IL RITORNO DEI WASEI KANGO
Sembra, a prima vista, una delle tante storie di emigrazione.
Molto tempo fa, la famiglia cinese Hànyŭ attraversò l’Oceano per andare a lavorare in terra straniera. Una volta installatasi nel paese di destinazione,cominciò presto ad adeguarsi alla realtà locale ed adattò il proprio cognome alla lingua del posto, divenendo la famiglia Kango.
I figli, cioè la seconda generazione di immigranti, si naturalizzarono con grande facilità e si mescolarono agli autoctoni, creando una nuova famiglia: i Wasei Kango.
Col passare degli anni, alcuni membri della famiglia, tormentati dalla nostalgia, ritornarono in Cina e ripresero il vecchio cognome, accompagnato da quello del paese di emigrazione. Sono ora conosciuti come i Rìzhì Hànyŭ, cioè i Hànyŭ nati in Giappone.
Questa storia ha però una particolarità che la distingue da tutte le altre: i suoi protagonisti non sono uomini, bensì parole. Il termine “hànyŭ” 漢 語 designa infatti i caratteri della scrittura cinese che, come si sa, non sono segni fonetici, bensì rappresentazioni di concetti.
È storicamente accertato che, nei primi secoli dell’era cristiana, i Giapponesi non avevano ancora elaborato una propria scrittura. Nel IV° secolo d.C., in seguito ai contatti stabiliti con i Cinesi attraverso la Corea, essi cominciarono ad utilizzare i caratteri cinesi ( in giapponese “ kanji”漢 字).
Si sviluppò allora un fenomeno assai interessante e complesso.
Era naturale che, utilizzati nel contesto della società giapponese, i caratteri cinesi venissero “tradotti”, cioè pronunciati col suono che corrispondeva nella lingua giapponese al concetto da essi espresso. Questa pronuncia fu detta “kunyomi” 訓 読 み, cioè “lettura esplicativa”o “pronuncia concettuale”.
Tuttavia, poiché la lingua cinese corrispondeva ad uno stadio di sviluppo sociale, scientifico ed intellettuale assai più avanzato di quello in cui si trovava, a quell’epoca, la popolazione giapponese, si constatò ben presto che innumerevoli concetti non avevano alcun corrispettivo nella lingua giapponese, per cui l’unica soluzione era di conservarne , nei limiti del possibile, la pronuncia originaria. Nacque così la pronuncia detta “onyomi” 音 読 み, vale a dire “lettura fonetica”. La pronuncia “onyomi” si affermò in molti casi, non soltanto per supplire alla mancanza di una pronuncia”kunyomi”, ma anche accanto a quest’ultima. Poteva infatti accadere che un carattere cinese avesse diverse sfumature di significato e che solo una di queste fosse coperta da una pronuncia “kunyomi”, rendendo così necessario trovare una diversa soluzione per esprimerne le altre.
Se si tiene conto del fatto che molti caratteri entrarono in Giappone a più riprese, ogni volta con nuove accezioni semantiche e nuove pronunce , secondo le diverse epoche e le diverse regioni di provenienza, si può accertare per parecchi “kanji” la presenza di numerose pronunce “cinesi” (“onyomi”) e talvolta, anche, “giapponesi” (“kunyomi”).
Una volta acclimatatisi in Giappone, i caratteri cinesi cominciarono tuttavia a vivere un’esistenza autonoma, avulsa dai successivi sviluppi della lingua cinese, e contribuirono, seguendo l’evoluzione della società giapponese, alla creazione di termini tipicamente giapponesi, i “wasei kango”和 製 漢 語.
Vocaboli quali 幕府(“bakufu”), 大名(“daimyō”), 和歌 (“waka”), 俳句 (“haiku”), 芸者(“geisha”) , 町人(“chōnin”) , 抹茶(“matcha”), 煎茶 (“sencha”), 和紙 (“washi”), 柔道(“jūdō”), 剣道( kendō”), 神道( “Shintō”), 将棋(“shōgi”), 道場(“dōjō”) , 切腹(“seppuku”) e molti altri si riferiscono a realtà esclusivamente giapponesi e non hanno per i Cinesi alcun significato o possono eventualmente avere un significato del tutto diverso.
I “wasei kango” sarebbero però rimasti un fenomeno puramente giapponese e del tutto irrilevante per la lingua cinese, se Giappone e Cina non fossero stati toccati (e travolti), nel XIX° secolo, dalla spinta delle Potenze occidentali, le quali cercavano, anche e soprattutto con la forza, di sottoporre i paesi dell’Estremo Oriente alla loro influenza politica, economica e culturale.
Di fronte a questa minaccia, le reazioni della Cina e del Giappone furono diametralmente opposte.
