Missionari cattolici in Cina
Qualche settimana fa, un giornale cattolico ha proposto di designare come santo protettore dei malati di coronavirus il missionario lazzarista francese Jean-Gabriel Perboyre (1802-1840) (1). La proposta ha una sua precisa ragion d’essere. Jean-Gabriel Perboyre, nato nel 1802 a Le-Puech (dipartimento del Lot), fu infatti condannato alla pena capitale e poi ucciso, mediante strangolamento, l’11 settembre 1840, a Wŭhàn, morendo soffocato così come muoiono i malati di coronavirus, quando l’infezione colpisce i loro polmoni in modo così grave da causare un’insufficienza respiratoria.
Jean-Gabriel Perboyre non fu il primo missionario cattolico a subire il martirio in Cina. Alcune altre condanne a morte erano già state pronunciate da quando nel 1583 i Gesuiti avevano cominciato a predicare il Vangelo nel Celeste Impero.(2)
Occorre tuttavia notare che l’opera di evangelizzazione, pur incontrando da subito ostacoli e resistenze, aveva potuto beneficiare in un primo momento di una certa tolleranza da parte delle autorità.
Questa tolleranza derivava, probabilmente, da un concorso di fattori diversi, in primo luogo dalla mancanza, in Cina, di una vera religione nel senso che attribuiamo a questo termine noi occidentali, cioè nel senso di un rigoroso insieme di dogmi inattaccabili, di precetti imperativi e di dettagliate norme organizzative.
Senza entrare in un esame dettagliato dei vari culti esistenti in Cina prima dell’arrivo dei missionari occidentali - esame per il quale mi fanno difetto le necessarie conoscenze specifiche - credo però di poter affermare con una certa sicurezza che né il Confucianesimo, né il Taoismo, né il Buddhismo presentavano i caratteri tipici di una religione, nel senso occidentale del termine.
Ciò valeva, in particolare, per il Confucianesimo. Un personaggio fondamentale per lo sviluppo del pensiero cinese come Confucio fu soprattutto un moralista e si astenne sempre con cura dall’elaborare una propria dottrina religiosa. Si legge, a questo proposito, nei "Discorsi" (7,21) che “il Maestro non parlava mai di prodigi, di atti di violenza, di ribellioni e di esseri sovrannaturali”.
Si capisce quindi che il rispetto dei valori morali propugnato dal Confucianesimo risultasse, in linea di massima, compatibile con qualsiasi sistema teologico e che coloro che praticavano il Confucianesimo non si sentissero obbligati a rifiutare a priori alcuna dottrina religiosa.
La religiosità tradizionale, che tendeva a deificare fenomeni naturali o eroi mitici, un po’ come i politeismi del mondo classico (in particolare in Grecia e a Roma), era come questi ultimi tollerante per natura.(3)
L’approccio dei Gesuiti, che furono i primi missionari cattolici a penetrare in Cina negli ultimi decenni della dinastia Míng, fu improntato fin dall’inizio a integrare il cristianesimo nella società cinese mettendo in evidenza quanto i Cinesi e gli Occidentali avessero in comune, ad esempio in materia di precetti morali, e smussando, per quanto possibile, le rigide affermazioni dogmatiche che apparivano difficili da accettare a menti poco avvezze alle speculazioni teologiche.
Tipico della tendenza dei Gesuiti all’”adattamento” fu l’atteggiamento da essi assunto in relazione ai cosiddetti “riti cinesi”. Con questo termine si indicavano, in sostanza, due tipi di cerimonie: i riti tradizionalmente compiuti in onore degli antenati e i riti stagionali in onore del Cielo. I Gesuiti affermarono, fin dall’inizio della loro predicazione in Cina, che si trattava di pratiche civili per nulla in contrasto con la dottrina cattolica. (4)
La situazione cominciò a cambiare intorno al 1630 con l’arrivo dei primi missionari francescani e domenicani, fermamente convinti che i “riti cinesi” fossero espressione di credenze religiose incompatibili con il cristianesimo e quindi da combattere in modo risoluto.
La gerarchia ecclesiastica non prese subito una posizione chiara e definitiva sul problema, lasciando, in un primo tempo, ai singoli missionari un ampio margine di discrezionalità. Ancora nel 1659 si potevano leggere nella “Istruzione per i vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina” , emanata dalla Congregazione “de Propaganda Fide”, le seguenti considerazioni: «Che cosa c’è … di più assurdo che trapiantare in Cina la Francia, la Spagna, l’Italia o qualche altro paese d’Europa? Non è questo che voi dovete introdurre, ma la fede, che non respinge né lede i riti e le consuetudini di alcun popolo, purché non siano cattivi, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli.”(5)
La controversia si sviluppò tuttavia con sempre maggiore virulenza.
