo sia degno della sua mano. In seguito alle insistenze del padre accetta tuttavia di sposare chi riesca a soddisfare quattro condizioni da lei poste, che sono: essere di nobile stirpe, scoprire il castello in cui s’è ritirata, trovare la porta nascosta che permette di entrare nel castello, risolvere alcuni enigmi. Chi non riuscirà a superare tutte le prove sarà messo a morte. Affascinati da un ritratto della bella appeso ad una delle porte della capitale, i pretendenti accorrono a frotte, incuranti del rischio, e fanno tutti una brutta fine. Un giorno, tuttavia, un bel principe, coraggioso, prudente ed intelligente riesce a penetrare nel castello, risolve gli enigmi e sposa la principessa.
Il poema di Nizāmī non ci fornisce alcuna indicazione utile ad identificare Turandot. In esso manca del tutto l’ambientazione cinese che noi troviamo, cinque secoli più tardi, nel racconto del Pétis de la Croix e che deriva manifestamente da un altro filone narrativo. Può darsi che l’orientalista francese abbia mescolato lui stesso i due filoni, ma è ancor più probabile che la contaminazione sia avvenuta già molto tempo prima nell’ambito della favolistica popolare persiana.
Il racconto del Pétis de la Croix ci permette, innanzitutto, di situare, almeno approssimativamente, l’azione in un determinato periodo storico. Vi leggiamo infatti, ad un certo punto, che Calaf, intenzionato ad offrire i propri servigi all’Imperatore della Cina, decide di recarsi a Canbalec. Ora, Canbalec non è, come Cambaluc, se non una variante di Khanbalik (letteralmente: “la città del Khan”), termine che designa, al tempo della dinastia mongola Yuán 元朝 (1271-1368), la capitale dell’Impero, cioè Pechino.
Al periodo del dominio mongolo sulla Cina sembrano rimandarci pure i nomi dei personaggi del racconto, anche se talvolta non è possibile riferirli a precise figure storiche oppure, quando lo si può fare, si deve constatare che non sono persone che abbiano avuto contatti fra di loro. (9)
Il nome di Timurtach, padre di Calaf, corrisponde, per esempio, a quello di un principe tartaro morto nel 1328. (10)
Il nome Altoun non sembra invece designare una persona, ma piuttosto una carica. Quando, nel 1115, Wányán Āgŭdă 阿骨打( 1068-1123), capo della tribù mancese dei Jurchen 女真 (“nǚzhēn”) fondò nella Cina Settentrionale una nuova dinastia, che doveva durare sino al 1234, le diede il nome del fiume che attraversava il territorio dei Jurchen, l’Akuchu , nome che, in lingua tungusa, significava “il fiume d’oro”. In cinese, la dinastia fu dunque chiamata Jīn Cháo 金朝, cioè la “dinastia d’oro”. Poiché in mongolo l’oro viene detto “altan”, la dinastia venne chiamata “altan”, termine che nelle trascrizioni occidentali diventa spesso “altoun”. L’imperatore della dinastia Jin viene perciò chiamato, nelle fonti occidentali, “altoun khan”(11)
Ancor meno indizi possiamo trarre dal nome della protagonista femminile del racconto, che il Pétis de la Croix scrive come “Tourandocte”.
Questo nome non rimanda infatti ad alcun personaggio storico concreto.
Dalla sua etimologia si ricava soltanto che esso ha un significato assai vago , potendosi intendere sia come“ figlia di Turan”, sia come ”fanciulla dell’Asia Centrale”(12), sia come ” ragazza turca”.(13)
Gli elementi finora raccolti ci consentono tuttavia di concludere, provvisoriamente, che Turandot doveva essere una donna dell’Asia Centrale, di stirpe principesca e quindi molto probabilmente di etnia mongola, che visse nel periodo compreso tra il 1250 e il 1350.
Per procedere oltre nella ricerca della sua identità occorre a questo punto consultare le fonti di quel periodo allo scopo di accertare se qualcuna di esse menzioni una principessa o una nobildonna mongola le cui vicende presentino qualche somiglianza con la storia di Turandot.
La ricerca si rivela subito abbastanza facile perché la prima fonte che ci fornisce un indizio estremamente utile è un’opera conosciutissima: il “Milione” di Marco Polo. Nel cap.195, intitolato “De la grande Turchia”(14), si legge infatti che Kaidu (15), cugino del Gran Khan Kubilai, ha una figlia chiamata Aigiarne, bella e forte, esperta di tutte le attività militari e sportive, in particolare della lotta. Questa fanciulla ha ottenuto dal padre la promessa che non la mariterà se non all’uomo che sarà riuscito a vincerla nella lotta. Ogni pretendente che la sfidi dovrà però mettere in palio una posta che può andare fino a 100 cavalli. Aigiarne non è mai stata vinta da nessuno e, in qualche anno, è divenuta proprietaria di un’immensa mandria di cavalli.(16)
La somiglianza con la storia di Turandot è evidente anche se nel racconto ripreso dal Pétis de la Croix gli aspiranti mariti non devono più affrontare un incontro di lotta, bensì risolvere una serie di enigmi, e la posta in gioco non è più una mandria di cavalli, bensì la vita.
