CAPITOLI XXXI-XL
XXXI
Il saggio non ricorre alle armi
perché esse, anche se belle,
sono strumenti di sventura.
Poiché le armi sono portatrici di sventura,
esse non sono strumenti adatti al saggio.
Se in tempo di guerra la precedenza
è data alla mano che porta la spada,
in pace essa spetta al braccio sinistro.
(1)
Il saggio preferisce la pace e la tranquillità
ed usa le armi solo se non può farne a meno.
Quando vince, non se ne vanta.
Menarne vanto significa infatti
rallegrarsi di aver versato il sangue
e chi si compiace di avere ucciso
non ha le qualità per governare.
Perciò la sinistra è simbolo di prosperità,
la destra è segno di terrore e di morte.
I posti d’onore nelle parate militari
sono quelli delle cerimonie funebri.
Il vicecomandante marcia a sinistra
ed il comandante supremo a destra. (2)
Infatti , un esercito che ha massacrato
va accolto con tristezza, pianti e gemiti.
È giusto che il vincitore di una battaglia
sfili come se partecipasse a un funerale.
NOTE
(1) Nella tradizione cinese, la mano destra simboleggia la “forza”, mentre la
mano sinistra simboleggia la saggezza. Di conseguenza, con la sola
eccezione dei periodi di guerra, i funzionari civili godono della precedenza
rispetto ai militari, che sono considerati inferiori. Questa precedenza si
manifesta coll’occupare, nelle cerimonie e nei ricevimenti, i posti situati alla sinistra del sovrano o della massima autorità presente.
(2) La regola secondo cui, nelle cerimonie militari, il comandante supremo sfila o siede alla destra del vicecomandante è solo apparentemente in
contraddizione con il rango rispettivo dei due generali. Essa si richiama infatti al giudizio complessivo che il pensiero cinese dà dell’attività
militare. Poiché la missione fondamentale di un esercito è uccidere, in ambito militare le precedenze sono fissate secondo i princìpi che disciplinano i funerali. Nei funerali i posti di riguardo sono quelli di destra, perché la destra è legata allo yáng 陽, che è, tra l’altro, il simbolo della morte.
XXXII
La Via è eterna, ma non ha nome.
È semplice, è la più piccola delle cose,
ma nessuno è capace di soggiogarla.
Quando principi e re sapevano conformarsi ad essa
tutto il creato rendeva loro uno spontaneo omaggio,
cielo e terra, insieme, stillavano una dolce rugiada,
gli uomini vivevano in armonia, di libero accordo.
Non appena s’è persa la semplicità originaria,
le cose hanno cominciato a ricevere un nome,
ma quando cominciano ad essere dati i nomi
si deve anche capire che è tempo di fermarsi. (1)
Chi sa evitare gli eccessi non sarà mai in pericolo.
Tutto confluisce nella Via
proprio come ruscelli e torrenti
si riversano nei fiumi e nel mare.
NOTA
(1) Il nocciolo di questo capitolo mi sembra consistere nella contrapposizione di due distinte situazioni caratterizzate l’una dal termine
樸 “pú” (“pezzo di legno grezzo”, “cosa semplice”), l’altra dal termine 制 “zhì” (”sistema”, “cosa elaborata”). Nella prima vediamo tutte le caratteristiche dell’”età dell’oro”: la natura amica (“cielo e terra che stillano rugiada”), il rispetto spontaneo dell’ordine sociale e della giustizia, l’uguaglianza tra gli uomini. Nella seconda intuiamo invece la presenza di una società civilizzata, in cui tutto viene a poco a poco definito e regolato. Il termine “shĭ ”始 (“comincia”) che precede il termine “zhì“ (sistema”) ci lascia intendere, anche se il testo non contiene indicazioni di tempo, che la prima situazione è anteriore alla seconda. Questa precisazione non sarebbe, d’altra parte, neppure necessaria, visto che il passaggio da un
primitivo stato di innocenza naturale alla corruzione della società organizzata è uno dei principali temi della dottrina taoista.