Nel 1693, Charles Maigrot, della Società per le Missioni Estere di Parigi, vicario apostolico del Fújiàn 福建, vietò, per tutta la sua giurisdizione, la partecipazione dei convertiti cinesi ai riti tradizionali, che dichiarò incompatibili con la religione cattolica.
I Gesuiti reagirono inducendo nel 1700 lo stesso imperatore Kāngxī 康熙 ad attestare per iscritto che si trattava di riti puramente “civili” e perciò privi di qualsiasi rilevanza religiosa.
Nel novembre del 1704, al termine di una lunga istruttoria, il Sant’Uffizio confermò sostanzialmente , nella costituzione apostolica “Cum Deus Optimus”, le tesi di Maigrot.
Nel 1705, il legato pontificio Carlo Tommaso Maillard de Tournon fu inviato in Cina con l’incarico di comunicare a tutti i missionari l’obbligo di conformarsi alle decisioni della Santa Sede.
Ciò provocò una reazione assai negativa da parte di Kāngxī che, nel dicembre del 1706, emanò un decreto con cui regolamentava rigidamente la presenza e l’attività dei missionari cattolici in Cina.
La Santa Sede non mutò tuttavia opinione e, nel marzo del 1715, Papa Clemente XI ribadì con la bolla “Ex illa die” tutti i divieti menzionati nel decreto del Sant’Uffizio.
Un ultimo tentativo di conciliazione effettuato nel 1720 dal legato pontificio Carlo Ambrogio Mezzabarba fallì, anche se, per un momento, era sembrato che si potesse giungere ad un accordo.
Di conseguenza, l’Imperatore, nel 1721, decise di vietare definitivamente qualsiasi forma di proselitismo cristiano (6) e di espellere i missionari, salvo che questi si impegnassero formalmente a rispettare i “riti cinesi”. (7)
Non potendo assumere un tale impegno, espressamente vietato dalla gerarchia ecclesiastica, i missionari furono costretti a lasciare il paese. (8) Il loro posto fu preso da preti cinesi, formati a Macao, in Siam o, addirittura, presso il Collegio della Sacra Famiglia fondato dal Padre Matteo Ripa a Napoli (9), che operarono tuttavia in condizioni di semiclandestinità. Verso la metà del XVIII° secolo un certo numero di missionari spagnoli riuscirono ad introdursi di nascosto in Cina, anche se la loro presenza nel paese era ora manifestamente illegale. Nel corso degli anni parecchi di loro furono denunciati alle autorità, processati e condannati a morte. (10)
È interessante esaminare le accuse che vennero sollevate nei loro confronti, oltre quella, ovvia, di ingresso clandestino nel paese.
Salta subito agli occhi che non sono accuse di carattere teologico. I missionari non vengono accusati di negare i dogmi religiosi della Cina, ammesso che le credenze religiose cinesi possano a rigor di termini essere chiamate dogmi. Ciò che viene loro imputato è piuttosto di mettere in crisi, nelle famiglie dei convertiti, quelli che sono i pilastri della morale tradizionale.
Anzitutto, la guida spirituale che i missionari assumono nei confronti dei singoli individui pregiudica l’autorità tradizionale del capofamiglia, che, anche se continua a indirizzare il comportamento dei membri del gruppo familiare, subisce ormai, in larga misura, la concorrenza di un estraneo.
L’importanza dei legami familiari è anche scossa dall’accento che i missionari pongono sull’idea della filiazione spirituale, che vede il cristiano come “figlio di Dio”, debitore del proprio affetto e responsabile delle proprie azioni verso il Creatore e verso il redentore Gesù Cristo. Questa filiazione spirituale non può che indebolire il rispetto assoluto che, nella tradizione cinese, era riservato ai genitori naturali.
Se si aggiunge a tutto ciò, il rigetto dei riti in onore degli antenati, appare evidente che l’azione dei missionari si presenta come una minaccia manifesta alla nozione di famiglia quale è stata elaborata dalla società cinese nel corso dei secoli.
Il comportamento dei missionari viene anche visto come un attentato alla morale. Il fatto che, nell’assistere alla messa, le donne siedano vicino agli uomini e che, per confessarsi, si appartino addirittura con i preti stranieri confabulando con loro a bassa voce e confidando loro i fatti intimi della vita familiare e coniugale viene percepito non soltanto come una violazione della decenza e delle convenienze sociali, ma anche come una indebita interferenza nelle questioni interne delle famiglie.