Il Celeste Impero cercò ostinatamente di conservare la propria cultura tradizionale, sottraendosi, finché gli fu possibile, a qualsiasi influenza esterna, con il risultato di rimanere, fino agli inizi del XX° secolo, nonostante sanguinosi conflitti con le Potenze, pressoché impermeabile alla cultura occidentale.
Il Giappone, al contrario, comprese fin dall’inizio che solo una rapidissima acquisizione della scienza e della tecnica occidentali in tutti i campi gli avrebbe permesso di dialogare in condizioni di parità con gli stranieri, salvaguardando la propria cultura ed i propri valori ancestrali. Questa politica fu sinteticamente espressa nello slogan “ wakon yōsai” 和 魂 洋 才(” spirito giapponese, tecnica occidentale”).
Ne conseguì, tra l’altro, la traduzione, in un brevissimo periodo di tempo, di una massa enorme di opere scientifiche occidentali, per la quale i traduttori giapponesi dovettero creare una impressionante quantità di neologismi.
È ovvio che se, in quello stesso scorcio di tempo, un analogo fenomeno si fosse sviluppato in Cina, gli studiosi cinesi avrebbero potuto creare un nuovo vocabolario scientifico, in modo del tutto indipendente da ciò che accadeva in Giappone. Ma non avvenne nulla di simile !
Quando finalmente, negli ultimissimi anni della dinastia Qīng e nei primi decenni della Repubblica, anche i Cinesi compresero che era ormai indispensabile assimilare le conquiste della civiltà occidentale , la lingua più adatta per veicolare il flusso di informazioni apparve il giapponese, che aveva già prodotto un importante lessico tecnico e scientifico direttamente trasponibile, grazie all’identità dei caratteri, in un testo cinese.
Fu così che fecero il loro ingresso nella lingua cinese i “wasei kango” 和 製 漢 語, che, quando sono usati in Cina, sarebbe più corretto chiamare 日 制 汉 语 “rìzhì hànyŭ “, cioè “vocaboli cinesi fabbricati in Giappone”. Ricordiamo (per citarne solo alcuni) 科学 (“kēxué”, in giapponese ”kagaku “,,”scienza”'), 銀行 (”yīnháng”, in giapponese “ginkō”, ”banca”), 医院 (”yīyuàn”, in giapponese “byōin”,”ospedale”), 社会 (“shèhuì”, in giapponese “shakai “,”società”), 電話 ( “diànhuà”, in giapponese “denwa”,”telefono”), 文化 (“wénhuà”, in giapponese “bunka”,”cultura”,”civiltà”),革命 (“gémìng”, in giapponese “kakumei “, “rivoluzione”)., 経済(“jīngj씓in giapponese “keizai”,”economia”(1), 数学(”shùxué, in giapponese “sūgaku”, “matematica”), (金融 “jīnróng”, in giapponese “kinyū”, “finanza”),(資 本 主 義 “zībénzhŭyì”, in giapponese “shihonshugi”, “capitalismo”) , (心 理 学 “xīnlĭxué”, in giapponese “shinrigaku”, “psicologia”), (物 理“wùlĭ, in giapponese “butsuri”, “fisica”).
In alcuni casi i Cinesi formarono tuttavia direttamente i propri termini, anche se con un procedimento logico analogo a quello seguito dai Giapponesi. Ad es. la bicicletta è per i Giapponesi 自 転 車 “jitensha”, mentre i Cinesi la chiamano 自 行 車 “zìxíngchē”, utilizzando, al posto del carattere 転 (“zhuān”,“muoversi”,”girare”), il carattere 行 (“xíng”,”andare”). Un caso analogo è quello del termine “oncologia” che i giapponesi traducono con 腫 瘍 学 (“shuyougaku” “scienza delle ulcere gonfie”), mentre i Cinesi lo traducono con 肿 瘤 学 (“zhŏngliúxué” “scienza dei noduli gonfi”).
Il prestito di termini scientifici stranieri attraverso il giapponese fu particolarmente intenso nei primi decenni del XX° secolo, nonostante la resistenza degli intellettuali che cercarono di opporsi a questa tendenza creando essi stessi, talora con successo, dei neologismi. Attualmente, ciascuno dei due paesi procede autonomamente alla traduzione della terminologia scientifica, anche se spesso si prescinde da una trasposizione concettuale e si opta per la soluzione assai più semplice della trascrizione fonetica. Sono i cosiddetti “loan words” che in giapponese vengono chiamati 外 来 語 (“gairaigo”), in cinese 外 来 词 (“wàiláicí”).
L’infittirsi delle relazioni tra la Cina ed il Giappone negli ultimi anni ha fatto sì che vengano ormai presi a prestito non solo termini del linguaggio scientifico, ma anche vocaboli della lingua corrente che spesso hanno addirittura una connotazione negativa. Così è stata osservata, in testi cinesi, la presenza di parole quali 不 倫 “bùlún” (dal giapponese “furin”) nel senso di “comportamento immorale”, ”adulterio” e 電 話 詐 欺 “diánhuà zhàqī” (dal giapponese “denwa sagi”) nel senso di “frode telefonica”.