Lo stesso concetto è ribadito dalla contrapposizione tra la Via, che non ha nome, ed i nomi, che vengono dati non appena la società comincia ad
organizzarsi. Nel pensiero taoista la necessità di utilizzare dei nomi è tuttavia un evidente segno di limitatezza e di corruzione. I nomi infatti
definiscono un concetto, ma un concetto può definirsi soltanto se non ingloba tutto, se è limitato, se si trova in presenza di qualcosa di diverso da esso che permette di circoscriverlo. Nella società primordiale, in cui tutti erano buoni, nessuno poteva essere chiamato buono perché il concetto di “bontà” può solo definirsi in relazione a ciò che è diverso da essa, la “malvagità”. Allo stesso modo l’apparizione dei nomi/concetti di “giustizia”, “onestà”,“umanità”, “virtù” è prova manifesta dell’esistenza dei loro contrari e quindi del degrado della società. Più l’uomo si organizza, più si allontana dalla purezza originaria. Ogni passo in avanti su questa via (con la minuscola) porta ad una sempre maggiore corruzione.
XXXIII
Conoscere gli altri è giudizio.
Conoscere sé stessi è sapienza.
Dominare gli altri è forza.
Dominare sé stessi è virtù.
Sapersi accontentare è ricchezza.
Seguire la propria via è determinazione.
Chi sa stare al proprio posto dura a lungo.
Egli muore, ma non perisce.
Ecco che cos’è l’eternità.
XXXIV
La Via Maestra è come un fiume in piena
che straripa ora a destra ora a sinistra.
L’universo le deve la propria esistenza
ed ella ne prende costantemente cura.
Compiuta la sua missione,
non ne rivendica alcun merito.
Veste e nutre le creature
e non se ne proclama padrona.
Poiché è priva di qualsiasi appetito
e di qualsiasi desiderio
può essere definita modesta,
ma, poiché tutte le creature ritornano a lei,
anche se non ne reclama il dominio,
può essere definita grande.
Nella vita il saggio non si dichiara mai grande
e proprio per questo consegue la grandezza.
XXXV
Il possesso della grande figura (1)
fa accorrere tutti
senza recar danno,
tranquilli, pacifici,
nella massima serenità.
Musica e cibi prelibati
trattengono i passanti.
La Via, invece, è insipida,
non ha alcun gusto.
La guardi e non la vedi.
La tocchi e non la senti.
Ma quando ne fai uso,
si mostra inesauribile.
NOTA
(1) Il termine 大 象 (dà xiàng), cioè la “Grande Immagine” è concordemente
inteso dai commentatori come una metafora della Via. Esso figura infatti tra le definizioni della Via che appaiono nel capitolo XLI ( 大 象 無 形, “dà xiàng wú xíng”, “una grande figura priva di forma”).
Fin da tempi molto antichi 大 象 ha avuto anche il significato di “elefante”. Si veda, ad esempio,nello Hóuhànshū 後 漢 書 ,il paragrafo 69 degli “Annali degli imperatori Hé e Shāng” 老 和 老 殤 帝 記:
“Il sesto anno, in primavera, nel primo mese....i barbari che stavano al di là della frontiera presso Yŏngchāng inviarono ambasciatori ad offrire
rinoceronti ed elefanti” ( 六 年 春 智 月...永 昌 外 夷 遣 使 譯 獻 犀 牛大 象 ).
Ho provato, per curiosità, a sostituire la ”Grande Immagine” con “elefante”. Questa interpretazione un po’bislacca non conduce ad un risultato
particolarmente abnorme, anzi sembra adattarsi abbastanza bene alla logica del capitolo. L’esposizione di un elefante attira frotte di curiosi come una banda di suonatori o un ristorante che pubblicizzi piatti prelibati. La Via, invece, non è in apparenza così attraente, ma il profitto che essa offre è inesauribile.
XXXVI
Ciò che si sta riducendo è certamente stato ampio.
Ciò che si sta indebolendo è certamente stato potente.
Ciò che sta deperendo è certamente stato fiorente.
Ciò da cui si sta prendendo è di certo ciò a cui fu dato.
Capirlo è comprendere la sottigliezza della natura
che fa prevalere il molle sul duro, il debole sul forte.
Come il pesce non può saltar fuori dall’acqua profonda,
così conviene che le risorse dello Stato restino segrete. (1)
NOTA
1) La terza parte di questo capitolo non sembra essere unita alle precedenti da un nesso logico individuabile. Analoghe incongruenze si
riscontrano anche in altri capitoli dell'opera.