Lo scrittore persiano Rashīd-al-Dīn Hamadānī رشیدالدین همدانی
(1247-1318), nel suo “L’insieme delle storie” (“jami’ al tawārīkh “ ا جامعالتواریخ ), chiama invece la figlia di Kaidu Kuthulun (17), racconta che il padre la stimava molto e la voleva sempre accanto a sé in tutte le battaglie e le attribuisce come marito il sovrano mongolo della Persia Mahmud Gazhan. (18)
Turandot va quindi identificata con la figlia di Kaidu Khan menzionata dalle diverse fonti con vari nomi: Aigiarne, Aiyurug o Ay Yarug, Kothol Tsaagan o Kuthulun , che esprimono, in diverse lingue, lo stesso significato: “ bianca come la luna” o “splendente come la luna”. (19)
Kuthulun, nata verso il 1260, era l’unica figlia femmina di Kaidu Khan. Il padre la prediligeva rispetto ai suoi quattordici fratelli maschi e la volle con sé in molte battaglie. Avrebbe anche desiderato che gli succedesse sul trono, ma quando morì, nel 1301, i fratelli si coalizzarono contro di lei. Kuthulun dovette quindi rinunciare alle proprie ambizioni e morì nel 1306.
Se nella cultura occidentale Kuthulun è menzionata come colei che ispirò a Puccini il personaggio di Turandot, nella cultura mongola è ancora ricordata come una famosa lottatrice. Le sue vittoriose incursioni in un campo tradizionalmente riservato ai maschi come quello della lotta furono sopportate molto male dagli uomini delle tribù mongole. Le conseguenze se ne vedono ancor oggi. Dopo di lei fu infatti vietato alle donne di partecipare ad incontri di lotta e, per evitare che una donna potesse infiltrarsi in una competizione dissimulando il proprio sesso, fu imposto ai lottatori di indossare una camiciola che lasciasse scoperto il petto. (20)
NOTE
1) L’azione era però ambientata in Persia “prima dell’anno 550 dell’era volgare, sotto il regno degli ultimi Sassanidi”. Il padre di Turanda si chiamava Cosroe ed il suo pretendente era Nadir, un principe indiano.
2) Il testo di Schiller, che era probabilmente più una rielaborazione che una traduzione pedissequa della commedia di Gozzi fu, a sua volta, ritradotto in italiano da Andrea Maffei (1798-1885). La traduzione del Maffei fu, insieme con il libretto di Gazzoletti per la “Turanda” di Bazzini e la fiaba di Gozzi, una delle fonti cui si ispirarono i librettisti della “Turandot” di Puccini.
3) Figurano però nella tragicommedia alcune maschere della Commedia dell’Arte: Pantalone e Brighella , che si esprimono in dialetto veneziano, e Tartaglia. Il loro ruolo fu ripreso , nell’opera pucciniana, da Ping, Pang e Pong.
4) Il presunto originale non è mai stato trovato neppure in Persia. ”Les milles et un jours” fu infatti tradotto in persiano nel 1896, proprio con il titolo “Hazar u yek ruz”. La traduzione non avrebbe avuto alcun senso se un’opera così intitolata o una raccolta di identico contenuto fosse già stata conosciuta nel paese.
5) Si può dire che l’idea di base sia, in un certo modo, simmetrica a quella delle “Mille e una notte”, dove in effetti Shahrazād, sposata con un re intenzionato ad ucciderla perché ritiene che tutte le donne siano infedeli, gli narra numerose storie, se non per convincerlo del contrario, almeno per trattenerlo dal mettere in atto il suo insano proposito.
6) V. pag. 235 dell’edizione del 1826, Paris, ed. Béchet Ainé.
7) La persona che è generalmente identificata con Turandot visse infatti, come si vedrà, nella seconda metà del XIII° secolo.
8) Bahram, quindicesimo sovrano della dinastia sassanide, regnò dal 420 d.C. al 438
d.C.
9) Sono però tutte persone vissute nella grande zona sottoposta al dominio mongolo nei secoli XIII° e XIV° e si può dunque bene immaginare che la narrativa popolare orientale le abbia messe insieme, anche se dalla ricerca storica non risultano rapporti tra di loro.
