Jiă Dăo 賈島, conosciuto anche con il nome di cortesia di Lángxiān 浪 先, nato a Fànyáng 范 陽 ( oggi Zhuōzhōu 涿 州 nel Hébĕi 河 北 ) nel 779 d.C. , fu attivo durante l’ultimo periodo della dinastia Táng 唐 朝 .
Visse come monaco buddhista, nell’ambito della setta Chán 禪 , fino all’età di 31 anni quando, dopo aver incontrato il famoso poeta Hán Yù 韓 愈 , abbandonò la vita religiosa e si trasferì a Cháng’Ān 長 安 .
Se si presta fede a quanto racconta il “劉 公 嘉 話” ( “Liú Gōng Jiā Huà “Le belle parole di Liú Gōng” ) di Wéi Xún 韋 絢 , l’incontro avvenne in modo curioso.
Jiă Dăo viaggiava in groppa al suo asinello, tutto intento a comporre nella sua mente una poesia che cominciava con questo verso: “Gli uccelli ritornano ai loro nidi sugli alberi intorno allo stagno”. (1) La stesura del secondo verso sollevava però delle difficoltà perché il nostro non riusciva a decidere se fosse meglio “un monaco spinge la porta sotto la luna” oppure “un monaco bussa alla porta sotto la luna”. (2) Per raffigurarsi plasticamente la scena imitava i gesti del personaggio, muovendo in continuazione il braccio ora come se stesse bussando ad un uscio ora come se stesse spingendolo. Immerso nei suoi pensieri andò quasi a sbattere contro il palanchino di Hán Yù, che era a quell’epoca un alto funzionario del governo. Fermato dalla scorta di Hàn Yú e invitato da quest’ultimo a render conto dell’irriverenza, Jiă Dăo gli espose il proprio dilemma. Ne seguì una lunga conversazione sull’arte poetica ed alla fine i due divennero amici.
Stabilitosi nella capitale, Jiă Dăo tentò più volte, senza successo, di superare l’esame per ottenere il diploma di jinshì 進 士 che apriva l’accesso ufficiale alla carriera nel pubblico impiego. Dovette perciò accontentarsi di incarichi molto modesti che gli fornivano a malapena il necessario per vivere. Fu per qualche tempo scrivano (主 簿“zhŭbù” ) nella regione di Chángjiāng 長 江, da cui trasse il suo nome d’arte.
Come osservò il famoso poeta dell’epoca Sòng 宋 朝 Oūyáng Xiū 歐 陽 修 , Jiă Dăo sapeva evocare con molta intensità la miseria in cui visse.
In una poesia , egli scrive: “ Le mie tempie sono di bianca seta ma non servono a tessere una camicia che mi tenga caldo”.
In un`altra composizione intitolata “Fame mattutina”( 朝餓 “zhāo è”) leggiamo:
“Siedo sul letto volto ad ovest ed ascolto il suono della cetra, due o tre corde che vibrano nel freddo”( 坐 聞 西 床 琴 . 凍 折 兩 三 絃 “zuò wén xī chuáng qín dòng zhé liăng sān xián”).
Morì nell’843 d.C. in condizioni di estrema povertà. Gli unici beni di cui disponeva erano, secondo quanto ci è stato tramandato, un asino zoppo ed una cetra scordata.
In campo artistico Jiă Dăo seguì i princìpi propugnati da Hán Yù che celebrava gli effetti didattici e morali della poesia ed esaltava il modello del letterato confuciano, attento al rispetto della giustizia e delle antiche tradizioni.
Insieme con i contemporanei Mèng Jiāo 孟 郊 e Lĭ Hè 李 賀 , le cui poesie si distinguono , quanto al primo, per la durezza che le anima, quanto al secondo, per la malinconia da cui sono pervase. è ricordato come uno dei “poeti dalle canzoni amare”( “kŭ yín shī rén” 苦 吟 詩 人).
Il suo stile, che privilegia la scorrevolezza a scapito dell’eleganza e la semplicità a scapito della ricercatezza , rende agevole la lettura dei suoi testi.
Riferendosi a questa apparente povertà d’espressione, Sū Shì 蘇 軾 descrisse la sua poesia con l’aggettivo 瘦 (“shòu””magro””emaciato”) che prende lo spunto dalla miseria materiale di Jiă Dăo per esprimere un giudizio abbastanza critico sulla sua opera ritenuta “priva di sostanza”,”inconsistente”.Tale valutazione negativa ricompare anche in studiosi di epoche successive.
La poesia che segue “Cercando invano il maestro” sembra invece dimostrare che, nonostante la sua parsimonia nell’uso delle parole, Jiā Dăo non manca affatto di profondità di pensiero.
尋 隱 者 不 遇 Xún Yǐnzhě Bù Yù Cercando invano il maestro
松 下 問 童 子 sōng xià wèn tóng zǐ Sotto il pino chiedo al ragazzo.
言 師 採 藥 去 yán shī cǎi yào qù. “ Il maestro” dice”coglie erbe.
只 在 此 山 中 zhī zài cǐ shān zhōng, So solo che è sulla montagna,
雲 深 不 知 處 yún shēn bù zhī chù. tra dense nubi, chissà dove”
Questo scarno dialogo è visto da molti commentatori come una metafora del cammino spirituale.
