non consente di rimandarli qui in Cina lìng yán bù xŭ chuán zhōng guō
dove, del resto, nessuno è più capace 舉 世 無 人 識 古 文
di leggere quei caratteri arcaici. jŭ shì wú rén shí gŭ wén
Una grande opera dei nostri antichi re 先 王 大 典 藏 夷 貊
è smarrita, tra le mani dei barbari,(6) qián wáng dà diăn cáng yí mò
al di là dell’immensa distesa azzurra, 蒼 波 浩 蕩 無 通 津
dove i traghetti non possono giungere. cāng bō hào dàng wú tōng jīn Ecco una cosa che ti fa riflettere, 令 人 感 激 坐 流 涕
un pensiero che ti fa versar lacrime. lìng rén găn yāo zuò liú tì
Che cosa potrebbe dunque importarmene 繡 澀 短 刀 何 足 雲
d’una piccola spada damaschinata? xiù sè duăn dāo hé zù yùn
CINA E GIAPPONE
Ho intitolato "Una sciabola dal Giappone" la traduzione della poesia di Oū Yángxiū 歐 楊 修 (1007 d.C.-1072 d.C.) “La canzone della sciabola giapponese” ( 日 本 刀 哥 “rì bĕn dāo gē”). Ho cercato di scoprire se questa poesia, che reca nell'originale lo stesso titolo di quella composta parecchi secoli più tardi da Liáng Pèilán 粱 佩 蘭 (1632 d.C-1708 d.C.), abbia influenzato la composizione di Liáng Pèilán ed ho constatato che nella lirica di Oū Yángxiū la sciabola giapponese ha un’importanza del tutto marginale. La sua descrizione, priva di vivacità e di colore, è un semplice pretesto per introdurre un altro tema: un esemplare completo del Libro dei Documenti, opera anteriore al regno di Qín Shĭ Huáng Dì 秦 始 皇 帝 , sarebbe ancora conservato in Giappone. Anche questo secondo tema appare tuttavia inconsistente. La commozione del poeta per la sorte dei "capitoli perduti" (il Libro dei Documenti sarebbe stato composto di cento capitoli, dei quali, dopo il rogo dei libri ordinato dal Primo Imperatore, se ne sarebbero salvati solo 33), la cui stessa esistenza è sempre stata oggetto di forti dubbi e la cui sopravvivenza in Giappone è ipotesi di pura fantasia non può non apparirci un semplice artificio letterario.
Che cosa c’è dunque d’interessante in questa poesia?
Ciò che attira la nostra attenzione è l’atteggiamento ambivalente di un un letterato cinese dell’XI° secolo d.C. come Oū Yángxiū nei confronti del Giappone
Se, da una parte, egli non può non rallegrarsi del fatto che una terra lontana abbia profondamente assimilato la cultura cinese e sviluppato, su questa base, una propria civiltà tutt’altro che disprezzabile, dall’altra, non riesce a sfuggire, neppure lui, all'innato disprezzo che i cittadini del Regno di Mezzo hanno sempre provato per i "barbari". Questa ambiguità di giudizio appare fin dai primi versi, in cui il Giappone è indicato ora con un epiteto dispregiativo ( 昆 夷 “kūnyí” “terra dei barbari”) ora con la sua denominazione diplomatica ( 日 本 國 “rìbĕnguó”, “paese del sol levante”). La poesia continua riconoscendo, a denti stretti, che i prodotti giapponesi sono di ottima fattura, anche se gli artigiani di quel paese hanno dovuto imparare dai Cinesi le tecniche di fabbricazione e sono presumibilmente ancora inesperti nelle arti più raffinate, ad es. nella lavorazione della giada. Anche i notevoli progressi compiuti in campo agricolo sono largamente riconducibili all’esperienza cinese. Analoghe conclusioni valgono per la letteratura, campo in cui i Giapponesi hanno raggiunto ottimi risultati, anche se partendo dai testi cinesi di cui sono venuti a conoscenza in epoche abbastanza remote.
Gli ultimi versi, nei quali viene di nuovo impiegata un’espressione dispregiativa ( 夷 貊 “yímò”, termine abitualmente usato per indicare tribù barbare stanziate a nord e ad est della Cina) ci lasciano supporre che l’antico complesso di superiorità dei Cinesi nei confronti degli altri popoli asiatici sia ancora ben lungi dall’essere dimenticato.
NOTE
1) Nei più antichi testi cinesi il termine 夷 (“yí” “barbari”) è uno dei termini generici usati per indicare, in contrapposizione al termine 華 “huá”, che designa l’etnia Hàn, tutte le diverse popolazioni che abitavano al di fuori della vallata del Fiume Giallo
A poco a poco, i numerosi termini generici in uso per designare i “barbari” assunsero ciascuno un significato specifico come risulta, fra l’altro, da un passo del Lĭ Jì 禮 記 (“Il Libro dei Riti”): “其 在 東 夷 北 狄 西 戎 南 蠻 雖 大 伯 子 “(qí zài dōng yí bĕi dí xī róng nán mán suī dà bó zĭ), la cui traduzione si legge come segue: “ Presso gli Yí dell’Est, i Dí del Nord, i Róng dell’Ovest ed i Mán del Sud anche i capi più potenti portano titoli modesti (“conti”)”.
I barbari orientali vennero perciò chiamati 夷 “yí”, i barbari settentrionali 狄 “dí”, i barbari occidentali 戎 “róng” ed i barbari meridionali 蠻 “mán”.
Talvolta però, la distinzione non veniva rigorosamente rispettata. Ad es. alcune popolazioni barbare ai confini occidentali dell’Impero venivano indicate con il termine 昆 夷 “kūnyí”.