10) Timurtash, figlio di Chupan,fu un principe mongolo, membro di una famiglia che regnò sulla Persia Settentrionale tra gli ultimi decenni del XIII° secolo e i primi decenni del XIV° secolo.
11) Nella “Histoire universelle du commencement du monde jusqu’à présent », traduzione di una grande opera storica prodotta da un gruppo di studiosi inglesi, pubblicata a Parigi nel 1783, si legge in una nota alla pag.55, del volume 53, libro XV,”Histoire des Tartares Orientaux”,cap.III, che i Tartari chiamavano il loro Khan il “re d’oro”. Al volume 17, libro IV, “Histoire de l’Empire des Mogols ou Mongols,fondé par Jenghiz Khan”, cap.II, pag.315, il sovrano della dinastia Jīn costretto da Genghis Khan nel 1214 ad abbandonare la propria capitale e a ritirarsi verso sud è chiamato Altoun Khan. Poiché sappiamo dalle fonti cinesi che il suo nome imperiale e il suo nome personale erano diversi (rispettivamente Xuānzōng 宣宗 e Wúdŭbŭ 吾睹補 ), dobbiamo concluderne che Altoun Khan era il titolo ufficiale con cui erano designati tutti i sovrani della dinastia Jīn.
12) “Turan” è l’antico nome iranico dell’Asia Centrale e significa letteralmente “terra dei Tur”. I Tur o Turani erano popolazioni nomadi che, in epoca avestica (intorno al V° secolo a.C.) erravano nei territori compresi tra il mar Caspio, il mare d’Aral, il fiume Oxus ( oggi Amu Darya) e il fiume Jaxartes (oggi Syr Darya). In epoca molto più tarda furono identificati con i Turchi, anche se questa identificazione è discutibile. “Dokte” corrisponde al persiano “dokht” دخت che è una variante di “dokhtar” دختر, cioè “figlia, fanciulla, ragazza". Il termine deriva da una radice indoeuropea presente in molte lingue europee (si veda l’inglese “daughter”, il danese “datter”, lo svedese “dotter”, l’islandese “dóttir”, il tedesco ”tochter”, l’olandese “dochter”, il greco θυγατέρα, il russo дочь).
13) I Persiani non distinguevano in genere con precisione le varie etnie che popolavano i territori soggetti al dominio mongolo. Come risulta da diversi esempi, spesso per designarli nel loro insieme veniva usato indiscriminatamente il termine “Turan”. Era quindi possibile che qualsiasi donna dell’Asia Centrale venisse indicata come “fanciulla del Turan” o “figlia di Turan”.
14) ll testo del “Milione” è il seguente:
“Turchia si à uno re ch’à nome Caidu, lo quale si è nepote del Grande Kane, ché fue figliuolo d’uno suo fratello cugino. Questi sono Tarteri, uomini valentri d’arme, perché sempre mai istanno in guerra ed in brighe. Questa Grande Turchia si è verso maestro, quando l’uomo si parte da Qurmos e passa per lo fiume di Gion, (e) dura di verso tramontano infino a le terre del Grande Kane.
Sapiate che tra Caidu e lo Grande Kane si à grandissima guerra, perché Caidu si vorebbe conquistare parte de le terre del Catai e de’ Mangi, ma lo Grande Kane si vuole che lo seguiti, sí come fanno li altri che tengono terra da lui; questi sí nol vuole fare, perché non si fida, e perciò sono istate tra loro molte battaglie. E sí fa questo re Caidu bene 100.000 cavalieri, e piú volte àe isconfitto li cavalieri e li baroni del Grande Kane, perciò che questo re Caidu si è molto prode de l’arme, egli e sua gente.
Ora sappiate che questo re Caidu si avea una sua figliuola, la quale si era chiamata in tarteresco Aigiarne, cioè viene a dire in latino ’lucente luna’. Questa donzella si era sí forte che non si trova(va) persona che vincere la potesse di veruna pruova. Lo re suo padre sí la volle maritare; quella disse che mai non si mariterebbe s’ella non trovasse alcuno gentile uomo che la vincesse di forza [o] d’altra pruova. Lo re sí l’avea brivelleggiata che ella si potesse maritare a la sua voluntade.
Quando la donzella ebbe questo dal re, sí ne fue molto alegra; ed allora si mandò dicendo per tutte le contrade che, se alcuno gentile uomo fosse che si volesse provare co la figliuola de lo re Caidu, si andasse là a sua corte, sappiendo che, quale fosse quegli che la vincesse, la donzella si lo torrebbe per suo marito. Quando la novella fue saputa per ogne parte, ed èccoti venire molti gentili uomini a la corte del re.