Si è molto diffuso, di recente, l’uso di suffissi che, in giapponese, servono a formare categorie di parole.
Ad esempio:
1) 族, che in giapponese si pronuncia “zoku” ed indica una “famiglia”, un “gruppo” di persone o di cose, è spesso impiegato per designare una categoria di persone:
暴 走 族 bàozŏu- zú (giapponese: 暴 走 族 bōsō-zoku) le bande di motociclisti
自 行 车 族 zìxíngchē-zú (giapponese: 自 転 車 族 jitensha-zoku) le squadre di ciclisti
通 勤 族 tōngqín-zú (giapponese: 通勤族 tsūkin-zoku) i pendolari
独 身 族 dúshēn-zú (giapponese: 独身族 dokushin-zoku) i “single”
御 宅 族 yùzhái-zú (giapponese: 御 宅 族 otaku-zoku) i fanatici di un’attività, i “monomaniaci”
2) 風 , che in giapponese significa anche “stile”, “moda” è usato per indicare che qualcosa è “nello stile di”, “alla moda di”:
中 國 风 (2) zhōng guó-fēng (giapponese: 中 国 風 chūgoku-hū) alla cinese
日 本 风 rìbĕn-fēng (giapponese: 日 本 風 nihon-hū) alla giapponese
西 洋 风 xīyáng-fēng (giapponese: 西 洋 風 seiyō-hū) all’occidentale
3) 中, che in giapponese esprime l’idea di svolgimento, è usato per indicare che qualcosa è “in corso”:
营业中 yíngyé-zhōng (giapponese: 営業中 eigyō-chū) in affari
发卖中 fāmài-zhōng (giapponese: 発売中 hatsubai-chū) in vendita
准 备中 zhŭnbèi-zhŏng (giapponese: 準備中 junbi.chū) in preparazione
放 送 中 fàngsòng-zhŏng (giapponese: 放送中 hōsō-chū) in onda
休业中 xiūyè-zhŏng (giapponese: 休業中kyūgyō-chū) chiuso
4) 屋, che in giapponese si pronuncia “ya” ed esprime l’idea di “attività professionale”, “negozio”, è usato per indicare i mestieri e coloro che li esercitano:
海 鲜 屋 hàixiān-wú (giapponese: 魚 屋 sakana-ya) pescivendolo, pescheria
肉 屋 ròu-wú (giapponese: 肉 屋 niku-ya) macellaio, macelleria
茶 屋 chá-wú (giapponese: 茶 屋 cha-ya) casa da tè
水 果 屋 shuĭguŏ-wú (giapponese: 果 物 屋 kudamono-ya) fruttaiolo,frutteria
靴屋 xié-wú (giapponese: 靴 屋 kutsu-ya) calzolaio, calzoleria
书屋 shū-wú (giapponese: 本 屋 hon-ya) libraio, libreria
酒屋 jiŭ-wú (giapponese: 酒 屋 saka-ya) vinaio,vineria
花屋 huà-wú (giapponese: 花屋 hana-ya) fioraio, fioreria.
Da ultimo, esempi di “wasei kango” si riscontrano persino nello “slang”. Così, si può ritrovare il termine “ichiban” いちばん (一番), che in giapponese serve a formare i superlativi, trasformato in “yījíbàng” 一 級 棒 nel gergo degli adolescenti cinesi col significato di “numero uno”, “il meglio”. (3)
NOTE
1) La storia di questa traduzione è molto interessante. Il traduttore giapponese si sarebbe infatti ispirato ad una massima di Cáo Pī 曹 丕, fondatore della dinastia Wèi 魏 朝 , che è del seguente tenore: “経 世 済 民” (“ in cinese” jīng shì zài mín”, in giapponese “ keisei zaimin”), vale a dire: “Mantieni in ordine il mondo ed il popolo ne sarà avvantaggiato”.Il concetto di “economia” sarebbe così stato tratto dall’osservazione che la stabilità sociale porta benessere.
2) Occorre ricordare che, a causa dell’adozione di caratteri semplificati nella Repubblica Popolare Cinese, parole composte con i medesimi caratteri possono spesso risultare graficamente diverse secondo che siano scritte con caratteri giapponesi o cinesi tradizionali oppure con caratteri semplificati.
3) Ho tratto la maggior parte degli esempi di “wasei kango” qui riportati da un interessante articolo pubblicato nel settembre 2012 dal Prof. Xuexin Liu dello Spelman College di Atlanta con il titolo:”Chinese Lexical Borrowings from Japanese as an Outcome of Cross-Cultural Inflence”.