I Giapponesi, abitando ad est delle coste cinesi, appartenevano alla categoria dei “ barbari orientali”. La designazione esatta sarebbe quindi stata 東 夷 “dōng yí” e non 昆 夷 “kūnyí”.
La ragione per cui Oū Yángxiū ha scelto quest’ultimo termine non è chiara.
2) L’antico Stato di Yuè 越 國 , conquistato dal Regno di Qín 秦 國 nel 222 a.C. occupava il territorio corrispondente all’attuale provincia dello Zhèjiāng 浙 江 sulle coste del Mar Cinese Orientale. Era una delle zone da cui era relativamente facile spingersi verso le isole dell’Oceano e quindi anche verso il Giappone.
3) Xú Fú 徐 甫, nato nel 255 a.C. nel Regno di Qí 齊 國, servì come mago di corte sotto la dinastia Qín 秦 朝 e fu inviato, per due volte, da Shĭ Huáng Dì 始 皇 帝 a cercare l’elisir dell’immortalità nelle isole dell’Oceano. Una prima spedizione, compiuta tra il 219 a.C. ed il 210 a.C., si concluse senza successo. Nel 210 a.C. Xú Fú salpó per una seconda spedizione da cui non fece più ritorno.
Secondo il Shĭjì 史 記 di Sīmă Qiān 司 馬 遷, Xú Fú sbarcò in un’isola di “larghe pianure e vaste paludi” ( 平 原 廣 澤 “píng yuán guăng zè”) di cui si proclamò re.
Fonti successive come il Sānguójì 三 國 記, il Hòuhànshū 後 漢 書 ed il Kuòdìzhì 括 地 志 , opera geografica compilata da Lĭ Tài 李 泰 sotto la dinastia Táng 唐 朝 , affermano che il paese nel quale Xú Fú si stabilì si chiamava Dănzhōu 亶 洲 .
Solo un millennio più tardi, sotto la dinastia dei Zhōu Posteriori 後 周 朝, il monaco Yìchŭ 義 楚 (907 d.C. – 960 d.C.), scrisse , nella sua opera intitolata “Le sei tavolette del monaco” ( 釋 氏 六 帖 “shì shì liù tiĕ”) che Xú Fú era sbarcato in Giappone ed aveva identificato il Fujiyama 藤 山 con il Monte Pénglái 蓬 萊 山 , la mitica dimora degli Immortali.
La leggenda che collega Xú Fú al Giappone è quindi di origine assai tarda e non poggia su alcun indizio credibile.
Ciò non esclude ovviamente la possibilità che gruppi provenienti dalla Cina possano essere giunti in Giappone qualche secolo prima dell’era cristiana ed aver colonizzato parte del territorio. A partire all’incirca dal 300 a.C. si nota infatti in alcune zone la presenza di nuove tecniche agricole e della metallurgia.
(4) Il termine 五 種 (“wú zhŏng” “i cinque semi”) sembra essere una variante del più noto 五 穀 (“wú gŭ” “i cinque cereali” o anche “i cinque cereali sacri”) che indicava i cereali di cui i mitici imperatori dei tempi remoti insegnarono la coltivazione permettendo così ai Cinesi di passare dallo stato di cacciatori nomadi a quello di coltivatori sedentari. Secondo la leggenda accolta da Oū Yángxiū, Xú Fú avrebbe quindi importato in Giappone l’agricoltura o comunque un insieme di pratiche agricole notevolmente progredite.
(5) Oū Yángxiū si riferisce qui al famoso “rogo dei libri inutili” ordinato da Qín Shĭ Huáng Dì nel 213 a.C. Nel rogo furono bruciati tutti i libri attribuiti a Confucio, fra cui il “Libro dei Documenti” (書 經 ,“shū jīng”) che, secondo la tradizione, conteneva cento capitoli (百 篇 “băi piān”). Questo libro raccoglieva una serie di discorsi attribuiti a sovrani e uomini politici importanti, dai tempi mitici fino alla metà del periodo dei Zhōu Occidentali 西 周 朝 (11°sec.a.C-8°sec.a.C.). Molti decenni più tardi, al tempo dell’imperatore Wéndì 文 帝 dei Hàn Occidentali 西 漢 朝 , un vecchio letterato chiamato Fú Shēng 伏 生 tirò fuori da un nascondiglio 29 documenti appartenenti al libro. Gli altri capitoli non furono mai ritrovati. Non v’è alcun indizio per pensare che, come ipotizza Oū Yángxiū, Xú Fú avesse portato con sé nella sua navigazione una copia del Libro dei Documenti. In ogni caso, nulla che potesse avere a che fare con tale libro è mai stato scoperto in Giappone.
(6) I Mò 貊 erano una tribù barbara stanziata ai confini settentrionali delle province del Hébĕi 河 北 e dello Shānxī 山 西 , da dove emigrarono successivamente in Manciuria ed in Corea. Dopo aver occupato la parte nord-orientale della penisola coreana si fusero con un’altra tribù gli Huì 穢 , dando origine intorno al 400 a.C, alla cultura detta Huìmò 穢 貊 o Yemak , da cui sorse successivamente il regno di Buyeo o Puyŏ ( in cinese Fūyúguó 夫 餘 國 ), che occupava la Manciuria e parte della Corea settentrionale.
(7) L’espressione 繡 澀 composta dai termini 繡 (“xiù “ricamo”) e 澀 (“sè” “ruvido”,”oscuro”) è stata intesa da Burton Watson nel senso di “arrugginito”. A mio parere, potrebbe anche essere interpretata come “damaschinato” in quanto il lavoro d’intarsio, simile ad un “ricamo”, rende il metallo di una spada “ruvido” al tatto.