Ora fue ordinata la pruova in questo modo. Ne la mastra sala del palagio si era lo re e la reina co molti cavalieri e co molte donne e co molte donzelle, ed ecco venire la donzella tutta sola, vestita d’una cotta di zendado molto acconcia: la donzella si era molto bella e bene fatta di tutte le bellezze. Ora convenía che si levasse il donzello, lo quale si volesse provare co lei a questi patti com’io vi dirò: che se ’l donzello la vincesse, la donzell[a] lo dovea prendere e tòrrelo per suo marito, ed egli dovea avere lei per sua moglie; e se cosa fosse che la donzella vincesse l’uomo, si convenía che l’uomo desse a lei 100 cavagli. Ed in questo modo si avea la donna già guadagnati ben 10.000 cavagli. E sappiate che questo non era maraviglia, ché questa donzella era sí bene fatta e sí informata ch’ella parea pure una giogantessa.
Ora v’era venuto uno donzello, lo quale era figliuolo del re di Pumar, per provarsi con questa donzella; e menò seco molto bella e nobole compagnia e sí menò 1.000 cavagli, per mettere a la pruova; ma il cuore li stava molto franco di vincere, e di ciò li parea essere troppo bene sicuro. E questo fue nel tempo del 1280.
Quando lo re Caidu vide questo donzello, sí ne fue molto allegro, e molto disiderava in suo cuore che questo donzello la vincesse, perciò ch’egli si era u(n) bello giovane e figliuolo d’uno grande re. Ed allora sí fece pregare la figliuola ch’ella si dovesse lasciare vincere a costui. Ed ella sí rispuose e disse: «Sappiate, padre, che per veruna cosa di mondo no[n] farei altro che diritto e ragione». Or èccoti la donzella intrata ne la sala a la pruova: tutta la gente che istava a vedere pregavano che desse a perdere a la donzella, acciò che cosí bella coppia fossero acompagnati insieme. E sappiate che questo donzello si era forte e prode, e non trovava uomo che lo vincesse, né che si potesse co lui ch’egli no l[o] vincesse d’ogne pruova.
Ora si vennero la donzella e ’l donzello a le prese, e furonsi presi insieme a le braccia e fecero una molto bella incominciata; ma poco durò, che ’l donzello si co(n)venne pure che perdesse la pruova. Alora si levò in su la sala lo maggiore duolo del mondo perché questo donzello avea cosí perduto, ch’era uno dei piú belli uomini che vi fosse anche venuto o che mai fosse veduto. Ed alotta si ebbe la donzella questi 1.000 cavagli; questo donzello si partío ed andossine molto vergognoso in sua contrada.
E vo’ che sappiate che lo re Caidu si menò questa sua figliuola in piú battaglie. E quando ella era a le battaglie, ella si gittava tra li nimici sí fieramente che non era cavaliere sí ardito né sí forte ch’ella nol pigliasse per forsa; e menavalo via, e facea molte prodesse d’arme.
Or lasciamo [di] questa matera, e udirete d’una battaglia, la quale si fue fra lo re Caidu ed Argo, figliuolo de lo re Abaga, segnore del Levante.”
15) Kaidu Khan (1230-1301), figlio di Khashin, figlio di Ögödei, aveva come bisnonno paterno Genghis Khan. Il suo regno si estendeva, in longitudine, dalla Mongolia Occidentale sino al fiume Oxus, oggi Amu Darya, e, in latitudine, dall’Altopiano Centrale Siberiano sino all’India. Nonostante la stretta parentela che lo legava al Gran Khan Kubilai, nipote di Genghis Khan, fu spesso in guerra con quest’ultimo per questioni territoriali.
16) Altre fonti ci raccontano cha alla fine Aigiarne consentì a sposarsi (ma con un uomo che non aveva mai affrontato nella lotta ) per porre fine alle voci malevole secondo cui il suo rifiuto del matrimonio era dovuto all’esistenza di una relazione incestuosa con il padre.
17) Siamo sicuri che si tratta della stessa persona perché risulta da altre fonti che Kaidu Khan aveva una sola figlia femmina.
18) Mahmud Ghazan regnò sulla Persia dal 1295 al 1304.
19) Aigiarne sembra essere la trascrizione, fatta da Marco Polo, del termine Ay Yarug, che, in lingua kazaka, significa “bianca come la luna” o “raggio di luna”. Aiyurug è probabilmente una variante di Ay Yarug o un termine similare proprio di un’altra lingua dell’Asia Centrale. Kothol Tsagaan e Kuthulun esprimono la stessa idea in lingua mongola: “bianchissima”o “tutta splendente”.
20) Questa camiciola, chiamata “zodog”, fa ancor oggi parte dell’abbigliamento tradizionale dei lottatori mongoli.
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