Il Dào Dé Jīng si presentava originariamente come una serie ininterrotta di ideogrammi non separati tra di loro da alcuna cesura né da alcun segno di interpunzione, anche se forme rudimentali di suddivisione in capitoli appaiono già nei rotoli di Măwángduì.
La suddivisione in 81 capitoli è dovuta alla tradizione, tant’è vero che esistono antiche versioni del testo in cui il numero di capitoli risulta inferiore.
È molto probabile che gli antichi “editori” dell’opera abbiano scelto di suddividerla in 81 capitoli perché 81 è il quadrato di 9, che è un numero
sacro.
Secondo alcuni studiosi, le difficoltà di interpretazione del Dào Dé Jīng deriverebbero in parte dal carattere arbitrario di questa suddivisione,
che non sempre sarebbe stata effettuata con mano felice, oltre che dallo stile estremamente conciso ed essenziale, dal linguaggio poetico e dal lessico arcaico dell’opera.
Secondo altri, invece, molte oscurità nascerebbero da un fattore puramente materiale. Come si sa i testi dei classici vennero copiati sulla carta da testi scritti sulla seta che a loro volta erano stati copiati da testi più antichi incisi su listelli di bambù tenuti insieme da strisce di seta in modo da formare tavolette di varia lunghezza, che, avvolte, assumevano la forma di rotoli. Si può immaginare che i monaci incaricati di ricopiare testi depositati da decenni negli archivi dei monasteri trovassero spesso le strisce di seta corrose dal tempo o rosicchiate da animali ed insetti ed i listelli di bambù ammucchiati in disordine l’uno sull’altro. I tentativi di ricomposizione del testo, inevitabilmente soggettivi, avrebbero portato a risultati più o meno lontani dal testo originale.
XXXVII
La Via non agisce, eppure nulla rimane incompiuto.
Quando principi e re la seguono,tutto si trasforma.
Se ,dopo la trasformazione, permane il desiderio d’agire,
facciamo ricorso alla semplicità di ciò che non ha nome.
La semplicità di ciò che non ha nome spegne le passioni.
Quando svaniscono le passioni regnano pace e tranquillità.
E così, senza costrizione, il mondo intero sarà in ordine.
XXXVIII
Negli uomini più virtuosi la pratica della virtù è schietta e spontanea. (1)
Nei meno virtuosi la pratica della virtù è cosa deliberata ed artificiale.
È per questo che i primi possiedono la virtù ed i secondi ne son privi.
I più virtuosi praticano l’inazione e sono completamente disinteressati.
I meno virtuosi agiscono in vista del perseguimento di determinati fini.
Gli uomini più generosi sono compassionevoli senza rendersene conto
I più giusti si conformano alla rettitudine perché la ritengono un bene.
Coloro che si fondano soprattutto sulle norme (2),
se la gente non obbedisce, ricorrono alla forza.
Perciò si dice che,
smarrita la Via, subentra la virtù;
smarrita la virtù, subentra l’umanità;
smarrita l’umanità, subentra la giustizia;
smarrita la giustizia, subentrano le norme.
Che cosa sono le norme
se non una lieve patina di lealtà e di sincerità
e l’ inizio del disordine?
Che cos’è il falso sapere
se non un orpello della Via
e l’inizio della follia?
Perciò il saggio
costruisce su ciò che è solido
e non già su ciò che è fragile,
si fida della sostanza,
non delle apparenze,
e, sulla base di questo,
sceglie ciò che è buono,
scarta ciò che è cattivo. (3)
NOTE
(1) Secondo la dottrina taoista, per la quale la Via è “senza nome” ( 無 名 “wú míng” ) e “senza forma” ( 無 象 "wú xiàng" ), la perfezione è
evidentemente l’immedesimarsi spontaneo ed incosciente nell’insieme indistinto dell’universo.
Purtroppo, l’uomo è ormai lontano da questo mitico stato di beatitudine e vive in un mondo di nomi e di forme nel quale non potrà più raggiungere la perfezione ma solo sperare di avvicinarvisi.
Chi vi si approssima di più è il saggio che pratica la virtù ( 德"dé" ) istintivamente, senza proporsi alcun fine. Egli “è” virtuoso perché vive in
armonia con le leggi eterne del cosmo.
Viene poi chi “fa” il virtuoso, cioè chi ha già smarrito l’originaria consonanza con la natura e cerca di ritrovarla, senza troppo successo, attraverso la deliberata ricerca di atteggiamenti virtuosi.
