UNA STRANA POESIA
小 竹 之 葉 者
三 山 毛 清 尓
乱 友
吾 者 妹 思
別 来 礼 婆
Che cosa ha di particolare la poesia sopra riportata? A prima vista si direbbe che è una poesia del tutto normale, ma se solo si tenta di tradurla incominciano i guai. Taluni vocaboli risultano facilmente intelligibili, mentre altri sono collocati in una posizione nella quale non sembrano avere alcun senso e ci danno,per così dire, un’impressione di “parole in libertà”. Appare quindi impossibile attribuire all’insieme del componimento un significato coerente.
Avremmo forse a che fare con un poeta ubriaco? Anche Lĭ Bai soleva alzare il gomito, ma non per questo i suoi versi risultavano incomprensibili.
No. La spiegazione è molto semplice: questa poesia non è scritta in cinese, bensì in giapponese. Solo alcuni dei caratteri che vi figurano sono utilizzati in quanto tali, altri vi sono invece impiegati unicamente per il loro valore fonetico.
Quando i Giapponesi, che non avevano ancora elaborato una propria scrittura, adottarono i caratteri cinesi, si trovarono ben presto nella necessità di adattarli alle peculiarità della loro lingua, ad esempio alla flessione delle forme verbali, che i Cinesi ignoravano. Cominciarono perciò ad usare alcuni caratteri per il loro valore fonetico, dando vita ad un rudimentale ed incerto alfabeto, il “man’yōgana”(1), dal quale doveva più tardi svilupparsi l’alfabeto sillabico rimasto in uso fino ai nostri giorni, lo “hiragana”.(2)
La lettura giapponese dei caratteri ci dà il seguente risultato:
Sasa no ha wa
Miyama mo saya ni
midaredomo.
Ware wa imo omou
wakare kinureba.(3)
Incurante del mormorio delle foglioline di bambù
che si agitano al vento sul monte Miyama
penso alla fanciulla cui ho detto addio.
L’autore di questa breve lirica (短歌“tanka”) è Kakinomoto no Hitomaro 柿本 人麻呂 (circa 662 d.C-710 d.C.) ,uno dei poeti presenti nell’ antologia Man’yōshū 万 葉 集 con il maggior numero di composizioni (4), che figura altresì nella lista dei più importanti poeti giapponesi, i “Trentasei Immortali della Poesia”( 三十六歌仙 “sanjūrokkasen”), compilata, agli inizi dell’XI° secolo d.C., dall’erudito Fujiwara no Kintō 藤原 公任.
NOTE
1) I “man’yōgana”万 葉 仮 名 (“caratteri delle diecimila foglie”) sono così chiamati perché figurano nelle più antiche poesie in lingua giapponese, composte, da numerosi autori, a partire dalla seconda metà del V° secolo d.C. e pubblicate, nella seconda metà dell’VIII° secolo d.C., in un’antologia intitolata “Man’yōshū” 万 葉集 (“Raccolta di diecimila foglie”). Essi sono, in sostanza, caratteri cinesi ( “kanji” 漢 字 ) usati per il loro valore fonetico, anziché per il loro valore concettuale. Non rappresentano, a rigor di termini, un alfabeto come lo intendiamo noi, perché uno stesso suono viene spesso reso ( normalmente,in poesie diverse , ma, talvolta, anche nell’ambito di una stessa poesia) con caratteri differenti. Nel “Manýōshū” constatiamo che ben 970 “kanji” rappresentano le 90 “unità di suono” (in latino “morae”) della lingua giapponese. Per menzionare un paio di esempi, il suono “mo” viene reso ora con母 (“mū”), ora con 毛 (“máo”), il suono “shi” viene indicato ora con 之 (“zhī”) ora con 思 (“sī”). Se si può immaginare che, in rari casi , la scelta di differenti caratteri fosse legata a lievi differenze di pronuncia (magari di carattere regionale) perdutesi successivamente nel corso del tempo, bisogna tuttavia riconoscere che il più delle volte essa dipendeva dall’esclusivo arbitrio del poeta. La mancanza di una corrispondenza biunivoca tra un suono ed un carattere non sembra tuttavia essere, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la causa principale per cui il “man’yōgana” non riuscì ad imporsi in modo duraturo. In effetti, anche nello “hiragana” 平 仮 名, che lo sostituì a partire dal IX° secolo d.C, uno stesso suono poteva essere reso con segni differenti e fu solo nell’anno 1900 che il sistema fu standardizzato rendendo obbligatorio l’uso di un solo carattere (仮 名 ”kana”) per ogni suono ed escludendo le varianti, che da allora furono chiamate “hentaigana” 変体仮名, vale a dire “caratteri anomali”. Si può ipotizzare che la vera debolezza del man’yōgana” consistesse nel fatto che risultava difficile e laborioso distinguere ,in un testo, quando i caratteri cinesi erano usati per il loro valore concettuale e quando lo erano invece come elemento fonetico.