Le poche parole scambiate tra il visitatore e il discepolo ci portano gradualmente dalla materia al vuoto, dal concreto all’indeterminato, dal limitato all’infinito. Ogni passaggio ci fa salire più in alto e vedere più lontano, come nella famosa poesia di Wáng Zhīhuàn 王 之 渙 intitolata “Salendo sulla torre dell’airone”. (3)
Con il primo verso ci troviamo ancora nel pieno della realtà. Il pino sotto cui abitualmente siede il maestro (4),così come il discepolo, o uno dei discepoli, cui egli impartisce il proprio insegnamento sono presenze ben distinte, che delimitano uno spazio, che definiscono una situazione precisa. Siamo veramente all’inizio del percorso.
La prima frase del ragazzo ci porta già oltre. Il maestro è andato a cercare erbe medicinali. Si percepisce qui un senso allegorico : la ricerca delle erbe che guariscono il corpo può certamente essere vista, su un altro piano, come la ricerca dei rimedi che purificano lo spirito. Mi pare tuttavia di cogliere pur sempre un limite, quel limite che è posto in particolare rilievo dal pensiero taoista : l’azione si propone un fine, un risultato e non è quindi pura .(5) Il legame con il mondo è ancora forte.
Il terzo verso dilata la scena, allarga potentemente i confini di spazio e di tempo, ci fa apparire irrilevanti i motivi che hanno spinto il maestro ad inoltrarsi nella montagna. “Sulla montagna”è l’unica informazione che sa dare il discepolo. L’uomo è ormai scomparso nella vastità della natura, che sembra però ancora conservare la sua realtà. Abbiamo l’impressione di trovarci di fronte ad uno di quei tipici paesaggi cinesi nei quali, in uno scenario di gigantesche montagne, boschi, fiumi, laghi la figura umana scompare del tutto o è ridotta ad un puntino insignificante.
Un ultimo passo e anche le montagne scompaiono avvolte da dense nuvole. La realtà perde ogni contorno, ogni consistenza. Il mondo ci appare ora come l’ombra, la nebbia che esso è di fatto, come il vuoto, quel vuoto che è il punto d’arrivo della dottrina buddhista. In questo vuoto non ha più alcun senso.cercare di sapere dove sia il maestro.
“Chissà dove” non è dunque la risposta sconsolata del ragazzino che ignora quale fine abbia fatto il suo maestro, bensì l’affermazione cosciente di chi sa bene che il mondo è soltanto illusione.
NOTE
(1) In cinese il primo verso suona: 鸟 宿 池 边 树 ( “niăo sù chí biān shù” )
(2) Ecco la scelta che tormentava Jiă Dăo: era meglio scrivere 僧 推 月 下 门 (”sēng tuī yuè xià mén”) oppure 僧 敲 月 下 门 (”sēng qiáo yuè xià mén”) ?.
(3) Ecco il testo della poesia:
登 鹳 雀 楼 déng guàn què lóu Salendo sulla torre dell’airone
白 日 依 山 尽, bái rì yī shān jìn Il sol tramonta dietro le colline.
黄 河 入 海 流。 huáng hé rù hăi liú ll Fiume Giallo scorre verso il mare.
欲 穷 千里 目, yú qiõng qiān lĭ mù Se vuoi vedere mille miglia intorno
更 上 一 层 楼。 gèng shàng yī céng lóu devi scalare ancora un altro piano.
(4) Nell’antica tradizione cinese gli alberi erano collegati all’idea della saggezza e del suo insegnamento. Confucio insegnava ai suoi discepoli sotto un albero e questa sua abitudine fu sfruttata da un suo nemico, Huàn Tuí 桓 魋, ministro della guerra nel ducato di Sòng 宋 國, il quale fece segare di nascosto l’albero sotto il quale il Maestro teneva lezione sperando che gli cadesse addosso. ( Un riferimento indiretto a questo episodio figura in “Dialoghi” VII,23). Il pino è menzionato in una poesia di Lĭ Bái “Omaggio a Mèng Hào Rán” (贈 孟 浩 然 “zéng mèng hào rán”) in cui si legge: “giovane disdegnasti palanchini e diademi, vecchio ti riposavi all’ombra dei pini”.
(5) Appare interessante ricordare, a questo riguardo, il capitolo XXXVIII del Dào Dé Jīng 道 德 經 che traccia la distinzione tra l’uomo saggio e virtuoso e l’uomo che si sforza di essere virtuoso: saggio e virtuoso è chi si conforma spontaneamente alla Via e pratica la virtù istintivamente perché vive in armonia con le leggi eterne del cosmo; colui che si sforza di essere virtuoso è invece chi, avendo già smarrito l’originaria consonanza con la natura, cerca di ritrovarla senza troppo successo, attraverso la pratica intenzionale della virtù.
Ecco i primi versi del capitolo:
“Negli uomini più virtuosi la pratica della virtù è schietta e spontanea.
Nei meno virtuosi la pratica della virtù è cosa deliberata e artificiale.
È per questo che i primi possiedono la virtù e i secondi ne sono privi.
I più virtuosi praticano l'inazione e sono completamente disinteressati.
I meno virtuosi agiscono per il perseguimento di determinati fini."