Suscita reazioni negative anche la creazione di comunità monastiche femminili, in quanto si ritiene che sottrarre le donne al matrimonio sia contrario alle tendenze naturali dell’essere umano e dannoso per la società. È vero che l’esistenza di comunità di donne votate alla verginità si riscontra già in epoche precedenti nell’ambito di alcune branche del Buddhismo, ma occorre notare che anche questo fenomeno era oggetto di una certa riprovazione sociale. (11)
Un altro tipo di accuse si avvicina a quelle che venivano generalmente formulate nei confronti delle sette: la segretezza delle loro attività e il fanatismo dei loro membri.
La segretezza delle attività missionarie e del culto cristiano si può facilmente spiegare con i divieti e le sanzioni che colpivano il loro esercizio in pubblico. Ciò non toglie che ogni attività segreta venga normalmente percepita come una possibile minaccia all’ordine pubblico. In Cina, inoltre, le autorità erano particolarmente sensibili a questo riguardo, perché molte rivolte contro il potere costituito erano state organizzate da società segrete, spesso di matrice religiosa.
Quanto al fanatismo, la determinazione dei convertiti nella difesa delle proprie credenze contrastava nettamente con l’atteggiamento molto più rilassato della maggioranza della popolazione in materia religiosa e poteva anche indurre a pensare che la fedeltà al Cristianesimo prevalesse nei convertiti sulla lealtà nei confronti del potere.
Nonostante le condanne a morte sopra ricordate, i Cristiani non furono tuttavia oggetto di una persecuzione sistematica e costante, estesa a tutto il territorio dell’Impero, cosicché nella seconda metà del XVIII° secolo non si contarono altri martiri.
Quando, verso la fine del XVIII° secolo e agli inizi del XIX°, la pressione occidentale cominciò a salire, in particolare con una serie di ambasciate del Regno Unito, che non ebbero successo, ma che dovevano ben presto lasciare il posto a molto più efficaci spedizioni militari (12), la persecuzione fu motivata con un’altra ragione che fa già capolino in periodi molto anteriori: l’accusa ai Cristiani di essere la “quinta colonna” delle potenze europee.
Tale sospetto era già stata formulato, in termini molto chiari, dall’imperatore Yōngzhèng 雍正, il quale, ricevendo il 1°luglio 1724 una delegazione di missionari venuta ad implorarlo di revocare i provvedimenti anticristiani da lui adottati, dichiarò loro:” Che cosa direste se io inviassi gruppi di bonzi e di lama nei vostri paesi a predicare le nostre dottrine religiose? ...Voi desiderate che tutti i Cinesi diventino cristiani. So bene che è la vostra religione che vi impone di cercare di convertirli. Ma, se riusciste nel vostro intento, che cosa accadrebbe di noi? Non diventeremmo i sudditi dei vostri re? Le persone da voi convertite giurano soltanto per voi. In caso di disordini e di rivolte, ascolterebbero soltanto le vostre raccomandazioni. È vero che in questo momento non c’è da aver timore, ma, quando le navi europee arriveranno a migliaia, …il rischio potrebbe essere enorme. L’Imperatore mio padre ha perduto molta della stima che godeva tra le classi colte a causa della condiscendenza che ha mostrato nei vostri confronti lasciando che vi installaste nel paese…”.(13)
Lo troviamo ripetuto, ma ormai come una vera e propria accusa, nei confronti dei missionari e dei convertiti cristiani, all’inizio del XIX° secolo (14)
La situazione dei missionari diventa estremamente difficile quando scoppia tra la Gran Bretagna e il Celeste Impero la prima guerra dell’oppio. È proprio nel contesto di tale guerra che si situa il supplizio di Jean-Gabriel Perboyre, che abbiamo menzionato all’inizio di questo articolo.
La condanna a morte del padre Perboyre sarà anche l’ultima pronunciata dal governo imperiale nei confronti dei missionari europei.
I trattati di pace conclusi con la Gran Bretagna in seguito alle guerre dell’oppio e gli accordi successivamente stipulati con le altre potenze occidentali contempleranno infatti la piena libertà dell’attività missionaria, cui non potrà più essere opposto alcun ostacolo da parte delle autorità cinesi. (15)
NOTE
1) Jean-Gabriel Perboyre fu dichiarato venerabile nel 1843 da papa Gregorio XVI, beatificato nel 1889 da papa Leone XIII e santificato nel 1996 da papa Giovanni Paolo II.