2) L’alfabeto sillabico detto “hiragana” 平 仮 名, affermatosi nel IX° secolo d.C., si sviluppò dal “man’yōgana” attraverso una serie di semplificazioni ( in una prima fase si passò dai caratteri cinesi classici ai caratteri corsivi, in una seconda, dai caratteri corsivi ai caratteri ancor più semplici che formano questo alfabeto).
Esso ha, come tutti i sistemi di scrittura fonetica, l’enorme vantaggio di utilizzare poche decine di caratteri assai facili da memorizzare e da riprodurre.
Per questa ragione lo “hiragana”divenne il sistema di scrittura prediletto delle dame di corte, le quali, pur vivendo in un ambiente raffinato ed intellettuale, non ricevevano in genere un tipo d’educazione che comportasse uno studio approfondito della lingua e dei caratteri cinesi. Esse cominciarono a scrivere diari, poesie e romanzi con questo alfabeto, che, per la sua diffusione nel mondo femminile, ad un certo momento venne addirittura chiamato 女 手 ( “onnade”), cioè “scrittura delle donne”.
Gli uomini continuarono invece, per lungo tempo, a disprezzare i caratteri semplificati e a redigere lettere, documenti ufficiali, annali e poesie in cinese o in “man’yōgana”, pratica che dimostrava la loro superiorità culturale ed intellettuale. I “kanji” vennero perciò chiamati 男 手 ( “otokode”), vale a dire “scrittura degli uomini”.
Col passare del tempo, anche gli uomini finirono per apprezzare la semplicità dello “hiragana”che, dopo aver fatto breccia nei diari e nella corrispondenza privata, raggiunse infine la lingua ufficiale e la letteratura. A ricordo dell’epoca più antica rimane ancor oggi l’abbondantissimo uso dei “kanji” nella lingua giapponese. Quanto più numerosi sono i “kanji” che figurano in un testo, tanto più evidente risulta infatti l’alto livello culturale di chi scrive.
3) Le peculiarità che denunciano l’origine giapponese della poesia sono le seguenti:
- l’uso del carattere 者 (“zhĕ”) per rendere la particella enfatizzante “wa” con cui il giapponese indica che il nome ad essa preposto è il tema della frase o del discorso che segue. ( 小 竹 之 葉 者 三 山 毛 清 你 “sasa no ha wa miyama mo saya ni” “per quanto riguarda le foglioline di bambù, esse frusciano sul monte Miyama”), (吾 者 妹 思 “ware wa imo omou” “io,...io penso alla fanciulla”);
- l’uso del carattere 毛 (“máo” “pelo”) per rendere il suono dell’avverbio “mo” (“anche”);
- l’uso del carattere 你 (“ní” “tu”) per rendere il suono della preposizione “ni” (“in”, “nel”);
- l’uso del carattere 友 (“yóu” “amico”), che in giapponese viene tradotto “tomo” per rendere il suono della congiunzione “domo” ( "sebbene") nell’espressione “midaredomo” (“sebbene si agitino”).
- l’uso dei caratteri 裡 (“lĭ” “riti”, nella lettura on’yomi: “rei”) e 婆 (“pó” “vecchia”, “nonna”, nella lettura on’yomi: “ba”) per indicare la desinenza “reba” propria del condizionale di un verbo ( 別 來 裡 婆 “wakare kinureba” “me ne sarei andato con un addio”).
(4) La “tanka” qui tradotta figura nel libro II°, numero 233, del Man’yōshū.