Coloro che “vogliono” essere virtuosi hanno ormai perso di vista il cammino tracciato dalla natura, e, a differenza dei saggi, che
applicano senza alcuno sforzo l’aurea regola del “non agire” ( 無 為 “wú wéi”), cercano vanamente di recuperare l’innocenza primitiva attraverso
l’azione.
La forma più elevata di azione è quella ispirata dalla“umanità” ( 仁 "rén" ), che è empatia con gli altri, amore e compassione. Questa azione è disinteressata e non mira ad ottenere alcun riscontro.
La forma meno elevata di azione è quella ispirata dall’equità o rettitudine ( 義 "yí" ), che tende a raggiungere un risultato realizzando la giustizia fra
gli uomini.
Queste due forme di azione sono ancora caratterizzate dal fatto che esse
escludono qualsiasi tipo di pressione morale o fisica.
L’ultimo grado di decadenza è rappresentato dal “lĭ” 禮 (rito o cerimonia), con il quale entrano ormai in gioco le prescrizioni che esigono di
essere rispettate per garantire l’ordine e la coesione all’interno della collettività. Il progressivo degrado che, nella concezione taoista, è
all’origine delle forme sempre più elaborate di organizzazione
sociale e statuale trova puntuale riflesso nel fatto che le prescrizioni
comportano ormai un elemento di coercizione fosse pure soltanto sotto forma di riprovazione morale.
Si giunge così al fondo della scala. Una società basata sulla costrizione anziché sulla spontanea adesione alla Via è evidentemente quanto di
più lontano ci può essere dall’ideale taoista.
(2) Ho usato il termine “norme” perché, parlando di “lĭ” (riti), Lăo Zĭ ne mette espressamente in risalto l’elemento prescrittivo. Questo termine
non va tuttavia inteso nel senso di “leggi” 法 “fă”, cioè quei precetti la cui violazione non comporta più soltanto una sanzione morale, ma anche punizioni materiali di diversa gravità. La scuola legalistica 法 家 (“fă jiā”) che sviluppò l’idea di una società fondata su rigide leggi il cui rispetto era assicurato da un sistema di pene particolarmente severe fiorì infatti in epoca posteriore all’elaborazione del Dào Dé Jīng, che ne avrebbe comunque dato, se l’avesse conosciuta, un giudizio ancor peggiore di quello espresso sui riti.
(3) Il testo cinese dice semplicemente “lascia quello, prende questo” ( 去 彼 取 此 "qù bì qŭ cĭ").È però evidente da tutto il contesto che si tratta di una
scelta di carattere etico.
XXXIX
Ecco le cose che hanno raggiunto l’unità:
Il cielo e la terra, gli spiriti e le valli,
l’universo intero, i principi ed i re.
L’unità mantiene puro il cielo e quieta la terra,
riempie di intelligenza gli spiriti e colma le valli,
dà vita e nutrimento a tutte le cose del mondo,
fa di principi e sovrani il modello dei loro sudditi.
Ecco il frutto dell’unità:
Se il cielo non fosse puro, si spaccherebbe.
Se la terra non fosse quieta, sprofonderebbe.
Se gli spiriti non comprendessero, perirebbero.
Se le valli non fossero colme, si inaridirebbero.
Se il mondo non crescesse, si estinguerebbe.
Se principi e re non fossero di modello a tutti
perderebbero il trono e cadrebbero in rovina. (1)
È per questo che i nobili non dimenticano le loro origini modeste
sapendo che tutto ciò che s’innalza nasce dal basso.
È per questo che principi e re
chiamano sé stessi “orfani”,”indigenti”, “miseri”. (2)
Non è questa la prova del fatto
che riconoscono l’umiltà dei loro inizi?
E non è forse vero?
Il massimo della gloria non porta con sé alcuna gloria.
Non desiderate gli oggetti preziosi.
Gemme e gioielli sono come la giada.
E che cos’è la giada? È solo una pietra. (3)
NOTE
(1) La dottrina esposta in questo capitolo potrebbe essere graficamente sintetizzata dal “taìjítú” 太 極 圖 , il “logo” del Taoismo, che si presenta
nella forma che segue:☯.