2) Il primo martire della Cina fu il domenicano spagnolo Francisco de Capillas, decapitato a Fúzhōu 福州 il 15 gennaio 1648. Si trattò tuttavia di un episodio isolato, perché la dinastia Míng, che aveva regnato sulla Cina fino al 1644, aveva praticato una politica di tolleranza religiosa e la dinastia Qīng, che le succedette in quell’anno, dimostrò, nei decenni successivi, una certa apertura nei confronti del Cristianesimo.
3) Va ricordato, a questo proposito, che le persecuzioni contro i Cristiani all’epoca dell’Impero Romano non derivarono, in mancanza di una religione di Stato, da una avversione ideologica delle autorità nei confronti della dottrina cristiana, bensì dall’intrinseca incompatibilità del Cristianesimo, religione monoteistica, che aveva una visione esclusiva e totalitaria del mondo e che voleva improntare a sé tanto la vita dei singoli quanto la struttura della società, con un sistema sostanzialmente laico ed agnostico quale era quello dell’Impero Romano.
4) Con riferimento ai sacrifici celebrati in onore del Cielo, venne tuttavia precisato che i convertiti potevano assistervi come spettatori ma non parteciparvi in qualità di officianti.
5) Massimo Marocchi ,”Colonialismo, cristianesimo e culture extraeuropee. La istruzione di Propaganda Fide ai vicari apostolici dell’Asia Orientale (1659)”, Jaca Book 1980, pp.50-53. L’Istruzione fu redatta in latino dal prete scozzese William Lesley (1619-1707)
6) Il decreto di Kāngxī esprime, con riferimento alla bolla di Clemente XI del 1715, un giudizio particolarmente severo sull’atteggiamento della Santa Sede e dei suoi rappresentanti:
“Leggendo questa bolla mi sono reso conto che gli Occidentali sono gente di vedute veramente ristrette. È impossibile discutere con loro perché non sono capaci di affrontare questioni importanti con l’apertura mentale di cui noi facciamo prova in Cina. Non ce n’è uno che conosca e comprenda la cultura cinese e le loro osservazioni appaiono spesso assurde e ridicole. A giudicare da questa bolla, il cristianesimo non è diverso dalle piccole sette fanatiche che troviamo talora fra i Buddhisti o fra i Taoisti. Non ho mai visto un documento che contenesse tante assurdità come questo. D’ora in poi gli Occidentali non saranno più autorizzati a predicare in Cina per evitare ulteriori problemi”. (v. Wikipedia alla voce “Chinese Rites controversy).
7) La presenza dei missionari in Cina fu legata all’ottenimento di un permesso di soggiorno chiamato 票 (“piào”), il cui rilascio era subordinato all’impegno di rispettare i “riti cinesi”. Si veda, a questo riguardo, la tesi di dottorato intitolata “Defending Christianity in China: the Jesuit defense of Christianity in the Lettres édifiantes et curieuses § rujianlu in relation to the Yongzheng prescription of 1724”, presentata nel 2008 da Jocelyn M.N. Marinescu al Department of History College of Art and Sciences Kansas State University.
8) Alla fine, rimasero in Cina soltanto quei religiosi, quasi tutti Gesuiti, che ricoprivano alla Corte dell’Imperatore incarichi artistici o scientifici, ma vi rimasero in qualità appunto di artisti o di scienziati, senza alcuna possibilità di svolgere attività d’apostolato.
Nel 1742, con la bolla ”Ex quo singulari”, papa Benedetto XIV, bandì definitivamente i “riti cinesi”, impose ai missionari il giuramento di rispettare tale divieto e proibì ogni ulteriore discussione sull'argomento.
La Chiesa ritornò sulla questione soltanto nei primi decenni del secolo scorso. Nel 1935 la Congregazione “de Propaganda Fide” invitò i vicari apostolici in Cina a chiedere attestazioni ufficiali sulla natura dei ”riti cinesi”. Il governo cinese garantì ancora una volta che si trattava di riti essenzialmente civili. Con l’istruzione “Plane Compertum” del dicembre 1939, fu allora autorizzata la partecipazione dei cattolici cinesi a tali riti e fu abolito il giuramento del 1742.
9) Il Collegio della Sacra Famiglia a Napoli fu creato nel 1724 da Padre Matteo Ripa, che era stato per 13 anni missionario in Cina, come istituto di educazione missionaria per i giovani cinesi, allo scopo di formare un clero cinese autoctono.
A Macao, colonia portoghese, esistevano ovviamente dei seminari per la formazione di sacerdoti.
Nel regno del Siam era stato aperto nel 1665 a Ayutthaya un seminario dedicato a San Giuseppe.
10) Il domenicano spagnolo Pedro Sans y Jordà, vicario apostolico del Fújian, fu imprigionato e torturato, poi condannato a morte e decapitato a Fúzhōu il 26 maggio 1747.
Altri quattro missionari domenicani (Francisco Serrano Frías, Juan Alcober Figuera, Joaquín Royo Pèrez e Francisco Díaz del Rincón) furono giustiziati a Fúzhōu il 28 ottobre 1748.
Contro i sacerdoti del Fújiàn aveva giocato anche il fatto che alcuni banditi operanti nella zona erano di fede cristiana e che i missionari erano altresì stati accusati, non si sa con quale fondamento, di traffico d’armi.
11) Nel capitolo intitolato “ Lí Lóu, prima parte“ 離 婁 上 del Mèngzĭ 孟 子, par. 26, si attribuisce al filosofo la massima seguente : “ Ci sono tre cose che dimostrano mancanza di pietà filiale: la più grave di esse è non avere discendenti ” ( 不孝 有 三, 無 後 為 大 ,”´bú xiào yŏu sān, wú sūn wéi dà”).
12) Dopo il fallimento delle missioni di Lord Macartney nel 1793 e di Lord Amherst nel 1816, la Gran Bretagna decise di ricorrere alle maniere forti per imporre alla Cina il libero commercio (con particolare interesse per il commercio dell’oppio) e l’apertura dei porti. Le cosiddette “guerre dell’oppio” ebbero come conseguenza anche il riconoscimento del diritto dei missionari occidentali di stabilirsi e di predicare liberamente nel Celeste Impero.
13) Le parole pronunciate da Yōngzhèng sono riportate in una lettera scritta in francese il 16 ottobre 1724 ad un confratello dal gesuita Joseph-Anne-Marie de Moyriac de Mailla (1669-1748), che fu missionario in Cina dal 1703 fino alla data della sua morte. La lettera figura in una raccolta intitolata « Lettres édifiantes et curieuses de Chine par des missionnaires jésuites , 1702-1776», Paris, Garnier-Flammarion, pp. 236-238.
14) L’irrigidimento causato dalla crescente pressione delle potenze occidentali potrebbe in parte spiegare perché, dopo una sessantina d’anni relativamente tranquilli, nel periodo tra il 1814 e il 1840 sono di nuovo messi a morte una dozzina di missionari europei e di convertiti cinesi.
15) L’art. VIII del Trattato di pace concluso a Tientsin il 26 giugno 1858 tra la Regina della Gran Bretagna e l’Imperatore della Cina dispone quanto segue:
“The Christian religion, as professed by Protestants or Roman Catholics, inculcates the practice of virtue, and teaches man to do as he would be done by. Persons teaching or professing it, therefore, shall alike be entitled to the protection of the Chinese authorities, nor shall any such, peaceably pursuing their calling, and not offending against the law, be persecuted or interfered with.” (“La religione cristiana, quale è professata dai Protestanti e dai Cattolici Romani, promuove la pratica della virtù e insegna agli uomini a comportarsi come vorrebbero che gli altri si comportassero nei loro confronti. Coloro che insegnano o professano tale religione avranno perciò titolo a beneficiare, essi pure, della protezione delle autorità cinesi e chiunque di essi persegua pacificamente la propria vocazione, senza infrangere la legge, potrà farlo senza essere perseguitato né intralciato nelle sue attività.”
Un’analoga disposizione si ritrova all’art. XXIX del Trattato stipulato a Tientsin il 18 giugno 1858 tra gli Stati Uniti d’America e l’Impero della Cina:
“The principles of the Christian religion, as professed by the Protestant and Roman Catholic churches, are recognized as teaching men to do good, and to do to others as they would have others do to them. Hereafter those who quietly profess and teach these doctrines shall not be harassed or persecuted on account of their faith. Any person, whether citizen of the United States or Chinese convert, who, according to these tenets, peaceably teach and practice the principles of Christianity, shall in no case be interfered with or molested.” (“I principii della religione Cristiana, quali sono professati dalle chiese Protestante e Cattolica Romana, insegnano agli uomini a fare il bene e a comportarsi con gli altri come vorrebbero che gli altri si comportassero con loro. Perciò, coloro che professano e insegnano pacificamente queste dottrine non dovranno essere ostacolati né perseguitati a causa della loro fede. Ogni cittadino degli Stati Uniti o convertito cinese che, in ossequio alle sue credenze, predichi e pratichi pacificamente la dottrina cristiana, potrà farlo senza essere intralciato né perseguitato.")