L’unità è il cerchio, che mostra al suo interno una parte bianca ed una parte nera. Ciò significa che ogni realtà contiene in sé elementi opposti:
nulla è completamente bianco e nulla è completamente nero. Solo la presenza contemporanea di elementi opposti forma l’unità di una cosa e ne garantisce l’equilibrio. L’eccesso di un elemento porta alla rovina ed alla distruzione: se il cerchio fosse tutto bianco si dissolverebbe sullo sfondo bianco e non esisterebbe più. Questo aspetto del pensiero cinese mi sembra particolarmente importante perché consente di evitare
una delle trappole in cui tende talvolta a cadere la cultura occidentale: il
manicheismo, vale a dire l’idea che possano esistere realtà totalmente
buone e realtà totalmente cattive. Chi comprende l’unità degli opposti
comprende la natura delle cose: il vuoto delle valli non è un valore in sé,
ma diventa un valore solo se visto in rapporto con i fiumi che riempiono le
valli, le irrigano e le rendono fertili. Allo stesso modo, i sovrani, ricchi e
potenti, possono compiere con profitto la loro missione solo se si ricordano costantemente di coloro che sono il loro esatto opposto, i poveri ed i deboli, e se ne prendono cura.
La metà bianca e la metà nera del cerchio possono essere visti come una specie di vortice, un ciclone in continuo movimento. Il puntino di colore diverso rappresenta, per così dire, l’occhio del ciclone. Chi si trova nell’occhio del ciclone è sottoposto a forze di estrema violenza, ma sa bene che, raggiunto il culmine, l’uragano non può che diminuire progressivamente d’intensità, per cessare infine del tutto. Sotto l’aspetto dottrinale, il puntino di colore diverso ci ricorda quindi che anche ( e soprattutto) quando un fenomeno sembra occupare ogni angolo della realtà rimane sempre (anche se latente) una parte del fenomeno opposto, da cui questo può cominciare la sua rinascita.
(2) L’abitudine di usare espressioni ispirate ad umiltà e modestia per indicare se stessi era così diffusa nell’antica Cina che, a poco a poco, tali espressioni soppiantarono quasi completamente il pronome di prima persona e persero, per così dire, la loro valenza originaria, divenendo poco
più di una clausola di stile. Solo così si spiega ad es.che un poeta famoso come Hán Yù si definisca 才 薄 “cái bó” “quest’ uomo di scarso talento”(cfr. la poesia “I Tamburi di Pietra” 石 鼓 歌 ).
Nello stesso modo, i sovrani chiamavano se stessi 孤(“gū” “solitario”, “orfano”), 寡 (“guă” "indigente", “inetto”, ”indegno”) 不 穀 (“bù gŭ”, “privo di risorse”, “miserabile”, termine che può essere inteso anche nel senso di capo di uno Stato insignificante).
Lăo Zĭ ci indica la ragione profonda di questo uso: la consapevolezza del fatto che le cose possono cambiare in un istante, che il culmine della gloria è ad un passo dall’inizio della rovina, che la ricchezza e la potenza sono nate dalla miseria e dalla debolezza e che anche il più splendido impero può da un attimo all’altro dissolversi nel nulla.
(3) Il testo cinese degli ultimi due versi si può interpretare in vari modi. Io
l’ho letto scandendolo in tre frasi distinte: Non desiderate oggetti preziosi. ( 不 欲 琭 “bú yú lù”) Gli oggetti preziosi sono come monili di giada.( 琭 如 玉“lù rù yù”) I monili (di giada) sono come pietre ( 珞 珞 如 石 “luò luò rù shí”). Questa lettura consente - a mio parere - di mantenere il parallelismo concettuale con le riflessioni che precedono, nelle quali è espressa l’idea della coincidenza degli opposti. Come i re si definiscono “orfani” perché sanno che la loro potenza è nata dal nulla e che, una volta giunta al culmine, ritornerà presto al nulla, come l’apice della gloria è al tempo stesso l’inizio della rovina, così, in determinate circostanze, anche la più rara e costosa delle pietre preziose, la giada, può di nuovo essere considerata da un momento all’altro ciò che essa realmente è (ed è
sempre stata agli occhi del saggio): una semplice pietra priva di qualsiasi
valore.
XL
Il movimento della Via è ciclico
ed il suo motore è la decadenza,
perché tutto nasce dall’essere
e questo nasce dal non-essere.
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